Cultura e società

Fantozzi, l’impolitico

Per capire bene la pernacchia alla Corazzata Potëmkin, nel Secondo tragico Fantozzi, prima libro (1974) poi film (1976), bisogna darle un minimo di contesto, altrimenti si montano delle querelle culturali (Villaggio contro Ejzenštejn, il cinema popolare contro il cinema d’autore, l’insulto alla memoria di un film che non è affatto «una cagata pazzesca») che non stanno né in cielo né in terra.

Quarant’anni fa c’erano in Italia due cose che oggi non ci sono quasi più. Prima cosa: la grande azienda ‘buona’ che pensava non solo alla vita lavorativa dei suoi dipendenti ma anche alla loro crescita culturale e morale, e quindi organizzava il loro tempo libero inventandosi conferenze, gite aziendali, cineforum. A Villaggio, ex impiegato Italsider, non doveva mancare quel genere d’esperienza. Seconda cosa: il dibattito e gli intellettuali da dibattito, che venivano presi sul serio e ascoltati dagli aspiranti intellettuali e dai non-intellettuali, che non capivano e si annoiavano ma non avevano il coraggio di dirlo.

All’intersezione tra questi due mondi, l’azienda-madre e l’intellettualità, sta il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, il quale è due cose insieme: uno dei capi dell’azienda in cui Fantozzi lavora e un intellettuale cinefilo, cioè uno che sa che il Doktor del film è Caligari e non Caligaris e che pronuncia Griffith ‘come si pronuncia’, cioè in modo (per Fantozzi) inintelligibile. Questa seconda natura di Riccardelli (il suo essere professore) è più importante della prima (il suo essere dirigente): la sua mania per il cinema non è come la mania per il ciclismo del visconte Còbram, o la mania per il biliardo del conte Catellani, o quella per il gioco d’azzardo del duca conte Semenzara, perché tutte queste non sono occupazioni intellettuali, non servono a migliorare la mente e lo spirito di chi le pratica. Invece il professor Riccardelli vuol fare precisamente questo: migliorare la mente e lo spirito dei suoi impiegati. Perciò non li costringe soltanto alla visione della Corazzata ma poi, dal palco, li stimola al dibattito. Mentre non si possono intellettualizzare il ciclismo, o il biliardo, o lo chemin de fer, si possono certamente intellettualizzare i film, se ne possono amplificare retoricamente i dettagli (l’occhio della madre, la carrozzella col bambino), li si può avvolgere con parole incomprensibili e idee orecchiate in qualche saggio para-accademico (il «montaggio analoggico» del povero Calboni).

Il bersaglio non di Villaggio ma – bisognerebbe dirlo più spesso – di Villaggio-Salce-Benvenuti-DeBernardi è soprattutto questo: non il Capitale, non Ejzenštejn, bensì l’uso retorico e autoritario della cultura. E la protesta di Fantozzi non è politica (non c’è traccia di politica nel racconto di Villaggio che ispira la scena), è umana: la protesta della natura, del corpo (la frittata di cipolle, il rutto libero, i film di Franco e Ciccio e di Laura Antonelli), contro i diktat di una cultura che né si comprende né si apprezza, anche se si simula di farlo. E insomma, non siamo molto lontani dall’aria del tempo còlta da Moretti in Io sono un autarchico con la battuta «No, il dibattito no!»; ma gli sceneggiatori di Fantozzi la colgono con due anni d’anticipo, e parlano a nome del Popolo, non a nome di un altro intellettuale autoironico. Controprova: il Popolo ha mandato a memoria la scena della Potëmkin, e l’adopera ancora adesso come arma contro gli intellettuali da cineforum, oggi trasferitisi nel web.

 

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