Si dice che chi muore giovane è caro agli dei, ma sappiamo che non è vero. Anzi chi muore giovane lascia un vuoto più grande, un ventaglio di domande su quale sorte gli avrebbe riservato il destino. È il caso di Alessandro Leogrande, scrittore, giornalista e giovane uomo del sud, per la precisione di Taranto, città bella e terribile.
Apparteneva a quella razza di intellettuali meridionali che crescono presto – lo ricordo giovanissimo, magro e scamiciato, ma già maturo e politico nei ragionamenti mai improvvisati – spesso destinati a spegnersi dopo i fuochi di artificio della gioventù. Non è stato il caso di Alessandro, maturato libro dopo libro fino alla trilogia Uomini e caporali, Il naufragio e La frontiera, inchieste rigorose, molto documentate, in cui si alternava la ricerca sul campo alla lettura degli atti ufficiali. Aveva imparato dai maestri: Kapucinski, la Aleksievic, ma anche Stajano e Giovannino Russo. Libri uniti dalla necessità di raccontare il presente in una prospettiva storica, attenti ai destini degli ultimi, sballottati dagli effetti della globalizzazione. Il suo battesimo del fuoco furono i reportage sul G8 di Genova per Radio Tre. Aveva meno di 25 anni ma fu all’altezza del compito. Cresciuto nelle riviste di Fofi, l’ultima scuola militante che si poteva frequentare alla fine del XX secolo, ne fu anche l’ultimo allievo, uno dei migliori. Non tradì, non divenne personaggio, ma al tempo stesso seppe tendere infiniti fili, alieno dallo spirito settario che spesso caratterizza le minoranze. Ho ricordi personali di incontri in molti luoghi diversi, anche nella sua Taranto, sempre scambiando notizie, informazioni, giudizi, uniti dalla passione per i grandi meridionalisti (Salvemini su tutti), ma anche dalle vicende del nostro calcio più scassato. La sua è una perdita grave per la cultura italiana.