Col latino, le cose sono abbastanza semplici. Se uno l’ha studiato e lo sa, è bene che non lo usi mai, a meno che non si trovi a un congresso di classicisti, o stia scrivendo un’enciclica. Se si sta parlando di politica, o di calcio, o delle prossime vacanze, è meglio resistere alla tentazione di infiorettare il discorso con qualche citazione latina, per non sembrare uno snob, uno che vuol far sapere quant’è colto. È una questione di educazione. Se invece uno il latino non l’ha studiato e non lo sa, è bene che non lo usi mai, per non sembrare uno snob e, insieme, un asino. È una questione di buon senso.
Da questa breve tassonomia si deduce che non c’è mai una buona ragione per usare il latino mentre si parla o si scrive in italiano, cioè per dire o scrivere frasette come lento pede, castigat ridendo mores o intelligenti pauca. O meglio, si possono dire o scrivere, ma solo ironicamente, col sorriso che dice che non stiamo facendo sul serio. Anche la lectio magistralis non ci perde niente, e anzi ci guadagna, ad essere chiamata ‘lezione’.
Invece, presentando il movimento ConSenso davanti alla fronda PD, D’Alema non ha resistito. Ha fatto il classico, mica l’alberghiero, e poi quattro anni di Scuola Normale, è un capitale simbolico che bisogna spendere. Così ha detto: «… come avrebbe scritto un grande poeta, Quandoquidem dòrmitat Homerus. Mi sfogo qui, perché nel Partito Democratico non si può più parlare in latino». Ilarità, applausi.
Il problema non è che sono tre parole e due errori, dato che il verso di Orazio (il «grande poeta») dice quandoque, ‘e quando, anche quando’, non quandoquidem, e in dormitat la i è lunga, quindi si pronuncia dormìtat, con l’accento sulla i, non sulla o. Il problema è proprio il latino, l’impiego minatorio del latino, l’idea della cultura non come silenzioso possesso ma come distinzione, da far valere nel confronto con chi quella distinzione non ce l’ha, perché non ha fatto le scuole giuste o ha colpevolmente liquidato l’umanesimo perché occupato a inseguire idoli più effimeri (il mercato, internet, il pop). Il fatto che D’Alema ignori il latino aggiunge solo un tratto patetico a questo snobismo: come lamentarsi, ruttando, del dilagare della maleducazione.
Uno resta pensoso, preoccupato di fronte al calo degli iscritti al liceo classico, alla presunta erosione delle competenze di scrittura dei giovanidoggi, poi arriva un’epifania – sotto forma di Massimo D’Alema, ma poteva essere una qualsiasi altra cosa – e capisce che non c’è da preoccuparsi, e che davvero tutto quello che è nato merita di morire. Si riesce a immaginare una scena del genere, a malapena, in qualche repubblica delle banane dell’America centrale, («¡Ya no se puede hablar latín, joder!»), o in qualche nostro comune del Mezzogiorno, con l’avvocato-assessore che in gioventù ha vinto un certamen di traduzione, e adesso sdottoreggia in consiglio comunale citando il De officiis. Ma è una scena impensabile in qualsiasi altra nazione del mondo. In proporzione con i suoi marmi, i suoi affreschi, l’Italia ha ereditato questa retorica istupidente, questa nozione della cultura classica come qualcosa che nobilita grazie al semplice contatto, come la mano del sovrano nelle superstizioni medievali. Tutto sta a vedere se, alla fine, il bene dei marmi e degli affreschi prevalga sul male della retorica.
Ascoltando D’Alema, l’altro giorno, ho avuto l’impressione che potremmo essere al tipping point, e che le conseguenze della retorica istupidente sull’intelligenza e sul carattere della cosiddetta ‘classe dirigente’ italiana annullino ormai (o forse da tempo) la buona influenza dei marmi e degli affreschi. Non è un’impressione nuova. «L’Italia», scriveva Corrado Alvaro in L’Italia rinunzia? (1945), «ebbe, fra le sue sfortune, quella d’un regime oltre a tutto di molti letterati falliti, che sono la peggiore specie d’uomini». La retorica umanistica nella vita pubblica italiana del Novecento – ecco un saggio che leggerei volentieri, un saggio che permetterebbe di fare delle scoperte, alcune molto spiacevoli.