1.
Nel Novecento, la mitizzazione più appariscente ed equivoca della Grecia antica è stata tentata dai filosofi che hanno esaltato le fonti presocratiche, giudicando tutta la storia del pensiero da Socrate e Platone fino alla modernità come un compatto processo di razionalizzazione – cioè di tradimento e d’impoverimento – delle originarie verità tragiche e sapienziali racchiuse in quelle fonti. Per questi filosofi, la scienza strumentale e tecnocratica che asservisce l’uomo moderno è figlia legittima dell’idealismo platonico. Si tratta di un mito derivato dalle intuizioni antropologiche ed estetiche di Nietzsche, addomesticate in senso metafisico o magari esoterico, e accordate alla fascinazione primitivistica di molta cultura “decadente”. Il suo cantore più noto è Heidegger, ma sue versioni degradate e spesso involontariamente parodiche sono diventate luoghi comuni tardonovecenteschi grazie a numerosi ripetitori del tipo di Emanuele Severino. Questo mito non è rimasto estraneo neppure a correnti filosofiche molto distanti: come la Scuola di Francoforte, che ha cercato a sua volta di stabilire un legame tra l’“illuminismo” tracotante della società di massa e le sue presunte origini classiche.
Ma altri intellettuali, più o meno coetanei del secolo breve, hanno proposto un modello di rapporto meno appariscente, meno pretenzioso e forse più fecondo con queste origini. La loro passione politica, e il bisogno d’interrogare i testi per capire “come vivere”, li hanno preservati da ogni sacerdotale profondismo e da ogni retorica accademico-apocalittica, esattamente per le stesse ragioni per cui li hanno tenuti lontani dalle ideologie del progresso. La loro Grecia non ha nulla di ebbro o estetizzante; e non ha neanche i lineamenti sommari di chi se n’è fabbricato una immagine di comodo solo per leggervi in controluce i destini moderni. Gli intellettuali a cui alludiamo amano il loro oggetto di studio, e quindi ne rispettano la complessità e la distanza; ma al tempo stesso, e proprio per questo, sentono l’urgenza di dialogare in modo insieme umile e coraggiosamente diretto con le parole e le idee dei poemi epici e dei tragici, dei primi filosofi e di Platone.
Pensiamo ad Hannah Arendt, a Simone Weil. Ma pensiamo anche al meno noto Nicola Chiaromonte (1905-1972), che si confrontò con entrambe: che, come la Weil impegnato nella guerra civile spagnola, ragionò con parole simili alle sue sull’incapacità moderna di sottoporre a un «limite» i comportamenti e di esaminare eticamente la «forza»; e che come la Arendt, conosciuta negli Stati Uniti, sostenne l’irriducibilità della violenza a «mezzo» teoricamente giustificabile e analizzò i paranoici circoli viziosi delle ideologie contemporanee, contrappose al loro cieco dinamismo un immaginario spazio politico dai connotati teatralmente greci e radunò attorno a sé piccoli gruppi di amici con cui leggere i classici
2.
La storia di Chiaromonte, liberalsocialista sui generis o meglio libertario singolarmente religioso, si potrebbe raccontare almeno in parte riferendosi a quella delle riviste con le quali entrò in contatto, senza peraltro quasi mai identificarcisi. Ventenne già convinto dell’assolutezza dei valori morali, esordì sul «Mondo» di Giovanni Amendola e sulla protestante «Conscientia». Collaborò a «Solaria», che attraverso lo schermo della letteratura riuscì ad aprirsi alla cultura europea, e a preservare alcuni frutti dell’eredità gobettiana, negli anni in cui Mussolini eliminava le opposizioni. Consegnò lungimiranti analisi del fascismo ai «Quaderni» di Giustizia e Libertà, gruppo che frequentò nell’esilio parigino degli anni Trenta e che poi abbandonò con gli altri giovani “proudhoniani” legati ad Andrea Caffi. Sbarcato in America all’inizio della seconda guerra mondiale, lasciò una forte impronta nel dibattito degli intellettuali radical newyorchesi scrivendo sulla «Partisan Review» e su «politics», oltre che sulla salveminiana «Italia libera». Infine, tornato nel dopoguerra in patria, divenne il critico teatrale del «Mondo» liberal-progressista di Mario Pannunzio, e redasse con Ignazio Silone «Tempo presente», un mensile che criticò senza sconti il totalitarismo comunista ma anche la cultura e la tecnica politica delle società affluenti occidentali, e che, pur traendo ispirazione dalle tradizioni del socialismo democratico care a entrambi i direttori, non si fece portavoce di nessuna proposta terzaforzista.
Purtroppo, a differenza di quelli di Arendt e Weil, gli scritti di Chiaromonte restano quasi introvabili. Da decenni, i grandi editori italiani li rifiutano o li mandano rapidamente al macero. Onore quindi a «Una città», bellissima rivista libertaria forlivese e degna erede dei migliori periodici politico-culturali del secolo scorso, che oggi si fa editrice pubblicando Fra me e te la verità. Lettere a Muska. Si tratta di un carteggio tra Chiaromonte e Melanie von Nagel (1908-2006) curato da Wojciech Karpiński e Cesare Panizza, e venuto alla luce dopo un lungo lavoro di scelta svolto nei decenni scorsi dalla corrispondente insieme alla vedova dello scrittore.
In un intellettuale così socratico, che non si preoccupò di pubblicare libri, e che alimentò le sue riflessioni saggistiche attraverso un continuo dialogo con gli amici, le lettere non sono una trascurabile appendice all’opera. Specie se i destinatari somigliano alla von Nagel. Nata dall’unione tra un aristocratico bavarese e una ricca newyorchese, cresciuta in Italia e vissuta in America, sposata a un pittore daghestano e poi, dopo la morte del marito, entrata in un’abbazia del Connecticut come suora benedettina, questa donna coltissima e poliglotta doveva avere una qualità magnetica, se colpì tanto l’austero Chiaromonte – che secondo la sua amica Mary McCarthy diffidava per istinto delle donne intelligenti – e se in seguito riuscì a nutrire anche le idee di un altro critico radicale della modernità come Ivan Illich. La qualità della von Nagel non possiamo verificarla qui direttamente (nella raccolta, purtroppo, di suo ci sono soltanto due lettere, qualche verso e alcuni disegni), ma traspare dal pathos e dall’insolita esaltazione del suo sobrio corrispondente italiano.
Nicola e Melanie, affettuosamente chiamata Muska, si conobbero nel ’57 a Roma, subito prima che lei intraprendesse il noviziato; ma il coup de foudre risale al viaggio statunitense compiuto da Chiaromonte nel ’66 per tenere a Princeton le lezioni da cui nacque la sua raccolta di saggi Credere e non credere (Bompiani 1971, già pubblicata l’anno prima in Gran Bretagna col titolo The Paradox of History). Dopo quel viaggio, il magro carteggio precedente diventa un dialogo fittissimo. Per un lustro, fino alla morte, Nicola scrive a Melanie più di seicento lettere, circa una ogni tre giorni. E nel frattempo si attenuano anche le sue perplessità sulla monacazione dell’amica: perplessità ben comprensibili, se si pensa a quel chiaromontiano animo “greco” che – lontano in ciò dalla Weil – non crede alle risoluzioni personali delle crisi religiose, perché ritiene queste crisi dipendenti dall’esistenza collettiva, e quindi superabili solo collettivamente.
Citando i sonetti di Shakespeare, Chiaromonte definisce il rapporto con Muska un «marriage of true minds»; si riferisce più volte al Simposio, e arriva a parlare di «amor cortese». Tra questi due esseri umani così fuori dell’ordinario, così affamati di vita e insieme così a disagio nel mondo, era nato un legame molto stretto. La lontananza, e le differenti scelte esistenziali, contribuivano a sublimarlo: ma senza placare un bisogno fortissimo di condivisione. Spesso Nicola esprime la sua sofferenza per l’impossibilità di un dialogo faccia a faccia; e quasi per fisicizzare la relazione, oltre a scambiare foglie, fiori e immagini, si sofferma sulla salute di lei, si preoccupa dei suoi dolori, o si commuove con tenerezza tra amorosa e paterna davanti alle confessioni della sua sonnolenza.
Ma ciò che più importa è che in queste 250 pagine di carteggio si ritrovano in scorcio tutti i temi centrali della riflessione chiaromontiana, espressi a volte in una forma sintetica e lapidaria di rara efficacia, anche perché irrobustita da quei riferimenti biografici che negli articoli sono di solito pudicamente esclusi.
Com’è naturale, le lettere riflettono in primo luogo i fatti, le circostanze e le occasioni che nell’ultimo scorcio degli anni Sessanta caratterizzarono la vita di Chiaromonte e l’attualità pubblica. Si parla del movimento studentesco e dei faticosi traslochi romani, della fine di «Tempo presente» (con la morte di Pannunzio, la fine di un’era) e dell’inizio della collaborazione col non amato «Espresso», dei viaggi tra i circoli intellettuali europei e degli articoli sul Vietnam della McCarthy, delle passeggiate con l’impegnativa vedova Camus e della solida amicizia con Gustaw Herling, dello strutturalismo e di Aleksandr Solženicyn, del nuovo teatro grotowskiano e della stesura di Credere e non credere (per cui l’autore cerca un titolo diverso dall’esatto ma pomposo L’uomo e l’evento).
Ognuno di questi argomenti è però quasi sempre filtrato dal riferimento a un contesto classico, è contrapposto o associato a una dominante “passione greca”. Da questa passione scaturisce anche lo stile, che è poi più o meno lo stesso dei taccuini antologizzati in Che cosa rimane (Il Mulino 1995): quei taccuini da cui Nicola ricopia brevi brani per Melanie, e da cui trae lo scheletro dei saggi più impegnativi. Si tratta di uno stile spoglio e geometrico, incolore e perentorio. Ogni argomentazione vi appare scarnificata da un implacabile rasoio occamiano. In Chiaromonte, come nella Weil, un rigore intransigente e una quasi fanatica castità intellettuale tendono a bruciare tutti i falsi intrichi “psicologici”, tutte le capziose zavorre culturalistiche, per arrivare a contemplare le questioni nella loro nuda, platonica essenzialità. Per questi autori, riflettere significa subito verticalizzare, portare alle conseguenze estreme un’ipotesi e accettarne stoicamente, fino in fondo, la logica e fatale cupezza. Ma è una cupezza che, come la disperazione della lirica leopardiana, regala anche il rovescio di una gioia energetica, corroborante: la gioia che si prova, weilianamente, davanti a tutto ciò che ci restituisce un primario e irrefutabile senso di realtà, davanti a tutto ciò che ci strappa alla confusa opacità in cui ci agitiamo quando restiamo invischiati nei compromessi quotidiani, o chiusi nell’immaginario dei nostri desideri. Sia Weil che Chiaromonte pensano che vivere in pienezza significhi scontare la sofferenza senza menzogne, esporvisi senza alibi o risarcimenti ideologici. Solo così s’impara a circoscrivere ciò che dura, oggettivo e indistruttibile, al di là dei torbidi, passeggeri e dunque “irreali” stati d’animo privati, e al di là delle moderne riduzioni del vero, del bello e del buono a questioni d’impressione soggettiva. Solo così si può sperare di spezzare le catene della «bestia sociale», e di sottrarsi per un attimo alla cattiva infinità di un mondo centrato sui miti dell’individuo e della Storia.
3.
A questo proposito, anche nelle lettere a Muska è centrale la polemica chiaromontiana contro l’«egomania» dei contemporanei, cioè contro la loro totale mancanza di senso del limite. Al Leitmotiv dell’hybris Nicola ritorna sempre, qualunque sia lo spunto cronachistico della lettera. Ci torna, magari, dopo aver tracciato per la sua corrispondente “reclusa” qualche schizzo delle civiltà in cui si muove nei suoi rapidi viaggi culturali: una Venezia ancora umana ma architettonicamente improbabile, un’Inghilterra che il tradizionalismo mantiene meno alienata e più coesa del resto d’Europa, una Parigi mutante ai cui stanchi riti da chiesa moderna partecipano giovani ormai simili a una nuova «razza», una Trieste ariosa e «strana» (aggettivo già usato dallo “psicologo” Saba, comprensibilmente mai citato), una Napoli irredimibile eppure capace di umanizzare perfino la paccottiglia plastificata della nuova industria… Ma sempre al suo Leitmotiv ritorna, Nicola, soprattutto quando fisicamente torna a Roma: massimo simbolo decadente, squallido e intollerabile, dell’atomizzazione e dell’insensatezza della vita tardonovecentesca. Questa vita, ribadisce a Muska, concepisce se stessa come una «pura fuga d’istanti». Gli uomini che la sperimentano, nuovi «barbari per volontà», non trovandovi un senso che superi i loro volubili desideri diventano incapaci di una vera, durevole comunicazione, e guardano alla morte come a un fatto insopportabile perché non redimibile da nessun “progresso”. Così non resta loro che lasciarsi trascinare da un’avida quanto disperata volontà di successo, e dall’illusione di poter possedere sempre più oggetti.
Per Chiaromonte, l’egomania è il frutto di un umanesimo privo del senso del sacro: un umanesimo che è assoluto proprio perché relativizza tutto, facendo degli individui l’unico metro di misura, e destinandosi quindi a sfociare in una disumanità massificatrice o pseudoribelle. L’obiettivo panumanistico resta «le plus grand bonheur du plus grand nombre». Ma ciò che davvero si può procurare non è la felicità, bensì soltanto il surrogato del benessere: e per produrlo, i moderni hanno dovuto piegarsi in massa alla logica dello sviluppo meccanico. La maggiore felicità del maggior numero si è tradotta perciò nella maggiore servitù del maggior numero.
Il primo vero profeta di questo umanesimo resta Rousseau, il «teorico della democrazia totalitaria» che in una folgorante lettera a Muska Chiaromonte associa agli hippie, citando una frase in cui il filosofo contrappone al teatro del suo tempo un progetto di feste spettacolari all’aria aperta già simile all’«invito a un “love-in”». L’autocoscienza ultima dell’egomania è invece l’esistenzialismo alla Sartre, un pensiero dove la libertà assume un aspetto mostruoso, prefigurando una condizione umana insieme gratuita e coatta.
L’umanesimo assoluto esclude dal suo orizzonte ciò che trascende l’uomo, ma proprio per questo non ha poi il coraggio di confrontarsi senza paracadute ideologici con l’effimero, con la fragilità intrinseca della vita. E’ il contrario della visione greca, per la quale l’individuo vive fino in fondo la fugacità della sua esperienza proprio perché si sente «tramite del durevole». In questo senso Chiaromonte dice a Muska che i Greci sono il popolo più religioso del mondo mediterraneo. A differenza di romani ed ebrei – di cui anche la Weil diffida – tra il «sentimento diretto delle cose» e il loro «modo d’essere» non frappongono infatti la volontà di stabilire leggi e convenzioni che li proteggano dal mutamento: e «il sentimento del “sacro” è molto più profondo nell’animo di colui che si considera “inerme” di fronte al tempo». I greci chiaromontiani sono una comunità permeata da un rispetto oggi inconcepibile del «divino», ossia di ciò che nella natura, nelle azioni e nei sentimenti degli uomini resta sempre nascosto, e indica il confine delle nostre forze e della nostra capacità di comprensione: «il senso del sacro non è altro che il senso del “limite” (…) di essere parte di un tutto che non si conosce».
Mentre scrive queste riflessioni a Muska, così Chiaromonte le fissa nel saggio La bestia meccanica, pubblicato su uno degli ultimi fascicoli di «Tempo presente»: «L’egomania, che solo la necessità materiale e la forza tirannica possono contenere, è il male della società contemporanea; l’odiosa prigione dell’io in cui l’individuo viene a trovarsi rinchiuso è la forma della schiavitù di cui siamo vittime. Male e schiavitù provengono dalla convinzione radicalmente empia secondo cui il mondo appartiene all’uomo, ed egli può farne quel che gli talenta; e così la vita è proprietà esclusiva di ogni individuo, e ogni individuo ha il diritto di usarne e abusarne come vuole. Una tal convinzione nega tutto ciò che nel mondo è nascosto, indicibile, arcano; si fonda su un’ignoranza cocciuta del mondo stesso e delle più umili verità d’esperienza, prima delle quali è la dipendenza in cui ognuno si trova dai propri simili per cominciare, ma, più profondamente e essenzialmente, dall’insieme delle cose, dal loro ordine, quale esso sia e comunque lo si chiami».
4.
Di questa dipendenza, di questo «arcano» non sappiamo nulla, e pretendere d’imbrigliarlo in qualche legge o d’intravedere nel mistero un disegno è tracotanza: in questo senso, per Chiaromonte anche la Provvidenza è un’idea che «diminuisce la divinità del divino», come scrive a Muska senza nessun accento polemico, ma senza nemmeno velare ciò che lo separa dal cattolicesimo di lei. Anzi, con la sua opera l’autore di Credere e non credere vuole mostrare anche come l’abominevole culto moderno delle azioni storiche e dei fatti compiuti non sia altro che la laicizzazione di questa idea cristiana. Il solo fatto di concepire un Dio incarnato nella Storia induce infatti a leggerla come un unico sistema, e a ricondurre tutte le vicende umane sotto un unico significato generale. Nasce allora il provvidenzialismo, che rapidamente viene mediato dalla Chiesa, la quale finisce per vedere nella durata del suo puro potere mondano un segno della propria santità. Nel frattempo, dalla stessa teologia sorge e si libera un razionalismo tritatutto che porta alla reincarnazione del divino nelle cose, al mito laico del progresso. Poi, tra Sette e Ottocento, davanti ai contraccolpi inauditi della rivoluzione francese, questo mito inizia a trasferirsi dall’interpretazione della natura a quella dei rapporti sociali, partorendo il determinismo storicista. In modo più tirannico di qualsiasi religione, un tale determinismo aliena all’uomo il senso della propria vita, perché lo rende schiavo della società e delle manifestazioni della sua stessa volontà di potenza. Ignorando la dipendenza delle loro esistenze dal cosmo, cioè da un «tutto» inconoscibile, i moderni credono di possedere incondizionatamente e di potere incondizionatamente controllare, con la ragione e con l’azione, le dinamiche sociali e tecniche che vanno via via scatenando. A differenza dei greci, dice la Weil, considerano la forza sprigionata dal gioco delle loro relazioni come un fatto meramente fisico e non morale: sono così convinti dell’idea secondo cui ognuno si forgia da sé il proprio destino, che non hanno neppure una parola adatta a esprimere il concetto di «nemesi». Il loro errore sta nell’estendere il paradigma delle scienze naturali, e in particolare della fisica, alla storia, al mondo umano, alla realtà tout court e ai problemi ultimi, impoverendoli e condannandosi a un deprimente vuoto ideale. In una lettera a Muska, Nicola cita un passo dove Bertrand Russell osserva come la «astratta fisica del nostro tempo» ci chiuda in una prigione «senza splendore», senz’anima. E’ un passo in cui il progressista, l’empirista per eccellenza della filosofia novecentesca sembra avvicinarsi a culture da lui lontanissime. Nelle sue parole riecheggiano quelle del fenomenologo Husserl, e perfino quelle di Rimbaud sul «forçat (…) sur qui se referme toujours le bagne», citate altrove da Chiaromonte per descrivere lo Stato moderno. Ma soprattutto, il giudizio di Russell richiama in questo contesto la diagnosi della platonica e iperidealista Weil, secondo cui «dal rinascimento in poi (…) l’idea della scienza è quella di uno studio il cui oggetto è posto al di fuori del bene e del male», e «se i fatti, la forza, la materia vengono isolati e considerati di per sé, senza relazione con altro, non v’è in tutto ciò proprio nulla che un pensiero umano possa amare». La Weil fa esplicito riferimento alla differenza con la scienza greca, ancora fortemente connessa a una compatta visione etica e cosmica. Abbozza addirittura una critica dell’algebra come pratica livellatrice (la paragona al denaro), e in generale stigmatizza le tecniche che non producono saggezza, che permettono di inventare senza pensare. Anche la Arendt affronta il tema, e si chiede che effetto abbia l’impossibilità di tradurre il codice sempre più influente della scienza moderna nel linguaggio pubblico: ossia che effetto politico produca l’evidente incapacità di questo codice di dare un senso alla realtà comune, la sua tendenza a creare un mondo artificiale dove la conoscenza si scolla dalla riflessione. Si può rispondere che l’effetto è appunto la nascita di una ideologia della scienza, cioè di una pseudoteoria che estende ingannevolmente il paradigma scientifico all’intera cultura anche quando in apparenza vi reagisce, come ostentano di fare gli storicismi idealistici e finalistici che inseguono una verità superiore a quella matematica, fisica o biologica. Questa ideologia pretende di assimilare gli atti umani ai fatti di natura, e quindi di poter spiegare e prevedere razionalmente le dinamiche relative a esseri mai analizzabili nella loro integrità: pretende, in definitiva, di poter rivelare una volta per tutte le origini sempre oscure del complesso di moventi che ci induce a muoverci e a condizionarci a vicenda. Così, caduta ogni fede nel trascendente, si cerca la verità proprio dove non può darsi: cioè nel terreno dell’azione, della Storia, della suprema contingenza. Ne risulta quello che il Chiaromonte di Credere e non credere definisce come un paradossale «scetticismo teologico» o «dogmatismo scettico»: da un lato si è così sfiduciati da puntare tutto sull’attimo nel quale si agisce, ma dall’altro lato si giustifica il più effimero dei gesti affermando che «la storia lo esige». Qui sta l’aporia dello storicismo, per cui «l’Oggi è il Domani, il senso della vita di oggi sta nel Domani, un Domani storico di cui l’oggi non è che l’oscura cifra. La formula è oracolare, ma riassume molto efficacemente quella fede ottimistica nella Storia – cioè nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi – che fa dell’esistenza il fantasma di se stessa, rinviandone il significato all’infinito, cioè annullandolo».
E questo oracolo grottesco, com’è ovvio, è elaborato in primo luogo dagli intellettuali: che quindi, anziché essere autentiche guide e “avanguardie” della società, nel mondo contemporaneo tendono a massificarsi prima delle masse, a sacrificare il proprio pensiero ai feticci ideologici e alla Storia con maggior zelo e con più imperdonabile falsa coscienza.
Fino all’inizio del Novecento, prima del ’14, questi feticci erano ancora in parte un mito vero, una credenza diffusa e legittima nel progresso storico. Ma la carneficina assurda della guerra l’ha fatta crollare («E’ ciò che fa rovinare i miti, la realtà», dice Chiaromonte nella Bestia meccanica). Da allora in poi, la gran parte degli uomini finge di confidare nel progresso, ma in verità non fa altro che arrendersi, tra ipnotizzata e inerte, a un meccanico succedersi di eventi schiaccianti, a un mondo «nudo e insensato», e alla fatalità di una crescita puramente tecnologica. E’ ormai in malafede che si pronuncia il proprio credo nella democrazia e nel miglioramento universale: nei comportamenti quotidiani, si oscilla invece tra nichilismi e improbabili restaurazioni “religiose”.
5.
La guerra, secondo Chiaromonte, ha colpito al cuore soprattutto la versione più avanzata della credenza nel progresso umano, e cioè il socialismo, che dagli anni Venti in poi s’è irrigidito in una ortodossia sempre più tirannica quanto più profonda era la disillusione riguardo alla sua autentica vitalità. E l’ortodossia ideologica, di nuovo, non è altro che una versione laicizzata, umiliata e parodica della fede cristiana. Il cristianesimo infatti, afferma Chiaromonte, ha trasformato il flessibile significato antico del «credere» in un dogmatico «voler credere» (e qui si pensa ancora alla Arendt, che in La vita della mente spiega come la civiltà cristiana, gettando una luce inedita sull’esistenza interiore, abbia posto al centro delle sue riflessioni appunto la «volontà», tema quasi assente nei filosofi antichi). Il credere greco, il credere naturale implica una costante coscienza dell’ambiguità che è inscindibile dalla relativa robustezza sociale di ogni credenza; implica, soprattutto, la capacità di accettare e assorbire nella propria visione la mutevolezza del mondo così come appare, in tutte le sue sfaccettature: quella mutevolezza che i greci rappresentavano guardacaso nelle figure di mutevoli dèi, sottoposti anch’essi a un Fato impenetrabile. Invece il Dio dei monoteismi, isolato e onnipotente, si stacca dalla realtà umana in un modo che costringe poi chi tenta di concepire il loro legame a impantanarsi in volontaristici sofismi. Il cristiano, per aver fede, deve escludere dal proprio orizzonte religioso una gran parte di ciò che sperimenta nell’esperienza quotidiana, e in cui dunque, nel senso greco e chiaromontiano, dimostra comunque di “credere”: crea cioè nella vita quella scissione, notata suo malgrado anche dalla Weil, che tende a sfociare in un irrigidimento pericoloso e che a un certo punto si fissa nella doppiezza del gesuitismo. E’ dalla mondanizzazione moderna di un simile irrigidimento che scaturisce la tendenza ad addomesticare empiamente la realtà, a leggere un univoco senso della vita nella Storia, a fornire «spiegazioni ultime» che pretendono di disfarsi della varietà delle apparenze. L’esempio più chiaro è quello di Marx, secondo cui l’economia sarebbe “più reale” di tutto il resto, ossia costituirebbe l’essenza dei fenomeni più diversi. Ancora peggiore è l’ortodossia dei marxisti del pieno Novecento, che trasformano un’ipotesi teorica in un angusto dogma, e che poi si disfano anche del dogma per imporre una tattica di partito impermeabile non solo alla realtà, ma anche alla logica, e destinata a mutare ora per ora. Propagandati con le armi, sostenuti da una disciplina coercitiva sempre più capillare e spietata, i tattici “dogmi del giorno” coincidono col potere terrorizzante delle dittature comuniste. E tuttavia, come Chiaromonte ha visto per tempo e come hanno visto con lui Orwell e la Arendt, la rapidità del loro succedersi denuncia la corsa dei sistemi totalitari verso un fatale autoannichilimento: per quanti sforzi di sottomissione faccia, la coscienza normale degli uomini non è in grado di adattarsi a venerare idoli che cambiano volto ogni mattino.
6.
Mentre tenta di chiarire queste intuizioni nei saggi di Credere e non credere, Chiaromonte ripete a Muska che la storia non può avere in sé la sua ragione, che è solo un seguito di «atti insensati», e che somiglia alle «rovine che lascia dietro di sé un cataclisma – o anche i rifiuti che trascina un torrente». Parole così lapidarie spiegano l’irritato interesse con cui, nel frattempo, segue un fenomeno che sembra appunto condensare e bruciare in un’estrema, cupa parodia le falsità enfatiche della recita politica e culturale otto-novecentesca, le sue oscillazioni apparentemente schizofreniche tra idolatria del Corso Storico e pseudoanarchia nichilistica. Questo fenomeno è il Sessantotto occidentale, presto egemonizzato dai giovani che in una lettera alla sua corrispondente americana definisce «pedanti ribelli». Approdato, come in modo diverso il suo coetaneo Adorno, a una riflessione sempre più geometricamente pessimistica riguardo alla possibilità d’intrecciare teoria e prassi, anche Chiaromonte giudica la rivolta «conformista». E il conformismo sta nel fatto che per contestare la società esistente i rivoltosi ne accettano e ne estremizzano le patologie, cedendo al suo caos senza avere il coraggio di andare al cuore dei problemi. I giovani occidentali non mettono in questione il meccanismo dell’estensione illimitata dei bisogni, e non si pongono domande radicali sul significato dell’esistenza. Ereditano placidamente il culto del Nuovo, del successo egomaniaco che tutto assolve, dell’azione per l’azione e magari della guerriglia per la guerriglia. Il loro guevarismo, il loro maoismo è solo una moda, un atteggiamento assunto a costo zero. Come Pasolini e Arbasino, e come oltreoceano il suo amico Dwight Macdonald, anche Chiaromonte nota che questa ripetizione frivola di vecchi errori è legata al rifiuto di confrontarsi con le generazioni precedenti. E’ un rifiuto comprensibile, dato che quelle generazioni sono prive di ogni autorevolezza; ma ciò non toglie che il suo prezzo sia un’ennesima versione del moderno settarismo. Da una parte si diffonde la pedanteria subculturale, dall’altra dilaga un attivismo giovanilistico senza argini né obiettivi seri, che a un ex ragazzo degli anni Venti non può non ricordare un’esperienza sinistra. In particolare il Sessantotto italiano, nato in una società senza ordine né libertà, ma «fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva», rischia di sfociare subito in una demagogia del tutto o niente, e in una ricattatoria sofistica da demoni dostoevskiani in sedicesimo.
Questo almeno, dice Chiaromonte, accade a ovest. Diversa è la rivolta dei giovani dell’est, che si battono per liberarsi dall’oppressione politica, cioè per qualcosa di molto più chiaro e importante. Ma ai giovani intellettuali d’Occidente, e agli intellettuali non più giovani che li corteggiano pateticamente per inseguire l’ultima incarnazione dello Spirito del Tempo, una tale rivolta sembra “ottocentesca”, “sorpassata” dalle punte più avanzate della Storia. Convinti di possedere già la libertà «come si possiede un mobile», considerano questa esigenza basilare della vita umana meno rilevante di qualunque nebulosa ideologia palingenetica dell’ultimo minuto, di qualunque pseudonovità “storica” pubblicizzata dalle cronache dei media.
Come si vede, i giudizi di Chiaromonte sulle azioni dei movimenti politici occidentali sono duri almeno quanto quelli che dà del comunismo applicato. Tutto gli appare ormai inquinato dall’idolatria degli «atti insensati». Ma se le cose stanno così, cosa opporre in concreto al fatalismo storicistico? Le lettere a Muska, e gli scritti coevi, sembrano avvicinare lo scrittore a un altro tipo di fatalismo, che potremmo definire laotsetiano. Dopo avere attraversato le tragedie del Novecento, Chiaromonte è ormai lontanissimo dal suo volontarismo di ventenne cresciuto nella cultura dei Gobetti e dei Tilgher. Ora non vede più nella massificazione un’opportunità per disfarsi dell’inerzia individuale e per riaffermare le istanze morali assolute con una decisione finalmente pura e libera da equivoci. Nato in una terra dove il passaggio d’innumerevoli popoli ha lasciato in eredità alla gente un misto indefinibile di rassegnazione e orgoglio, questo maturo uomo del sud rifiuta in modo sempre più netto non soltanto l’idea della violenza rivoluzionaria, ma anche ogni visione che attribuisce più importanza alla volontà di fare il bene anziché alla volontà di tenere fermo il vero.
Di nuovo, davanti a questi passi delle lettere, torna in mente la Weil. Ci si ricorda delle parole con cui la pensatrice francese contesta il catechismo cattolico (così cavilloso che non basterebbe una vita a esaminarlo), e della nettezza con cui gli oppone il bisogno dell’intelligenza di restare totalmente libera nel suo legittimo campo d’azione. E’ altra, per lei, la facoltà destinata a contemplare e onorare i dogmi. «L’intolleranza» dice con una frase quasi chiaromontiana «deriva da una confusione tra i modi di credere»; e aggiunge senza reticenze che il potere amministrativo della Chiesa e la formula «anathema sit», con la conseguente confusione dei piani e il conseguente tentativo di ostacolare la ricerca del vero in nome di un malinteso bene, ha aperto la strada alle derive totalitarie moderne.
Partendo da una concezione distante del cristianesimo, ma da un’idea platonica del bene pur sempre sorella di quella weiliana, Chiaromonte insiste con altrettanta forza sulla necessità che l’intelletto rispetti nella sua sfera soltanto i vincoli che si pone da se stesso. La sua polemica però, anche quando tocca la religione, lo fa per puntare dritto alla politica. Nelle lettere, con una definitività brusca e quasi liberatoria, ripete che qualunque progetto umano finalizzato al bene, quando offende il vero, è destinato a sfociare nella violenza. E’ la violenza di chi crede di poter forzare gli esseri e le cose a diventare ciò che non sono. «Voler “cambiare” significa voler far violenza a ciò che è», scrive a Muska, «non credere nella semplicità delle cose che sono (…) credere fanaticamente alle apparenze, ossia che cambiando, per così dire, la disposizione degli oggetti nel mondo si cambi radicalmente il mondo stesso. Mentre a me sembra che il mondo si cambi unicamente (…) grazie a norme accettate, al modo di vivere degli uomini stessi».
Le speranze palingenetiche di origine cristiana, e la fede moderna nel progresso che ne deriva, coincidono con l’idea che sia possibile introdurre nel mondo una novità radicale. Chiaromonte non lo crede. Come non crede alla concezione lineare del tempo che questa idea implica, e che anche la filosofa della Vita della mente associa al modo tutto cristiano e moderno di concepire la libertà e la volontà. Toccando un tema caro a Karl Löwith (non a caso, come la Arendt, discepolo di Heidegger), Nicola dice a Muska che la saggezza sta invece nell’intuire i segni di quella sostanziale, greca ciclicità del tempo che Nietzsche sbandierava in modo ancora volontaristico, e che la vita ci mette davanti agli occhi ogni giorno contraddicendo le nostre ideologie. L’universo che abitiamo non sembra affatto trasformabile nei suoi oscuri elementi primi, ma semmai infinitamente «mutevole» nella sua permanenza, come il mare così amato dal mediterraneo Chiaromonte e dal mediterraneo Camus.
I sogni di novità assoluta hanno sempre qualcosa di empio o retorico: vogliono disconoscere la realtà così come ci è data, o non tenerne conto, in nome di una pretesa centralità delle aspirazioni umane. Indimenticabile, a questo proposito, è l’esempio che Chiaromonte propone nella Lettera a Caffi edita in Il tarlo della coscienza (Il Mulino 1992). La dichiarazione di Ivan Karamazov, tanto celebre e universalmente amata, secondo cui varrebbe la pena di rifiutare il proprio biglietto per il Paradiso davanti al pianto di un solo bambino, a lui sembra «teatrale e incomprensibile», perché «l’idea di un mondo senza bambini che piangono» è «coestensiva di un mondo senza bambini affatto». Viceversa, «senza pretendere al Paradiso», Chiaromonte vuole soltanto «vedere le cose come sono (e non create da me)». Secondo la Weil, questa visione della realtà si ottiene sospendendo la volontà che il mondo si pieghi ai nostri desideri. E Nicola, rivolgendosi a Muska, le fa eco assimilando la purezza di un tale sguardo alla capacità di «fermarsi al limite», «riconoscere il sacro – e il divino – piegare il capo – inchinarsi». Un simile riconoscimento morale non può tradursi in leggi o convenzioni, come vorrebbe la mediocre saggezza, ma può solo derivare di volta in volta da un ambiguo “avvertimento” davanti alla situazione concreta.
Chiaromonte tende dunque a identificare i progetti di palingenesi con una violenza menzognera. E per spezzare la catena di azioni e reazioni che questa violenza accerchiante produce, per contrastare gli atti di forza con cui gli uomini provano a imporre alla società la loro visione del mondo, gli sembra non rimanga altra risorsa che una mite separatezza, una saggia inazione interrotta solo per concedere alla politica quel che le è strettamente dovuto dal punto di vista del «buon cittadino» (a questo dovere limitato si può ricondurre, nel ’56, la eccezionale adesione chiaromontiana al Partito Radicale).
Al limite, manifestazione di un tale spirito potrà essere la «non violenza», su cui ragionò in modo analogo anche la Arendt. Ma Chiaromonte è convinto che la non violenza non possa diventare norma d’azione pratica e universale senza rischiare di tradursi essa stessa in violenza, o comunque di snaturarsi: resta, per lui, niente di più e niente di meno del comportamento che alcuni singoli individui altamente civilizzati sono in grado di tenere allo scopo di arrestare l’effetto domino del male, o, come direbbe la Weil, allo scopo di sospendere l’ordine inerziale della forza. Rappresenta, insomma, una nobile accettazione del destino: è la coscienza, fatalmente destinata a un’autentica aristocrazia, che vale ciò che cresce nella sua intrinseca verità senza forzature – è il rifiuto di violare più del necessario la natura delle cose, la capacità d’indirizzare il proprio amore sulla realtà circostante in maniera non dispotica e non servile.
In sintesi, all’orizzonte non si vede alcuna soluzione collettiva dei mali moderni: forse, anzi, l’idea stessa è contraddittoria. E Chiaromonte, teorico delle credenze che si consolidano senza volontarismi, si tiene ben lontano da velleità edificanti. Tuttavia, tornando sempre da capo alle stesse conclusioni fosche, anche nelle lettere a Muska insiste sulla sola immagine di speranza offerta da tutta la sua opera, un’immagine che è in qualche modo l’altra faccia del “laotsetismo”. Si domanda, Chiaromonte, se prima o poi l’illimitato e coatto bisogno di dominio non condurrà i moderni davanti a un’aporia così insormontabile, a un baratro così profondo da costringerli a tornare a misurarsi con le eterne questioni essenziali, a fermare lo sguardo sul problema del divino senza equivoci deterministici o soggettivistici arbitrii. Allora forse, dietro le false fedi, dietro i nichilismi irriflessi e perciò tracotanti, nascerà in loro un «nichilismo positivo», un modo d’essere in grado di confrontarsi nuovamente con le nude cose e con le scelte elementari tra il vero e il falso a cui i contemporanei sfuggono istante dopo istante fino alla morte. Solo a quel punto si potrà ritrovare la comune consapevolezza del fatto che la realtà degli eventi e la realtà del pensiero, la contingenza di ciò che accade e l’ordine continuo delle idee sono separati da un confine sacro e inviolabile. Si riscoprirà così che le utopie sono modelli destinati a nutrire la vita spirituale, cioè a tradursi solo mediatamente e per vie inimmaginabili nei comportamenti pratici; e che perciò volerle trattare come progetti politici palingenetici è mostruoso come sarebbe mostruoso per il poeta voler vivere la sua poesia. Coloro che sbandierano le utopie come programmi d’azione immediata cadono nell’equivoco bovaristico intrinseco a ogni storicismo: si vedono cioè come «personaggi storici». E negli ultimi due secoli, dall’età napoleonica al Sessantotto, le prime vittime di questo equivoco dagli effetti stupefacenti sono stati prevedibilmente i giovani: il Fabrizio stendhaliano che vuol essere sicuro di vivere una «vera battaglia», i Sorel e i Raskolnikov che si atteggiano a Napoleoni, e i loro eredi novecenteschi di Sartre e di Kundera che mitizzano le nuove figure rivoluzionarie.
«Nella mentalità “storicista”» scrive Chiaromonte a Caffi «la Storia diventa quel che è (…) la Prosa per il Borghese Gentiluomo», o «quel che l’America è per i selvaggi di Pascarella», e per i beoni romani che ne raccontano le avventure all’osteria. Nella vita collettiva moderna, e da ultimo nella fiammata movimentista dei giovani sessantottini travestiti da guerriglieri, a causa della confusione tra i ragionamenti e i fatti «il pensiero diventa una forma immaginaria d’azione, e l’azione una forma immaginaria di pensiero». Con l’effetto di una pessima recita, al tempo stesso potenzialmente sanguinosa e kitsch. Una recita ingigantita, nel pieno del Novecento, da quei media di massa che danno un senso ancora più semplificato e mistificatorio all’aggrovigliata frammentarietà degli eventi, e a poco a poco addirittura li producono e li sostituiscono.
7.
Come la Arendt, ma senza la sua fiducia “agostiniana”, Chiaromonte ritiene che ogni azione inneschi processi irreversibili quanto imprevedibili, sia «un atto libero e nuovo, un’aggiunta al mondo e una modifica dello stato di fatto». Non sopporta quindi di essere considerata come l’esecuzione di un modello teorico che separi disinvoltamente mezzi e fini. In politica, ciò squalifica ogni machiavellismo, sia quello di piccolo cabotaggio, sia quello che pretende di realizzare le utopie: perché entrambi la riducono a tecnica, ad applicazione di un meccanismo, cioè pretendono di «possedere il segreto del reale», quasi che la loro “realtà” non sia la riduzione indebita del «segreto» a un modello quantitativo semplicistico e fazioso, sorretto quando può e come può dall’argomento della forza.
La Arendt, però, fa risalire l’errore addirittura a Platone, osservando che già nei suoi testi l’«agire» tende a confondersi col «fabbricare». Chiaromonte, invece, non muove accuse al suo mito filosofico. Secondo lui, Platone non fa altro che proporre le sue utopie come «statue di parole». Scrivendo a Muska, ripete che l’autore della Repubblica non è un idealista nel senso moderno, ossia un uomo che s’illuda di realizzare le proprie idee. E forse, al contrario di quel che dicono le storie della filosofia, non è nemmeno un idealista in senso assoluto. Forse, come suggeriva Caffi, Platone è addirittura uno «scettico»: un ragionatore che sottopone continuamente le ipotesi alla prova del dialogo, lasciandole sospese in una zona ambigua e non smettendo mai d’interrogarsi. Si tratterebbe, insomma, di un filosofo che ha già ben chiara la differenza indicata dalla Arendt in La vita della mente: quella che corre tra la «conoscenza», sempre strumentale, e il «pensiero», incapace di raggiungere obiettivi stabili, e mai applicabile alla realtà senza conseguenze violente o nichilistiche. E’ attribuendo al suo Platone questa gratuita e feconda mobilità teorica che Chiaromonte può opporlo ai moderni, e trarre dalla sua lettura la liberatoria «allegria» di cui dice a Muska. La proverbiale spietatezza delle utopie platoniche, spiega alla corrispondente americana, non ha niente a che vedere coi fanatismi del Novecento. Dipende semplicemente dal fatto che quando si costruisce un’architettura ideale, le si può dare un senso non effimero soltanto estremizzandone con coerenza i presupposti. «Riflettere significa proprio spingersi al limite dei significati possibili», afferma altrove; ed è infatti questa consequenzialità netta, estrema e magari unilaterale, che Chiaromonte insegue negli scritti suoi e dei suoi autori. E’ questa necessità di andare fino in fondo che lo appassiona nella tragedia greca e nel Tolstoj critico dell’arte, davanti a cui continuano a scandalizzarsi i tanti «spiriti mediocri» a tal punto immersi nei sofismi moderni da essere ormai incapaci di tornare alle questioni prime dalle quali quei sofismi sono derivati.
Confrontarsi con la coerenza, con la purezza economica e con la verticalità proprie del vero pensiero, non significa affatto perdersi nell’irreale: perché in questi caratteri sta anzi la peculiare, specifica realtà delle idee e delle rappresentazioni scaturite dalla mente umana, una realtà che solo il fanatismo e il filisteismo si ostinano a negare, riducendo artificiosamente l’esperienza a ciò che si vede, si fa e si tocca.
Questo bisogno di ricordare ai suoi contemporanei l’esistenza di una realtà non pratica riconduce spesso Chiaromonte a un episodio della storia filosofica ricco d’implicazioni metaforiche: la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Anche nelle lettere a Muska, come nei taccuini e nei saggi, lo scrittore la cita affascinato. E ciò che lo affascina è il fatto che l’Essere immutabile e perfetto, concepito da quell’essere imperfetto e transeunte che è l’uomo, ha davvero una esistenza necessaria, ma come «esigenza del pensiero», di quel pensiero che è appunto una parte ineliminabile della nostra vita. «Il fatto di concepire “un essere del quale è inconcepibile che ne esista uno più grande” – l’Essere Supremo» argomenta Chiaromonte «ne implica l’esistenza non come di un “oggetto” – ma di una necessità tale del pensiero che, senza di essa, il pensiero non può pensare che il contingente – l’occasionale – questa o quella cosa, come capita, ma non mai esser certo di essere in rapporto con la realtà delle cose. Soltanto che io direi che ciò non “dimostra” il Dio dei teologi, bensì il “divino” in sé – l’inevitabile necessità del “vero” – al di là di ogni fatto casuale e, soprattutto, di ogni cosiddetta “verità di fatto”».
Non a caso, negli stessi anni, la Arendt che nella Vita della mente separa conoscenza e pensiero, verità di fatto e ricerca di «significato», fa proprio lo stesso esempio, e indica nella dimostrazione di Sant’Anselmo una di quelle ricerche mai concluse in cui l’uomo pensa attraverso sistemi di idee eterne e inverificabili (nei termini della mistica Weil, invece, l’inverificabilità riguarda il piano dell’amore soprannaturale necessario a contemplare i dogmi di fede).
Chiaromonte, come Arendt e Weil, mira insomma a restituire alla riflessione non immediatamente traducibile in prassi quel suo insostituibile posto nel mondo reale che i moderni a torto le negano. Anche perché la sua astrattezza, la sua “inconcludenza” non coincidono affatto con una sua presunta inutilità in senso assoluto. Sebbene esista un confine sacro che separa eventi e idee, non si può infatti dimenticare la funzione essenziale che le idee hanno nel metterci in rapporto «con la realtà delle cose». Nei taccuini, Chiaromonte cita una dichiarazione di Tolstoj secondo cui la realtà più vera è addirittura quella che non esiste, e che tuttavia proprio per questo conosciamo con certezza: «la linea dritta, la verità esatta e la virtù perfetta». Soltanto «grazie all’ideale», dice Tolstoj, «sappiamo qualcosa» del mondo, cioè diamo forma a ciò che altrimenti è insensato. Così, ricorda Chiaromonte, solo nella «irrealtà» dell’arte, nella contemplazione teorica delle sue figure ci è dato conoscere davvero le passioni, le figure, le vicende umane che nella quotidianità rimangono un brulichio d’impressioni opache e ottuse.
8.
Ma questi discorsi acquistano il loro significato pieno solo se legati a un altro tipico concetto chiaromontiano, il concetto di «comunità»: unico spazio, secondo lo scrittore, in cui potrebbe ricostituirsi un certo equilibrio tra azioni sensate e pensieri non sofistici. Questa «comunità» è l’opposto di quell’anonima società globale dove gli uomini, soli in mezzo alla massa, fronteggiano alienati e impotenti dei fenomeni che minacciosamente li sovrastano. Per Chiaromonte la cosiddetta comunità mondiale è un’astrazione, perché «la comunità reale non può mai essere universale». E pur non rinunciando a ragionare, com’è ovvio, sui grandi problemi del suo tempo – le architetture teoriche, dopotutto, servono anche a questo – arriva a scrivere a Muska che anche «la “sorte dell’umanità” mi sembra un concetto astratto». Non dimentica che tutto è in qualche modo collegato a tutto: ma sa che è velleitario pensare di muoversi su un palcoscenico planetario come se fosse il proprio giardino. La comunità ha senso solo se mantiene una misura umana. Ed è, naturalmente, la misura mitica della polis: quella che la Arendt tenta di ritrovare in certe «repubbliche elementari» moderne, e che il più fiducioso Illich prova a realizzare nelle sue antiburocratiche istituzioni «conviviali». Ma si tratta di forme fragilissime. Scomparsa la miracolosa invenzione cittadina dei greci, semplifica Nicola nel suo dialogo con Muska, sembra di assistere a una enorme interminabile diaspora di individui erranti. Qua e là, alcuni di questi individui hanno provato a ricreare delle labili forme di “città”: prima con il monachesimo (altrove Chiaromonte cita entusiasta i versi di Dante sui seguaci di San Benedetto resistenti alla «brutalità del secolo»: «Qui son li frati miei che dentro ai chiostri/fermar li piedi e tennero il cor saldo»), e in seguito con le alleanze tra i dotti. Nelle sradicate società moderne, è comunque difficile che la comunità possa darsi come realtà visibile: quando c’è, sarà piuttosto formata da pochi individui sparsi per il mondo che nutrono idee abbastanza simili sulla vita umana.
E’ questa l’esile «comunità» che Nicola costruisce coi corrispondenti come Muska, e che ogni tanto riacquista una provvisoria concretezza fisica grazie agli incontri di qualche gruppo di studio. E’ interessante, a questo proposito, il rapporto che legò Chiaromonte ai suoi amici libertari newyorchesi. Durante l’esilio statunitense, di comunità concrete l’intellettuale italiano parlò molto, stimolato anche dal suo empatico confronto con Camus, che durante una visita a New York aveva auspicato la nascita di piccole «società nella società». E non a caso la McCarthy – che considerava la conoscenza di Chiaromonte un evento decisivo della propria vita – ne fece l’ispiratore e «Fondatore» della cittadina rurale di Utopia, rappresentata nel suo romanzo L’oasi. Ma l’autrice sapeva bene quanto il suo amico diffidasse delle immediate realizzazioni delle utopie, perfino di quelle così circoscritte: e infatti lungo tutto il racconto, che lo evoca in un leggendario Monteverdi il cui limpido metafisico pensiero si riassume tutto nella «idea di limite», Chiaromonte resta lontano e invisibile, impegnato a lottare in un’Europa pericolante; mentre i compagni, ritiratisi nella loro utopica comunità di campagna, finiscono per smarrirsi in battibecchi goffi e sterili, descritti con una verve critica e satirica che utilizza molti argomenti chiaromontiani. Le idee dell’italiano, che aveva corretto le superstizioni attivistiche e ancora un po’ marxistiche degli amici americani col suo rigore filosofico e col suo esempio morale, servono insomma alla McCarthy non soltanto per evocare un sogno, ma anche e soprattutto per indicare l’improbabilità della sua realizzazione.
A Muska, Nicola dice che è stato Caffi, suo «solo vero amico e maestro», a insegnargli il valore delle comunità ristrette. Però il vagabondo Caffi, se da un lato appare più solitario e idiosincratico, dall’altro resta assai più affamato di socievolezza del suo allievo. In questo ultimo rappresentante del socialismo libertario fiorito prima del ’14, il mito comunitario è legato a uno spirito caotico ancora ottocentescamente, fiduciosamente agitatorio e malgrado tutto “pansociale”, che non si ritrova più nei discorsi chiaromontiani sulla possibile «secessione» e «separazione» di piccoli gruppi dal complesso della società.
In ogni caso, il modello resta: solo, ora il suo valore politico è tutto indiretto, e la comunità immaginata sembra raccogliersi sostanzialmente intorno alle idee e alla cultura, a una “scettica” discussione socratica da cui emergono però seri giudizi morali ed estetici. Questo modello non nasce da uno sprezzo elitario, ma dalla consapevolezza che in certe situazioni, come nelle società di massa occidentali del tardo Novecento, ogni tentativo d’impegnare le proprie convinzioni in qualche azione ad ampio raggio mette inevitabilmente gli uomini in una posizione irreale e falsa. Ma a dire il vero, anche qui il comunitario Chiaromonte è più netto e più radicale. Senza alcuna soddisfazione pseudoaristocratica, ma anzi col dolore di chi è costretto a prendere atto di una inspiegabile ingiustizia, si ritrova a constatare che il «numero» svaluta e disumanizza fisiologicamente qualunque esperienza. Così è per la scuola, così è in generale per le organizzazioni sociali; e così è per quella comunicazione di massa in cui ormai consistono e si annullano sia l’agire cosiddetto politico sia le relazioni sociali quotidiane. Questa comunicazione, proprio perché si vuole universale, si riduce a un codice di segnali poverissimo, che tende a svuotare ogni vero dialogo. «Sono arrivato alla convinzione» scrive Chiaromonte a Muska «che la parola ha senso solo per quelli per i quali è stata pronunciata – ed è stata pronunciata nella convinzione che potessero capirla. Ogni parola. Ossia che non c’è falsità più grande di quella di un supposto linguaggio “per tutti”: cinema, televisione o altro congegno che sia. Un linguaggio “per tutti” dev’essere necessariamente una convenzione, un artificio, una falsità – giacché, essendo rivolto a tutti per essere (soi-disant) compreso da tutti, sarà anche necessariamente rivolto a nessuno in particolare: a nessun “individuo”, voglio dire». Solo in una comunità ristretta i gesti hanno un senso, e solo lì esiste una «parola significante». «Stia fra me e te la verità, il più vero dei beni», dicono i versi di Mimnermo tradotti da Nicola per Muska, da cui è stato tratto il titolo del loro carteggio. La verità è relazionale, o non è. Ma la relazione deve riguardare individui legati da un retroterra comune, persone che non siano nella condizione di anonimi uomini-massa: «piaccio a quelli cui devo piacere», dice l’Antigone cara a Chiaromonte. E tanto basta.
Queste sono le condizioni necessarie per pronunciare quel genere di parola sensata che «dà luogo a “discorso”»; e «solo dal “discorso” (e dal “dialogo”) nasce l’ordine, e con l’ordine la possibilità d’armonia». Dal che s’intende che la comunità non è solo il presupposto del vero dialogo e dell’azione significativa, ma anche, di conseguenza, la cornice di ogni vera contemplazione estetica. Quando, con termini simili a quelli che identificano la sfera pubblica arendtiana, descrive a Muska lo «spazio libero creato in comune perché serva a tutti – e tutti possano manifestarvisi per quello che sono», Chiaromonte ha in mente sia il modello della polis che le armonie severe delle sue architetture e del suo teatro. Emblematico, da questo punto di vista, è il passo in cui individua una delle caratteristiche più notevoli di Venezia, e di certe città toscane, nel fatto che vi «si vedono le persone. Il campo visuale è ristretto – i “fondali” sono sempre oltremodo ravvicinati, e si sta sempre “de plain pied” (…) e ogni persona o gruppo che avanza è come se entrasse in scena»; il contrario di quel che avviene nelle metropoli, specie nelle metropoli americane, dove «il volto umano è parte di un magma di volti, e non si vede nessuno perché non si può guardare».
Questo campo visuale «ristretto» offre un’immagine plastica dello spazio comunitario chiaromontiano. Che già così, lo si vede bene, è uno spazio intrinsecamente teatrale. E il teatro, per Chiaromonte, non è infatti nient’altro che la mise en abîme formale della comunità, il «tribunale» che ha il compito di schematizzare e giudicare il suo legame coi singoli e con il cosmo, rappresentando i modi in cui l’uomo si rapporta a «il mondo, gli altri, la verità».
Nel pensiero di Chiaromonte, discorso ordinato, comunità e «situazione drammatica» sono quindi termini strettamente connessi. Per questo, quando recensisce una pièce, può passare dal giudizio estetico a una riflessione sul contesto sociale senza soluzione di continuità, e senza mai trattare lo spettacolo come pretesto. Ed è per la stessa ragione che, malgrado i suoi molti dubbi sul confuso miscuglio di cerebralità e brutalità realistica delle nuove tendenze sceniche, nelle lettere a Muska parla con simpatia di Eugenio Barba, dopo averlo sentito descrivere il suo gruppo come una «piccola società» monacale in cui ognuno occupa il proprio posto in piena libertà e responsabilità.
Chiaromonte ha maturato le sue opinioni teatrali sotto l’influenza di Pirandello, e dell’interpretazione che ne ha dato Adriano Tilgher. A differenza di Gramsci e Silvio D’Amico, Tilgher insisteva sul contenuto filosofico dei drammi pirandelliani, proponendo così una concezione dell’arte come discorso intelligibile che era quasi estranea alla cultura italiana, e soprattutto ai contemporanei letterati variamente crociani o dannunziani. Da questa concezione nasce il pensiero estetico di Chiaromonte, e in particolare la sua idea di teatro come «azione ragionante». E’ un’idea che riporta la letteratura drammatica alla sua origine e al suo valore comunitario, identificando nella scena l’unico luogo in cui gli uomini siano in grado di realizzare il sogno di Malraux: quello di una coincidenza limpida e totale tra agire e ragionare. Nel gioco estetico, dove mezzi e fini s’identificano strutturalmente, le trame ambigue di fatti e pensieri che definiscono i rapporti umani, e le umane credenze sul mondo, si concentrano e convergono in un contrasto di trasparenza geometrica. Qui la trasparenza è resa possibile, tra l’altro, da quell’annullamento del tempo che anche per la Weil caratterizza il teatro più grande. Nel dramma perfetto, quando si alza il sipario, le avventure, le storie, i «casi» che hanno formato la biografia dei personaggi sono già bruciati: resta solo una situazione da svolgere con implacabile necessità logica, e un dialogo attraverso cui si mostra come l’eroe che agisce sia condotto dal destino a subire gli effetti di una forza collettiva e naturale senza scampo. Perciò il teatro puro schiva il realismo storico e quello psicologico, inevitabilmente legati al tempo. La sua problematicità è tutta razionale, astratta: e l’abilità del drammaturgo sta nell’isolare dal corso della vita sociale il tema che meglio ne rappresenta le contraddizioni insolubili.
Nell’apparenza scenica, «fingere» significa eliminare il «casuale» in nome dell’autentico, la cronachistica “realtà” in nome dell’essenziale “verità”. In questo senso, per citare ancora un passo dove si stringono in un solo nodo vita e “teatro”, è molto interessante la lettera a Muska in cui Chiaromonte se la prende con Ernesto De Martino e con la sua idea che la supposta interiorizzazione cristiana del dolore costituisca un “progresso” rispetto agli antichi lamenti funebri. Gli sembra infatti che l’espressione aperta e rituale delle lamentatrici greche o lucane sia “teatrale” in senso alto. E’ cioè una forma che riesce a portare alla luce e a comunicare a tutti la sofferenza proprio perché la stacca dal «linguaggio servile del quotidiano», perché non la affida al mero istinto ma a un vero «gesto», appropriato in quanto regolato comunitariamente, tramandato, «ieratico». Non ha nessun senso, secondo Chiaromonte, parlare di banale «finzione» o di banale «sincerità»: la verità emerge qui grazie all’apparenza. E da una situazione simile scaturisce il dramma in senso stretto.
9.
Pur attribuendo una evidente preminenza al teatro, Chiaromonte chiede qualcosa di simile anche alle altre forme d’arte. In tutte, cerca la stessa semplicità chiara e intelligibile a cui invita anche la Muska poetessa: «quella dei templi greci, di Santa Sofia, dei mosaici bizantini, di Masaccio». Ama l’arte che dà forma alle essenze ideali, non a un’espressione dell’io. Il modello di questa estetica è ancora greco, e a Muska Nicola ne confessa l’origine. Se torna così spesso sulle figure classiche, le dice, dipende forse dalla forte impressione provata da ragazzo davanti a una colonna dorica vista in un libro di Reinach, e rimasta per lui «l’immagine della pura e severa bellezza»: la bellezza che sprona a un’austera limpidezza morale, che ispira una pace armoniosa, e insieme addita un persistente enigma. Un enigma non molto diverso, forse, da quello che lo affascina nelle parole e nei versi della sua corrispondente, assimilati a una «statua arcaica» e a «un’immagine di mosaico, tutta splendida e impenetrabile», cioè a forme che indicano ancora il «divino».
Ma se tutto questo è vero, ci si potrebbe chiedere come mai Chiaromonte abbia speso tante pagine sul romanzo, l’arte per eccellenza moderna e realistica. Certo, le sue analisi gli servono a inquadrare e a criticare le credenze della modernità; e tuttavia, come spiegare la sua indubitabile ammirazione per le creazioni narrative più emblematiche di quell’Otto-Novecento da lui così bersagliato e detestato? In realtà, basta leggere attentamente per capire che anche qui il suo discorso teoretico-estetico mantiene una mirabile e per nulla volontaristica coerenza. Alla forma-non forma del romanzo, l’autore di Credere e non credere e della Situazione drammatica riserva un atteggiamento costantemente e motivatamente ambiguo, una specie di ammirata perplessità che non è affatto un segno d’incertezza critica, bensì il riflesso esatto delle contraddizioni intrinseche all’oggetto esaminato. Infatti, da un lato il romanzo si sviluppa col trionfo della Weltanschauung storicista; ma dall’altro lato, i suoi esemplari più autentici non fanno che contrapporsi ai referti ufficiali della Storia, tentando di raccontare una contro-storia più vera. Questo però, s’intende, non è sufficiente a sottrarli all’ideologia dominante. Perché anche le contro-storie si basano sulla convinzione che esista un’omologia tra i destini privati e i fenomeni sociali; e poco importa, poi, se da una tale convinzione si ricavano rappresentazioni ottimistiche o pessimistiche. A volte, tuttavia, capita che l’antagonismo sia portato così a fondo da mettere in crisi perfino la concezione organicistica su cui si regge il genere. Allora il romanzo tende a esorbitare dai suoi confini. Si dirà che questi confini sono molto malleabili: che si tratta della forma letteraria per eccellenza indefinita, e anzi destinata, se vuol restare genuina, a reinventarsi ogni volta da capo. Ma Chiaromonte ribatte che c’è un tipo di discorso davanti al quale il romanzo deve per forza arretrare: ed è la discussione aperta – non mediata dai personaggi, non ridotta a un puro ingrediente narrativo – delle idee e delle visioni del mondo che gli consentono e gli impongono il suo realismo, la sua fiducia intuitiva nell’intelligibilità psicologica e sociologica delle vicende umane. Il romanziere, finché resta del tutto romanziere, non può ragionare, affrontare un problema nei suoi elementi primi e nelle sue implicazioni ultime, senza depotenziarlo e trasformarlo in uno dei tanti contenuti che sostanziano il flusso dell’intreccio: questa nudità è consentita solo al teatro.
Il genere principe della modernità, figlio delle peripezie cristiane, può insomma raggiungere altissime vette d’arte, ma non può interrogarsi senza schermi sulla propria ideologia umanistica senza diventare qualcos’altro. In questa incapacità di darsi una rigorosa forma logica somiglia allo Stato moderno, che è quasi il suo corrispettivo politico. In un saggio giovanile, in cui tra l’altro anticipa Orwell e Arendt descrivendo gli effetti dei regimi totalitari sul linguaggio e la loro impermeabilità alle verità di fatto, Chiaromonte parla dello Stato appunto come di una istituzione compromissoria, di una forma informe destinata a ricevere dall’esterno i suoi contorni. Il fascismo è il fenomeno che rompe questa indefinitezza, traendo tutte le conseguenze implicite nell’idea moderna del potere: e così, in qualche modo, porta a compimento il destino della macchina statale mentre la riduce all’assurdo. Stato e romanzo sono forme “medie”, destinate a sopravvivere solo finché una crisi traumatica non rimette gli uomini faccia a faccia coi problemi elementari della vita comune, e insomma finché non torna a imporsi l’urgenza di pensare a questa vita con una coerenza più radicale, preclusa per principio ai loro compromessi tra singoli e collettività. Davanti alla crisi novecentesca, l’equilibrio fittizio, il mito di un’armonia prestabilita tra “interno” ed “esterno” su cui sorgono le narrazioni politiche e letterarie della modernità, si rivela ormai un meccanismo inerte, una pelle secca da strappare via per far emergere la realtà che preme sotto. E questa realtà può indurre gli uomini a inventare con coraggio nuove coerenti istituzioni, o ripresentarsi nella totale informità dei nichilismi distruttori che sono dilagati dopo il 1914. Velleitari, comunque, diventano tutti i tentativi moderati, ossia tutti i tentativi di restaurare forme ormai vuote.
Sul piano delle istituzioni politiche, furono queste idee a provocare l’allontanamento di Chiaromonte e degli altri «novatori» da Giustizia e Libertà. L’ideologia “media” e ibrida dei Rosselli, infatti, non approfondiva con coerenza né il contenuto del socialismo né quello del liberalismo, finendo per manovrare dei vaghi pseudoconcetti e per inquadrarli nella vecchia cornice del parlamentarismo prebellico e dello Stato centralizzato. I Rosselli rifiutavano di prendere atto della tara fisiologica di questa cornice – tara rivelata una volta per tutte dal fascismo – e quindi di ripensare radicalmente il teatro della democrazia, che per Chiaromonte, e in parte per i suoi compagni caffiani, poteva acquistare un senso e inverarsi sul serio soltanto in comunità di base autonome. Come in letteratura i narratori del Novecento che scrivono romanzi epigonali, improbabilmente ottocenteschi, così in politica i Rosselli continuano a credere nell’astrazione dell’Individuo Liberale, quell’Individuo che sottovaluta il potere del fato, che si ritiene fabbro della propria fortuna, e che s’inserisce “naturalmente” nel quadro di istituzioni borghesi refrattarie a porsi domande sui loro fondamenti ultimi, sulle conseguenze estreme quanto inevitabili della loro logica interna. Il “contratto” su cui i liberali fondano la società è il romanzo politico che serve ai moderni per esorcizzare ciò che di necessariamente oscuro resta sempre alle origini dei legami sociali e naturali. Ma quando una tale forma si evolve secondo i suoi principi, il volontarismo che la sostiene si ribalta a poco a poco nel fatalismo storicista, in una sclerotizzazione burocratica e in un immobilismo a loro volta liquidati dalla soluzione finale dei totalitarismi. E’ la stessa parabola che tocca al romanzo in senso stretto, specchio poetico di questa Storia.
La perfetta corrispondenza che si riscontra nel pensiero di Chiaromonte tra i due lati della questione ne dimostra una volta di più la compattezza. E’ una compattezza mai esibita, impermeabile agli orgogli autopubblicitari della filosofia sistematica e professorale, ma perciò anche molto meno superficiale e più credibile. Tra il Chiaromonte libertario, che difende un’idea platonica di libertà ma rifiuta di fissarla nelle definizioni del liberalismo classico, e il Chiaromonte teorico dell’arte che al tempo delle narrazioni moderne oppone l’atemporalità del teatro antico, c’è fin dagli esordi un rapporto stretto e spontaneo.
Ma a differenza dello Stato, come si diceva, il vero romanzo oltre che specchio delle ideologie moderne è anche una loro critica impietosa. E a Chiaromonte interessano gli esperimenti nei quali questa contraddizione si estremizza fino a incrinare l’impianto formale. Lo interessano cioè i romanzieri che tengono fermo lo sguardo sulla vanità di quelle ideologie con un coraggio e una lucidità tali da spingerli a tagliare il ramo su cui sono seduti. Il caso più esemplare è ovviamente quello di Tolstoj. Ma anche l’altro protagonista di Credere e non credere, l’autore della Certosa di Parma, mostra sullo stesso piano una spregiudicatezza sorprendente, tanto più se si considera che scrive ancora nell’età eroica del romanzo. Già in Stendhal, spiega Chiaromonte, questa forma è messa sottilmente ma strutturalmente in discussione: tende a divenire una “favola”, un apologo che illustra l’estraneità degli “eventi” e dei “sogni”, accomunati solo da un’uguale inconsistenza. «Tutto Stendhal sta, si può dire, nella capacità di tenersi allegramente alla punta estrema del paradosso per cui né il cosiddetto mondo esterno – la società con le sue trame, gli altri con i moti imprevedibili del loro animo – è reale, né i sentimenti e le immaginazioni dell’individuo: reale è sempre e soltanto lo scontro fra i due ordini di fatti, la “commedia di equivoci” che ne scaturisce», scrive Chiaromonte. Questo scontro è l’argomento fondamentale di Stendhal: e se riesce a trattarlo in una forma ancora apparentemente romanzesca, è perché quel suo mondo narrativo, in cui il vissuto e la Storia rischiano di dissolversi a ogni pagina, è tenuto in piedi da un ultimo fragile mito individualista, il mito della vulnerabile ma indomabile energia giovanile, della fresca sensibilità adolescente che s’impone poeticamente su tutto e malgrado tutto.
Anche Tolstoj ha un mito: la naturalezza della vita “semplice”, la vita fatta di passioni pure, elementari, e dunque rousseauianamente morali. Ma questo mito è ancora più fragile. Nei capolavori del romanziere russo, infatti, la naturalezza si scopre illusoria non appena un’emergenza, un improvviso disordine esistenziale e soprattutto il disordine della guerra mostrano la «grave dipendenza» che lega tra loro gli uomini, denudando quelle relazioni dal cui groviglio si sprigionano le forze incontrollabili di un potere malvagio e impuro. Nella Storia, nelle gravi faccende pubbliche non c’è alcuna verità; ma infine anche la vita semplice si rivela un’illusione in sé. Anche la quotidianità, come prova Anna Karenina, viene inevitabilmente scossa dalla furia arcana del destino e della nemesi. Anzi, per apparente paradosso, quel sentimento del divino che nelle vicende umane sembra il solo spiraglio offerto alla ricerca del vero, getta sui personaggi la sua luce più pura proprio davanti alla violenza bellica. La guerra, certo, tende a trasformarli in oggetti con brutalità inaudita: ma proprio per questo, assai più dell’esistenza normale, li obbliga anche a intuire ciò che in loro non può mai essere ridotto a materia, sottomesso o distrutto. Questa, in Guerra e pace, è l’esperienza totale di Andrej e di Pierre. Ma si tratta pur sempre di un’epifania istantanea, di un’intuizione e di un sentimento che balenano un attimo squarciando le opacità della coscienza per poi subito svanire, o comunque per perdersi in una ineffabilità inutile e incondivisibile. Non si possono esprimere, trasformare in durata e discorso, se non al prezzo di tradirne la purezza: ed è ciò che avviene quando Tolstoj prova a tradurli in una religiosità universale, dando nomi sempre più improbabili o quasi filistei a una fame di verità che di filisteo non ha nulla. Ma questo difetto, che riguarda il Tolstoj pedagogo, non inficia la superiore onestà del romanziere, la cui obiettività di sguardo è tale da escludere o comunque problematizzare al massimo ogni mitizzazione della vita “naturale”. E a metterlo in guardia è prima di tutto la scoperta decisiva compiuta al tempo di Guerra e pace: la coscienza, cioè, del fatto che è impossibile naturalizzare davvero la vita degli uomini, interpretarla e modificarla come s’interpreta e modifica il mondo della natura.
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Niente come l’atteggiamento di Chiaromonte verso Tolstoj spiega il suo modo di guardare alla narrativa moderna: il romanziere che più ama è quello che col suo estremismo etico e teoretico mette sotto scacco il romanzo, è lo scrittore che porta questa forma al suo massimo splendore ottocentesco, ma al tempo stesso si mostra già novecentescamente insofferente dei suoi limiti. Tolstoj muore nel 1910. Nell’ottica chiaromontiana, imbastire plot romanzeschi senza peccare di volontarismo e malafede diverrà di lì a poco quasi impossibile, come diverrà quasi impossibile tentar di restaurare senza volontarismo e malafede lo Stato liberale e le credenze su cui poggiava. La “realtà” compatta da cui emanavano le narrazioni moderne si rivela nel Novecento un mito, una fantasia ormai logora e staccata dai fatti. Perciò le riproposizioni del realismo ottocentesco suonano false, e la trama del romanzo “medio” diventa un succedersi di meri casi insignificanti, del tutto surrogabile dal succedersi dei fotogrammi cinematografici. A questo punto, delle due l’una: o si dissolve il romanzo dall’interno, immergendosi nelle pieghe e nei tempi interiori della psicologia e fabbricandosi una «eternità» estetica come Proust; oppure si abbandona il campo, e si torna alle domande extraestetiche e primarie, interrogandosi sulle ragioni per cui le vecchie credenze sono morte. Così, almeno, vorrebbe il rigore chiaromontiano. Nei fatti, ovviamente, la situazione è molto più ambigua. E uno dei casi più interessanti di ambiguità glielo offre il suo amico Moravia: che, come Forster, trucca superstiziosamente da romanzi realistici parabole il cui pregio è invece la nuda e non più romanzesca esemplificazione di un mondo ormai carente di realtà.
In ogni caso, ciò che rimane di romanzesco e di naturalistico nell’arte sembra ormai inservibile e tendenzialmente menzognero. Del resto è proprio per mentire, per escludere artificiosamente una parte di esperienza vera, che gli artisti engagés e soprattutto i cosiddetti “realisti socialisti”, cioè le incarnazioni intellettuali dell’ortodossia politica, si rifanno a modelli ottocenteschi piegandoli alla propaganda. Il fatto, nota Chiaromonte, è particolarmente evidente nelle arti figurative: qui i rappresentanti del realismo socialista credono di potersi servire del naturalismo dell’Ottocento come i gesuiti si servivano del classicismo del Cinquecento e del Seicento. Ma poiché l’arte postromantica non è normativa, e il suo realismo esiste solo come continua e anarchica ridefinizione del reale, se s’irrigidisce la sua tradizione in norma si scade subito in un eclettico poncif.
Per fortuna, però, proprio dall’est schiacciato sotto i sistemi del socialismo reale e del realismo socialista sembra venire anche la reazione più promettente alla crisi estetica novecentesca, almeno a quella letteraria. A leggere certi autori dissidenti, sembra anzi che di là possa perfino rinascere una forma non volontaristica di romanzo, magari ancora pervasa dalle vaste aspirazioni d’integrità spirituale della tradizione russa e tolstojana. E’ per questo che nelle lettere a Muska Chiaromonte insiste speranzoso sul nome di Solženicyn. L’autore di Arcipelago Gulag gli sembra una miracolosa alternativa all’intellettualismo egomaniaco, una straordinaria incarnazione dell’umanità che ama il mondo ma ne rifiuta l’illusorio possesso, e che nelle condizioni più estreme sa ritrovare i modi giusti per comunicare le verità basilari e durevoli della vita. Per la stessa ragione, nelle lettere ragiona su Pasternak, cita Brodskij, e scrive di apprezzare il Kundera dello Scherzo. Pare quasi che l’emergenza, la sofferenza, l’oppressione da cui nascono i libri di alcuni di questi autori siano le uniche condizioni perché la letteratura torni credibile, e in particolare perché torni credibile la narrativa romanzesca prosciugata dall’Occidente del pieno e tardo ventesimo secolo.
Ma si tratta, appunto, di casi eccezionali. In assoluto, per Chiaromonte il romanzo non è più il centro della letteratura. I traumi bellici, e quelli economico-mediatici, impongono di progettare soprattutto opere in cui sia possibile interrogarsi esplicitamente, senza mediazioni, sui rapporti tra arte e società, e sulle ragioni per cui si è rimasti privi di vere credenze, cioè di credenze condivise. Perciò, caduti i miti fondanti del realismo, riacquista un senso nuovo il teatro, «luogo dove la realtà è messa pubblicamente in questione». Pur con molta cautela, Chiaromonte suggerisce allora che forse per la prima volta dopo duemila anni, anzi per la prima volta dopo la fine della civiltà greca classica, la «situazione drammatica» potrebbe risorgere nella sua purezza. Ma s’intende che il teatro degli orfani del cristianesimo, ai quali la realtà appare come una serie di evidenze nude, irrelate e dunque incredibili, non può che essere speculare al teatro greco: una «azione ragionante» tutta tesa a rendere intelligibile non la coesione, il «cosmo», ma il caos a cui il fato novecentesco ci condanna.
Tuttavia, anche quando accenna a una prospettiva, a una speranza di cambiamento, Chiaromonte si guarda bene dal trasformarla in un programma campato in aria, e quindi in un’ennesima forma di compensazione ideologica. Nell’idea ossimorica del «nichilismo positivo», il sostantivo importa quanto l’aggettivo, e riflette tutta la sua disapprovazione per i troppi censori della modernità che credono di poter sottovalutare la crisi di credenze e valori. La verità è che nessuno può superarla da solo e di colpo, nessuno può tirarsi su per i capelli alla Münchhausen: nemmeno gli artisti. Si dirà che questa posizione potrebbe in qualche modo giustificare l’afasia dell’arte otto-novecentesca. E’ vero. Ma la giustifica solo a patto che gli autori dei suoi abbozzi informi e assurdi accettino di considerare le loro opere per quello che effettivamente sono: sintomi dolorosi dell’impossibilità di un’arte autentica, e non frutti compiuti di una legittima, soddisfacente concezione estetica. Chiaromonte pretende che non si chiami l’informe nuova forma, e che si abbia il coraggio di scontare la crisi in tutto il suo peso senza rifugiarsi in un presunto privilegio di casta. Perché l’arte non può vivere sdegnosamente staccata dal mondo da cui affiora, e non può essere fondata sull’arbitrio soggettivo o sulla capziosità teorica. In una delle prime lettere a Muska riporta un passo dei suoi taccuini sulla bellezza, Leitmotiv del carteggio, che spiega bene il suo punto di vista antimoderno: «La differenza fra godimento estetico e senso della Bellezza», scrive, «si può paragonare a quella che esiste fra la verità secondo la logica formale (che è una verità negativa, nel senso che ci offre la regola del falso, ma non il modo di accedere al vero) e la verità vissuta e contemplata, che è accordo fra l’esperienza del reale e la necessità propria del pensiero».
La bellezza nasce da un mondo ideale costruito in comune: concentrandosi sulla sensibilità del soggetto, ciò che si ottiene è solo un’effimera impressione (piacevole o shockante) o un’effimera ideologia poetica. In un saggio famoso su una terzina di Dante, Chiaromonte osserva che noi siamo così abituati a delibare l’arte secondo i presupposti del soggettivismo estetico, che fatichiamo a onorare in pieno la complessa bellezza intelligibile di testi costruiti su altri fondamenti. Generalizzando quell’analisi, e opponendosi alle strumentalizzazioni ermeneutiche, afferma decisamente che se il senso di un’opera sta in ogni esecuzione o lettura, tuttavia «l’opera rimane al tempo stesso una realtà in sé, inesauribile. Così della “lettura” del mondo che noi vivendo facciamo: ne siamo interamente responsabili e autori. Ma “leggiamo” il mondo, non il nostro “ego”».
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E così, siamo tornati a quello che insieme con la Storia è l’altro bersaglio grosso di Chiaromonte: l’ego, e nello specifico l’ego delle sedicenti scienze psicologiche. Le quali scienze, poi, non sono altro che il côté “individualistico” delle ideologie storiciste. Per Chiaromonte, platonico e husserliano, l’idea di trattare la persona e le sue ragioni come un oggetto “obiettivo” delle scienze naturali, quasi che chi le giudica non si trovi profondamente implicato nel giudizio, è una bestemmia, un sintomo di tracotanza intollerabile estremizzato nella psicanalisi. Pretendere di avere per specialità «l’animo umano» significa coltivare di fatto una tendenza «totalitaria». La psicologia accettabile è per lui una faccenda d’intuizioni, di tatto e di verosimiglianza: è quella, senza pretese di verità obiettiva, proposta dai più acuti moralisti, filosofi e romanzieri. Ha senso se «negativa» e «ironica», cioè se serve a demistificare un’idea dogmatica della natura umana. Il resto è truffa; ed è, come la psicanalisi, la parodia delle narrazioni moderne. Questo giudizio ferocemente liquidatorio è determinato anche dal fatto che il sogno «totalitario» degli psicanalisti intende portare l’uomo a uno stato del tutto opposto all’equilibrio sognato da Chiaromonte. Anche su questo tema, le lettere a Muska offrono passi sintetici e definitivi, che si possono associare alle requisitorie della Weil contro i cedimenti agli impulsi e alle immaginazioni interiori. «Che cosa significa “manifestarsi”?», le scrive Nicola. «Non certo, assolutamente no, quello che intendono gli psicanalisti. Ma arrivare al punto in cui c’è equilibrio di verità fra il proprio “essere interiore” (il “meglio” di sé) e quello esteriore. Gli psicanalisti per “essere interiore” intendono l’opposto: il subbuglio mostruoso degli istinti, impulsi, voglie, appetiti – e questo, io direi, non è niente di “reale”: è quello che Blake intendeva per “pestilence”. In sostanza, è il cattivo sogno del quotidiano». E di questo sogno, dei fantasmi passeggeri e non chiarificabili degli «stati d’animo», il teatrale Chiaromonte è così insofferente da avvisare Muska che cercherà di non condividerli con lei: anche se poi, per fortuna, infrange la regola e ci restituisce vivacemente gli umori da cui nasce la sua nettezza teorica.
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Il rifiuto d’interpretare la realtà mettendo al centro i moti che si agitano nel singolo da una parte, e il puro seguito delle sue azioni “storiche” dall’altra, favorisce un curioso rapporto tra l’autore di queste lettere e la cultura antiumanistica che negli anni Sessanta conquista l’egemonia contro il vecchio umanesimo storicistico. Come e più che altrove, Chiaromonte dichiara qui la sua ammirazione per lo strutturalismo di Lévi-Strauss e di Foucault – con cui ha modo di dialogare in pubblico – oltre che per il loro antenato Saussure. Sempre in cerca di modelli astorici e puri da contemplare, è affascinato dalla loro lettura astratta del mondo e del linguaggio. Al tempo stesso, però, non può accettarne una caratteristica decisiva: la vocazione alla tecnocrazia, la tendenza a ritenere l’uomo superato da strutture concepite come meccanismi. Perché per Chiaromonte, al contrario, i modelli e gli ordini che sovrastano fatalmente le contingenze della vita umana non sono mai del tutto afferrabili. Tipico il caso del linguaggio, da lui così amorevolmente indagato, anche in queste lettere, attraverso le etimologie. Ogni idea sulla sua origine si dimostra a suo avviso insufficiente. La sua natura resta inspiegabile, la sua nascita un mistero; ed è da questo mistero che deriva il resto, l’ordine propriamente e solamente umano. Ciò equivale a dire che le “strutture” hanno a che fare col divino: mentre gli strutturalisti lasciano intendere che somigliano a schemi calcolabili e magari manipolabili. Riemerge qui di nuovo la diffidenza di Chiaromonte davanti a tutte le visioni che cercano la verità e il senso nelle tecniche, ricadendo così in una ingannevole semplificazione antidealista anche quando dal gioco puro delle idee erano partite.
Nel carteggio, una notevole ramificazione della polemica contro la “obiettività tecnica” riguarda la fotografia e il film. Per Chiaromonte il cinema, al contrario della vera arte drammatica, propone solo una successione di meri segni incapaci di trasformarsi in significati complessi: sta tutto nell’effetto immediato, e appena cerca di proporsi mete intellettuali, magari pretendendo che indugi e lentezze rendano un paesaggio o un volto oscuramente significativi, rischia di cadere nella comicità involontaria di certo Antonioni e certo Bergman. Scrive a Muska che la fotografia, l’immagine meccanica, riporta «a un falso primitivismo e pre-logismo». Nella ottusità fotografica, nel puro documento non può esserci verità. Ricopiando passi dei taccuini, arriva a proporre all’amica un esempio eloquente. Se avessimo una registrazione totale, una documentazione assoluta delle vite di Socrate e Cristo, le dice Nicola, ciò non ci aiuterebbe affatto a conoscerli davvero, come una fotografia del Cristo e della Vergine dentro una chiesa non favorirebbe per nulla l’adorazione. La verità, il senso della loro presenza sta solo nell’idea: sta, cioè, solo nel mito e nel discorso ordinato che l’esperienza del rapporto con queste figure e con le loro parole hanno prodotto.
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Come si vede, dal carteggio con la suora benedettina emergono davvero quasi tutti i motivi salienti dell’opera chiaromontiana. Ed emerge, con più aperta insofferenza, l’opposizione a un modo d’essere contemporaneo che sembra lasciare come sola via d’uscita una sorta di fatalistica saggezza. Ma in realtà Chiaromonte è troppo combattivo per diventare del tutto “laotsetiano”. Diciamo piuttosto che la sua è una forma molto personale di resistenza stoica. Con un’assertività drastica, antica, impaziente di ridurre l’importanza dei problemi sociali e individuali, ripete a Muska ciò che dice nei taccuini: che la vita è «intera» in ogni condizione, che la differenza tra gli stati e le fortune è disprezzabile. Quel che resta da fare, in ogni caso, è tenere fermo il vero e la propria identità; accettare il dolore, e fissarne senza paura l’aspetto indecifrabile. Bisogna, insomma, far la parte del Sisifo di Camus: avere il suo senso del limite e del fato, ma conservare anche il suo sempre rinascente pathos della libertà, una libertà da condividere con individui in carne e ossa, al di qua e al di là di ogni fanatica astrazione. Però bisogna fare tutto questo senza perdere di vista quella religiosità “greca”, che a Camus era velata dall’insistenza sull’assurdo e su un troppo generico umanismo.
A questo punto, tuttavia, è davvero difficile dire cosa davvero «rimane» dell’uomo, del suo senso. E non è un caso che quando cerca di farlo, il piano Chiaromonte si avvicini quasi alla mistica Weil o al non amato Kafka, e in genere a un linguaggio impensabile senza la modernissima tradizione kierkegaardiana. Se la vita umana somiglia a un frammento, a una serie di occasioni insensate e di situazioni incompiute, «conta (…) alla fine, questo fatto soltanto: ciò che si sentiva o si avvertiva di significato possibile della vita – ciò che dell’Essere del mondo arrivava fino a noi, insomma – e non era in ogni caso – né poteva essere – che l’ombra di un’ombra. Eppure questo resiste al Nulla. Non può essere distrutto perché non è mai appartenuto al mondo del cambiamento: è stato, se si vuole, un miraggio fermo e fisso, più forte in noi di ogni supposta “realtà”!».
Ma in Chiaromonte, lo stoicismo da cui nasce un pensiero così vertiginosamente antimondano non è mai scindibile dai destini generali. Come ribadisce ovunque, il singolo individuo può capire o vedere alcune cose che restano oscure ad altri, ma non può sfuggire alle credenze comuni attraverso cui una società concepisce il rapporto tra l’uomo e il cosmo: «del mondo nel suo insieme non si può credere che quel che ce ne appare attraverso i modi d’essere e di pensare dei nostri simili». Perciò Nicola scrive a Muska che «non si può essere superiori al destino che vi colpisce». Questo pensatore antimarxista, e così platonicamente convinto della realtà del puro mondo ideale, comprende benissimo la dialettica che lega ciascuno al suo tempo, e a quelle visioni che non coincidono né con idee astratte né con contingenti stati d’animo, ma rinascono ogni giorno negli scambi sociali. Così, sa che è impossibile separare dalla massa delle élites d’irriducibili individui integri: perché siamo tutti in parte individui integri, o almeno resistenti, e in parte uomini-massa arresi all’apatia e all’ignavia, abituati a vivere rimandando le scelte nette tra bene e male e agendo «senza persuasione e, nel contempo, senza violare chiaramente nessuna norma intima; ma anche senza osservarne chiaramente nessuna». Anche a Chiaromonte, nel suo lavoro di pubblicista controvoglia, capita perciò di sentirsi «metà compromesso e metà intransigenza», incapace di attingere quella «estrema semplicità» senza schermi che sola riporta alle circostanze elementari della vita e dunque alla verità. E’ questa consapevolezza che lo distingue da tanto aristocraticismo in finto oro del Novecento, cioè da chi crede o finge di credere a una restaurazione dei valori, e pensa di potere salvarli e salvarsi restando immune dall’involgarimento del mondo in cui vive. E’ una consapevolezza che si riflette anche nello stile. Come osserva Karpiński, Chiaromonte non vuole sedurre il lettore, strappare l’applauso da aforista brillante, ma mettersi a ragionare con lui, scrivere in modo che in primo piano appaia sempre il nocciolo essenziale del problema trattato; e se accosta bruscamente esperienze culturali lontane nel tempo, non lo fa per stupire postmodernisticamente il pubblico, ma perché una volta spogliate degli involucri rivelano nuclei di pensiero che si fecondano a vicenda e aiutano il ragionamento a procedere. Non è illegittimo ritenere che questi tratti della sua opera abbiano contribuito alla sua sfortuna presso gli editori (i curatori del carteggio con Muska ricordano il rifiuto di Adelphi): certo è quasi impossibile stilizzare Chiaromonte in uno scintillante e vendibile logo culturale. Così i suoi scritti, spesso usciti in prima battuta all’estero – sulle riviste polacche della dissidenza, negli ambienti anglosassoni – o in edizioni italiane ormai quasi introvabili, rimangono pressoché sconosciuti ai lettori del Duemila. Hanno fecondato le riflessioni delle sue esili e prestigiose comunità cosmopolite novecentesche; ma oggi che quelle comunità non ci sono più, rischiano di non poter nutrire con la loro energia intatta le nuove generazioni di cittadini dell’Italia, dell’Europa e del mondo. E’ anche questo un piccolo esempio dello sconfortante gioco di forze in cui si concretizza la poca sensatezza della Storia – storia della cultura compresa. Chiaromonte insegna a non farne un idolo, a preservare la propria vita mentale dai suoi ricatti e dalle sue immagini stereotipate, ma sa che non si sfugge al loro manifestarsi; non li si controlla: ma non si può fare a meno, tenendo fermo il vero, di scontrarcisi e di tornare di continuo a denunciarli. Spesso, nel carteggio con Muska, torna il riferimento a una grotta di Paros, emblema di uno spazio puro e alieno dal caos; e spazio puro, mentale, è il giardino immaginario che la suora disegna per l’amico. A un certo punto, la fame platonica di idee che Nicola mostra nelle sue lettere deve averla indotta a ricordargli l’importanza della vita “reale”, dei «piatti da lavare». Lui risponde rassicurandola sul fatto che «i piatti», volente o nolente, li lava ogni giorno: nei “fatti” ci si urta sempre e comunque. Eppure non si può non notare che anche accennando ai lavori pratici, Chiaromonte mette subito l’accento su un loro valore in qualche modo ascetico. Per quanto la vita umana sia incoerente e frammentaria, è probabile che questo intellettuale platonico riuscisse a render visibile anche nell’esistenza quotidiana una coerenza, una integrità dai contorni straordinariamente netti e plastici. E forse questo spiega perché alla McCarthy e a Malraux sia venuto in mente di trasformarlo rispettivamente nel Fondatore Monteverdi dell’Oasi e nel «piccolo Scali» che, con una discrezione e un disagio pari all’eroismo, partecipa alla guerra aerea spagnola della Speranza: cioè in quelle figure per eccellenza ideali, e quindi capaci di rivelarci chi siamo davvero, che sono i personaggi dei romanzi.
(2013-2014)