Sono stato, in vita mia, teologo e maestro d’equitazione; so, per averlo fatto con le mie mani, come si scombicchera il soggetto di un film cinematografico, e come s’impianta una coltivazione di asparagi. Sono stato, per anni, soldato, filosofo, insegnante di lingua e segretario di società anonima. Le mie chiacchiere sono state immeritatamente pubblicate da due editori, cinque giornali, un ente radiofonico; ho i titoli legali per diventare pretore e chauffeur professionista; sono stato ufficiato a fare il precettore nella casa di un barone calabrese, e il commissario prefettizio di un comune. – Bon à tout faire, bon à rien faire? Può darsi; ma intanto, se la sorte mi riservasse di finire lattaio o regista di un teatro d’avanguardia – ciò non mi stupirebbe né mi rincrescerebbe.
Così, nei suoi diarii, si descrive Guido Morselli (1912-1973), erede della buona borghesia emiliana cresciuto a Milano e vissuto poi a Varese, dove con tipica mossa da figlio novecentesco sfuggì alla carriera imprenditoriale preparatagli dal padre per dedicarsi agli ozi letterari.
Morselli rappresenta nel nostro Novecento il caso più clamoroso di sfortuna editoriale. In vita, lo scrittore vide i suoi romanzi costantemente rifiutati; e pubblicò soltanto, oltre a una manciata di articoli, due saggi estetico-filosofici giovanili, Proust o del sentimento e Realismo e fantasia. La parte decisiva della sua opera uscì invece tutta postuma a partire dal ’74, l’anno dopo il suicidio dell’autore. Comunque si vogliano giudicare le circostanze di questa sfortuna, non bisogna dimenticare che i suoi capolavori narrativi Morselli li scrisse lungo gli anni Sessanta: cioè proprio nel decennio in cui più forte, in Italia e altrove, infuriava la polemica contro il genere romanzo, dato autorevolmente per morto. E si trattava, nel caso, di romanzi la cui originalità era tanto maggiore quanto più tendeva a presentarsi sotto vesti sobrie: vesti che una società letteraria attratta dalle infrazioni clamorose degli “antiromanzi” poteva facilmente scambiare per tradizionali (si veda ad esempio il modo in cui Calvino rifiutò Il comunista, appunto perché troppo “romanzesco”).
Del resto la spregiudicatezza di Morselli, antistoricista ostinato, stava anche nel rifiuto di precludersi qualunque soluzione formale, comprese quelle che gli idolatri del Nuovo consideravano ormai inutilizzabili: come il racconto “ottocentesco” in terza persona, tabù di alcuni letterati su cui lo scrittore ironizza sia nei diarii che in Roma senza papa, prendendo a bersaglio in particolare Sanguineti. Questi letterati, dice un micidiale epigramma morselliano su Vittorini, pretendono di recitare insieme la parte degli «enfants terribles» e quella dei «catoni». Soprattutto, s’impegnano a perpetuare una critica che non può dirsi né formalista né contenutista, ma semmai «culturalista»: cioè una critica indifferente al livello artistico di un’opera, alla sua capacità d’interessare il lettore, e ridotta a chiedersi soltanto se l’autore sia «aggiornato rispetto a una certa, ma eminentemente variabile, serie di tesi o opinioni ricevute». Contro questi schematismi, Morselli propone un’idea di romanzo duttile, eclettica, flessibile. Per lui il romanziere deve dividere equamente le sue attenzioni tra il contesto sociale della vicenda narrata e i moti interiori dei personaggi.
Gli piacciono le opere che «fra la necessità rappresentata dall’ambiente, e la contingenza, suppongono una sorta di semipelagianismo», ossia «la concreta libertà» dell’uomo, «che non è mai indifferenza, né assoluto arbitrio», e che implica una volontà capace di tendere a scopi razionali. Si può anzi dire che per Morselli il romanzo è possibile solo là dove ci si rifiuta di attribuire tutto al caso o alla necessità, e di cercare nelle realtà psicologiche o socioeconomiche un’unica causa onniesplicativa. Così ai naturalisti puri, e ai poeti dell’epifania interiore, lo scrittore contrappone la terza via di una narrativa più graduata, dalla composizione «lenta, insistita nei trapassi»: narrativa che vede realizzata in Bernanos, nell’Huxley di Punto contro punto, ma anche nel Rubè di Borgese, in Oggi domani e mai di Bacchelli e nel Bell’Antonio di Brancati. Per il proustiano Morselli – come per il proustiano Debenedetti, che forse, chissà, se incontrato al momento giusto avrebbe potuto cambiare il destino della sua opera – nell’epoca moderna il romanzo rappresenta la letteratura tout court, il genere ibrido in cui tutti gli altri finiscono per confluire. E’ il luogo dove si esercita la mimesi più puntuale e al tempo stesso si ragiona in maniera quasi saggistica, dove l’invenzione epico-lirica si amalgama alla riflessione critica e a quella ricerca di un «superiore buon senso» che le prime prove filosofiche morselliane tentavano di circoscrivere in forme ancora un po’ generiche. Per realizzare questa sintesi, dopo un lungo periodo di rodaggio, lo scrittore di Varese mette a punto uno stile narrativo eccezionalmente fluido e sciolto (a volte fin troppo: secondo il perfido Raboni, Morselli sembra scrivere «con una penna stilografica caricata ad acqua»). Si tratta di uno stile in cui tutto, dal taglio prospettico ai contrappunti ritmici, è funzionale alla massima perspicuità della cronaca e alla massima trasparenza dell’analisi. Le frasi, di solito, sono scandite dai punti e virgola; a volte si aprono in lunghi incisi senza parentesi, lasciati agilmente liberi tra le virgole, e a volte invece si contraggono in rapide stenografie nominali, secondo un’alternanza studiata che dà a molte pagine morselliane una scorrevolezza quasi sonnambulica.
Ma questo stile, come dicevamo, si consolida a poco a poco, esperimento dopo esperimento. In Un dramma borghese, il primo romanzo importante scritto nel ’61-’62, è ancora per così dire frenato da un’analisi che indugia troppo laboriosamente sugli stati fisiologici dei personaggi, attorno ai quali va accumulandosi un tessuto di osservazioni così folto da risultare afoso. L’io narrante è qui un giornalista di mezza età, chiuso in un albergo svizzero con una figlia adolescente che gli è quasi sconosciuta, essendo cresciuta in collegio. Entrambi sono malati: lui è bloccato dai dolori reumatici, lei è febbricitante dopo un’operazione di appendicite; e ogni giorno viene a visitarli uno dei tanti medici di cui è costellata l’opera di Morselli. Intorno ogni cosa – fohn, nebbia, lenzuola, secrezioni – evoca un’atmosfera vischiosa, nauseante e dolciastra, da «fumante palude». Molte delle osservazioni sono di questo tipo: «Distinguo l’aroma dell’ascella, il quale nella donna netta è tenue e melato e per solito mi riesce bene accetto, mentre questa volta mi sembra acre, pungente; forse perché esaltato dalla febbre». Così il padre percepisce la presenza della figlia Mimmina; e bastano queste poche righe per capire che tra i rumori ovattati dell’albergo si gioca una partita vagamente incestuosa. La ragazza, benché rimbrottata, continua a infilarsi nel letto del genitore, che a un certo punto la sorprende addirittura mentre si masturba. Femmina tutta «carne», completamente immersa «nella corporeità» e priva di ogni riflesso spirituale, l’animalesca e torpida Mimmina sembra guidata da un’unica, ottusa, ferrea volontà: quella di stritolare nelle sue ambigue cure il padre. Nell’ansia di possederlo completamente, arriva perfino a distruggerne gli strumenti di lavoro: come il magnetofono, che per il suo istinto animista rappresenta una forza capace di staccarlo da lei.
Ironizzando su Freud, costante idolo polemico di Morselli – che altrove concepisce addirittura una «Psicologia del Conscio» – il giornalista nota che questo Edipo si dichiara alla luce del sole. L’attaccamento è ostentato, anzi considerato dalla ragazza come una specie di «obbligo morale». E la pervicacia di lei affonda senza trovare ostacoli nella speculare accidia dell’io narrante, che scivola a poco a poco nei suoi abbracci pigramente equivoci, e che, abituato com’è a una continua autoanalisi montaignana, a ogni aumento della promiscuità escogita nuove e più sottili autogiustificazioni per non reagire. Riflettendo sulla debolezza della propria volontà, il padre osserva che la fisiologia domina in lui «senza contrasti» la vita spirituale: «è la mucosa del mio naso che sceglie e ama, è il mio tubo digerente che mi fa misurare gli uomini, le situazioni. Niente anima, ma nemmeno il sesso. Uno psicologo ammattirebbe, un freudiano peggio che uno spiritualista, finirebbe col mandarmi al diavolo». Sono tratti che Morselli attribuirà altrove ad altri personaggi e anche a se stesso, ma che in questo suo alter ego “vegetativo” sembrano spinti all’estremo. Il giornalista arriva a dire che è stato l’effetto di un «catartico a base di volgari solfato e fosfato di soda e acido citrico» a metterlo nello stato d’animo che gli ha suggerito di prendere con sé una figlia di cui prima non si era mai occupato. Così anche ora, davanti alla possibilità dell’incesto, anziché respirare «una atmosfera eschilea», si ritrova metereopaticamente «più sensibile all’umidità».
Ma la precaria stasi di questo rapporto a due è rotta dall’arrivo in albergo di Teresa, una compagna di collegio di Mimmina che è anche il suo esatto opposto: matura, acuta, seccamente ironica, in grado di sostenere rapide e brillanti schermaglie dialettiche col protagonista. Contro la sua capacità di sedurre attraverso l’intelligenza, Mimmina capisce di non potere nulla. Chiusa in un sordo rancore, vede nascere la breve relazione tra Teresa e il padre, che nel frattempo ha deciso di tornare ad allontanarsi dalla sua ingombrante figlia. Poi il dramma precipita: in un momento di solitudine, con un altro degli oggetti da cui il narratore non si separa mai, la rivoltella – che accompagnerà anche il protagonista di Dissipatio H.G., di nuovo un giornalista – Mimmina tenta il suicidio. Non sapremo se sia morta o solo ferita: il finale è sospeso e tutto incentrato sul padre, che brancola nella notte tra sentieri e giardini, come in un incubo o in un’allegorica selva oscura, raggiungendo solo dopo un lungo errare l’ospedale dove è stata portata la ragazza.
Un finale aperto ha anche il secondo romanzo importante di Morselli, Il comunista; e anche qui, poco prima delle ultime pagine, incontriamo un personaggio che s’affanna a cercare, nel buio e nella tormenta, la clinica in cui si trova una donna a lui legata, in questo caso la moglie, che pure ha tentato di suicidarsi. Ma nel Comunista non abbiamo più a che fare con un ambiente chiuso e asfittico. Stavolta è messa in pratica immediatamente, e nel modo più rigoroso, la teoria secondo cui il romanzo deve riservare una uguale attenzione ai moti interiori dei personaggi e al contesto sociale delle vicende raccontate. L’incipit è dedicato a una scena di vita parlamentare che riecheggia degnamente quelle della nostra narrativa belle époque; e subito dopo troviamo un ritratto del protagonista Walter Ferranini. Siamo a fine anni Cinquanta. Ferranini è un oscuro deputato del Pci di origine reggiana (Morselli è abilissimo nell’insaporire il suo svelto italiano con qualche ben dosata espressione regionale) che ha alle spalle una gioventù di fatiche sfiancanti. E’ stato in Spagna durante la guerra civile, poi è emigrato negli Stati Uniti, dove ha sposato la figlia di un industriale. Erano gli anni della Resistenza, che ha mancato con rimorso.
Quando la moglie lo ha lasciato è tornato nella sua Reggio, dove ha fatto carriera come laborioso costruttore di cooperative. Ferranini è un tipico autodidatta emiliano: testardo, serioso, brusco anche nella tenerezza, capace di grande disciplina, ma anche disposto a difendere caparbiamente le idee su cui ha rimuginato a lungo, e che ha assimilato attraverso una dura esperienza personale. Non ha quasi rapporti col comunismo intellettuale. Leninianamente, diffida delle arti. Non sa nemmeno chi sia Carlo Levi, e in genere lo irritano le rappresentazioni borghesemente pittoresche delle classi popolari. Passa il suo tempo libero a studiare i classici del marxismo e della biologia. Venera ingenuamente il suo leader Maccagni (alias Togliatti), ma per quel che riguarda se stesso e tutti gli altri comunisti, il suo Super-Io politico fiuta ovunque peccati di personalismo. Così tenta di continuo di scacciare le sue malinconie private, che forse proprio per questo prendono il sopravvento. Quando non studia vede un’amante, Nuccia, che però tratta ruvidamente: il massimo della dolcezza lo dimostra quando, per esprimere il suo desiderio di lei, le confessa che avrebbe voglia di «farle quella funzione». Ferranini tiene nascosta questa liaison come una colpa; e non a torto, dato che presto gli procurerà problemi col partito. Ma la sua posizione diverrà davvero grave solo quando alle faccende private si aggiungerà un sospetto d’eresia. Tutto precipita dopo un incontro casuale con Moravia, che propone al deputato di stendere un articolo per «Nuovi Argomenti». Una notte, quasi in trance, Ferranini butta giù alcune tesi ideologiche maturate da tempo, tra dubbi e sofferti esami di coscienza, e le spedisce allo scrittore. Poi, estraneo com’è al mondo culturale delle riviste engagées, non si cura affatto della pubblicazione. Ma se ne sono ben accorti i dirigenti del Pci, che lo convocano minacciosamente a Botteghe Oscure.
Il nucleo scottante dello scritto sta nel modo in cui questo peone del parlamento, che viene dal basso e che si occupa di infortunistica, filosofeggia sul lavoro. Ferranini, che è abituato a vedere perfino nell’atto del mangiare un combattimento con la morte, e che non venera il dio Darwin meno del dio Marx, considera il lavoro come una continua, umiliante lotta con la natura, che nessuna lotta di classe potrà abolire o nobilitare. Più avanti arriverà a dire che se il comunismo può cambiare i termini della sofferenza, «la somma resta sempre la stessa». Inoltre, come l’iperraffinato Adorno, questo ex proletario reggiano afferma di non amare il concetto di alienazione, troppo di moda tra i borghesi, e aggiunge che per esperienza preferisce parlare di «mortificazione» del lavoro (al confine opposto, il protagonista di Dissipatio proporrà di restringere il campo semantico di «alienazione» e di allargare quello di «prostituzione»). Più in generale, Ferranini ha da obiettare sulla prospettiva del giovane Marx, che gli sembra ancora troppo legata a Hegel e troppo antropocentrica, cioè incline a considerare tutto ciò che non è umano come una mera appendice dell’uomo, come una materia da lui facilmente controllabile. Le idee espresse dal deputato sono senza dubbio attribuibili allo stesso Morselli. In particolare, la polemica antiantropocentrica torna ovunque, nei romanzi, nei diarii e nei saggi, dove lo scrittore si scaglia soprattutto contro il soggettivismo romantico che ha le sue radici in Fichte, e che sul piano sociale si traduce in nazionalismo. Ma nel Comunista, in più, c’è il motivo della ineliminabile penosità del lavoro umano, che deriva probabilmente dalla Arendt di Vita activa, da cui in quegli anni Morselli fu fortemente suggestionato.
Se nel libro del ’65 le riflessioni saggistiche sono ancora “contenute” nel protagonista, cioè presentate come pensieri legati a un determinato personaggio e alle sue vicende, di qui in poi lo scrittore romperà questo involucro, e trasformerà direttamente l’assunto teorico in ipotesi narrativa. Nasceranno così i suoi più tipici e felici romanzi-apologhi, dove le tesi si oggettivano in un universo di fantasia, e dove finalmente può sbizzarrirsi il gusto morselliano di verificare e mettere in cortocircuito le oltranze della filosofia coi dettagli più concreti, realistici o verosimili, della vita sociale e quotidiana, della storia politica e del progresso tecnologico (anche nei diarii, Morselli tenta spesso di trarre conclusioni metafisiche da singoli avvenimenti più o meno clamorosi: ad esempio dalle prime foto satellitari). Ma questi apologhi non virano mai – come si potrebbe pensare – verso la fantascienza: semmai verso un particolare tipo di fantastoria che li apparenta alla Storia di domani di Malaparte e all’Aprire il fuoco di Bianciardi. Si tratta, lo ha notato Giuseppe Pontiggia, di libri che spaziano «tra il futuro dell’utopia e il dagherrotipo della storia»: tra ucronie, ossia riscritture del passato prossimo, e proiezioni satiriche o apocalittiche sul prossimo avvenire. Anche stilisticamente, qualcosa cambia: la scrittura, già prima così limpida, ora dimagrisce ulteriormente per coincidere senza residui con le cose, coi fatti narrati; la maggior parte delle notazioni ha la rapidità di un appunto e la perentorietà di un assioma; e le scene scorrono via prima che il lettore riesca a misurare con esattezza la portata dell’ironia che quasi sempre sottendono.
Il testo più celebre di questa serie è senz’altro Roma senza papa, scritto tra il ’66 e il ’67 e ambientato in un’ipotetica Urbe di fine ventesimo secolo abbandonata dal pontefice, il monaco irlandese Giovanni XIV, uomo attraente e wojtylianamente sportivo (sembra addirittura che abbia sedotto Jacqueline Kennedy) ma a differenza di Giovanni Paolo II ben deciso a non tenere discorsi e a non viaggiare. Coerente con la sua natura, questo papa dalla normalità tutta terrena, e dall’eloquio quasi lapalissiano, ha deciso di trasferirsi dal Vaticano a Zagarolo: cioè a due passi da Roma, in una sede prosaica, priva di significato simbolico, tra poche palazzine semplici, asettiche, funzionali, lontane sia dal fasto che da qualsivoglia ostentazione di ascetismo o pauperismo. Intanto a San Pietro, ridotta a un «mausoleo» pronto per essere ceduto all’ONU, la presenza papale è sostituita dalla proiezione di vecchi filmati su Paolo VI «in 3D Movielife», con aggiunta di «touch, o impenetrabilità o corposità». A descrivere questa sorprendente evoluzione della Chiesa, in uno stile a metà tra il diario e la cronaca, è un dotto prete svizzero, don Walter, sceso nell’Urbe in attesa di un’udienza con Giovanni XIV. Pur offesa dal trasloco del papa, Roma è rimasta la stessa di sempre: caciarona, scettica e cinica, abituata a contemplare senza stupori qualunque trapasso storico.
Nell’Italia in cui Claudio Villa è diventato «il più rappresentativo parlamentare», e in cui gli altiforni e le officine sono ormai un ricordo del passato, la capitale morselliana campa sui turisti attirati dalle «mignottelle». In questa arretratezza cronica, che resiste a ogni progresso materiale, l’unica vera modernità – o meglio postmodernità – sembra quella della Chiesa, governata ormai con procedure democratiche, ed egemonizzata da un grottesco ecumenismo. Don Walter, non più giovane e ancora legato al cattolicesimo novecentesco, registra con comica perplessità le opinioni e le abitudini dei colleghi che portano all’estremo il processo di laicizzazione, giocando a fare i «dialogologi» o gli «aperturisti», e cavalcando le più effimere mode culturali. Per parte sua, dopo la «Foederis Mirandi» del predecessore di Giovanni XIV, che ha concesso il matrimonio agli ecclesiastici, il narratore ha deciso di sposarsi, sebbene l’unione con la sua Lotte appaia piuttosto volontaristica e poco coinvolgente. Alcune modernizzazioni, insomma, è disposto ad accettarle. Ma altre gli sembrano davvero eccessive.
La Chiesa descritta da don Walter conta ormai vescovi che in nome della libertà dei costumi partecipano alla coppa Davis o passano il tempo a fotografare efebi seminudi. Alcuni prelati considerano l’ateismo un’ovvietà, e le verità di fede delle ipotesi accademiche dall’interesse quasi esotico. In certe zone d’Europa, il mito dei preti-operai si è tradotto in un’assurda realtà burocratica, e per ricevere l’ordinazione «occorre un diploma di montatore, aggiustatore o collaudatore (meccanico)». Qua e là, esistono conventi dove si fabbricano compresse di stupefacenti o si iniziano i novizi «con dosi progressive di LSD». Dopo che la dottrina ha dato il via libera ad anticoncettivi ed eutanasia, i gesuiti, con la loro tipica puntigliosità documentaria e argomentativa, hanno iniziato ad approvare le pratiche psichedeliche. Gli stessi gesuiti hanno ottenuto la gestione di vaste province del sud, e promettono di risolvere a breve la questione meridionale attraverso collettivizzazioni di stampo sovietico. Altri ecclesiastici stanno provando a «convertire alla fede cristiana le macchine pensanti della Rand e della Westinghouse»; e ormai le dispute teologiche avvengono spesso tra calcolatori elettronici. A differenza del pontefice, così giocondamente placido, la maggior parte dei prelati sembra tendere alla frenesia, al turismo delle idee e anche al turismo tout court (a cui Morselli riserva ironie continue, considerandolo segno di dispersione e superficialità, e associandolo un po’ nietzschianamente alle nature femminili: «la donna, un problema di cui un viaggetto è la soluzione»). Nelle gerarchie di questa Chiesa la «socialidarietà», dottrina che si basa sulla «comunanza forzata» degli interessi di tutti gli abitanti del pianeta, va sostituendo la carità cristiana, mentre la psicoanalisi rimpiazza l’esorcistica. Nella sua trasferta don Walter incontra un cappellano dell’IPPAC, Istituto per la Promozione della Psicoanalisi Cattolica, che nel suo sguaiato eloquio romanesco spiega come lui e i suoi sodali intendano «assicurare alla Chiesa l’ideologia del secolo». A suo avviso la risposta all’eterna interrogazione dell’unde malum è semplicissima, dato che il peccato viene dall’inconscio: «L’in-con-scio! In me, in voi, in Adamo, in Eva, nel Diavolo che vi porti!». Altro personaggio tipicamente laziale è padre Marcello, che negli anni Settanta ha portato l’Italia sulla soglia della sua unica vera rivoluzione. Accadde quando il governo tentò di deprofessionalizzare i giocatori di calcio e di tagliare del 60% i loro emolumenti. Allora questo parodico Cola di Rienzo guidò un’occupazione del Campidoglio e proclamò la «Repubblica autonoma della Lazio». Alla fine, dopo una lunga trattativa col Quirinale, che nella fantastoria di Morselli era allora abitato da Fanfani, riuscì a far annullare i provvedimenti, e perfino a ottenere l’amnistia per i rivoltosi. Come si vede – e calcio a parte – queste invenzioni esilaranti compongono una fantasia senza dubbio molto lontana dalla realtà come poi è stata, in particolare molto lontana dalla restaurazione antirelativista o anticonciliare degli ultimi papi. E in effetti la figura del pontefice irlandese, che silenziosamente, senza antagonismi, si spoglia delle pompe vaticane e rifiuta la più ovvia spettacolarizzazione delle proprie gesta, ha tratti non solo sottilmente umoristici, ma anche discretamente utopici. Ciononostante, là dove satireggia la pittoresca schiera dei “quadri” ecclesiastici, la narrazione del tutto fantastica di Morselli coglie una caratteristica del tutto reale – e fondamentale – del cattolicesimo romano: ossia la sua vocazione razionalistico-tecnocratica, la sua capacità di adattarsi camaleonticamente alla società di massa anche al di là di ogni ostentato tentativo di combatterne gli eccessi.
Se Roma senza papa guarda al futuro, Contro-passato prossimo, scritto due anni dopo, è una specie di «utopia retrospettiva». Morselli vi immagina che la prima guerra mondiale sia stata vinta dagli imperi centrali, e che la Germania ne abbia approfittato per favorire una illuminata, rapida «evoluzione unitaria» del continente. Nelle pagine di questo scarno romanzo-trattato sfila in pose memorabili, e più o meno improbabili, una vasta schiera di primi attori del Novecento europeo. C’è Giolitti, richiamato al governo a guerra ormai persa col compito di elaborare una exit strategy, e subito pronto a barcamenarsi da maestro tra le esigenze della realpolitik e i tributi da pagare alla retorica di una classe dirigente che vuole salvare la faccia almeno a parole. C’è, sullo sfondo, la Vienna di Freud e dei pittori simbolisti. C’è un dialogo surreale e divertentissimo tra Einstein e von Zeppelin; ma soprattutto ce n’è uno cruciale tra Lenin – che qui non parte per la Russia ma per l’America, dove la rivoluzione è più «vicina oggettivamente» – e Walter Rathenau, acuto rappresentante del «socialismo dell’evoluzione», vero protagonista di questa fantastoria, e perfino portavoce dell’autore, che ne fa un ritratto insieme distaccato e apologetico, da leggersi accanto a quello assai più ambiguo abbozzato da Musil nell’Uomo senza qualità. Ma nemmeno Rathenau avrebbe potuto dare alla Storia una svolta ragionevole, se i destini del conflitto non fossero stati precocemente decisi dall’intuizione di un oscuro ufficiale asburgico, che da buon viennese si diletta anche di pittura.
Nel 1910, durante un viaggio in Tirolo, il maggiore Walter von Allmen – i personaggi morselliani hanno quasi tutti lo stesso nome di battesimo – scopre che a ridosso di una vecchia miniera abbandonata era stata progettata qualche decennio prima una galleria di collegamento con la Valtellina italiana. Von Allmen, colpito dal valore militare che potrebbe avere la ripresa del progetto, riesce a individuare il punto in cui la galleria sarebbe dovuta sbucare, e parla della sua intuizione coi superiori. Presto gli austriaci scavano il tunnel, in segreto, lasciando intatta sul versante italiano soltanto un’esile porzione di roccia. La distrugge poi, durante il conflitto, un’audace spedizione notturna: la Edelweiss Expedition, guidata da un giovanissimo Rommel, che riesce così a conquistare in modo fulmineo e incruento tutto il nord Italia. Di qui in poi, per gli imperi centrali la guerra è un percorso in discesa, e le loro vittorie vengono gestite con crescente tatto politico. Si sottolinea la comunanza d’interessi tra i paesi europei dei due schieramenti (la «socialidarietà»…), si bonifica con rapidità il terreno di coltura degli estremismi, e grazie a Rathenau si comincia a dar vita a una federazione continentale, presieduta simbolicamente dal fisico Planck. Sul finale, a suggello di questa «utopia», ritroviamo Von Allmen che durante un viaggio in treno viene infastidito dai discorsi razzisti di un altro pittore dilettante, certo Hitler: discorsi senza dubbio sgradevoli ma ancora innocui, perché, vista la nuova situazione politica, quell’ometto fanatico ha deciso di dedicarsi tutto all’arte.
Svolgendo la sua fantasia, Morselli la aggancia ai fatti reali con una tale minuziosa consequenzialità da dare le vertigini al lettore. Il procedimento è spiegato esplicitamente, a metà del romanzo, in un Intermezzo critico in cui questo autore sfortunato e inedito immagina di dialogare con un editore riluttante. Contro-passato prossimo, stringente obiezione narrativa mossa a una cultura abituata a sacralizzare il fatto compiuto, vuole dimostrare che proprio il carattere irreversibile della Storia deve invece stimolare la sua critica. Questo libro, osserva Morselli, mette in scena personaggi che all’erma bifronte di caso e determinismo oppongono «la loro del resto non sorprendente intelligenza e fantasia, la loro tenacia, un carattere, il loro individuo in sostanza; l’individuo identificandosi appunto con quella apparizione rara che è il “fine”, uno scopo voluto e perseguito». Con questa «apparizione» l’autore intende suggerire (nientemeno!) che sarebbe bastato poco a cambiare la faccia dell’Europa: «Troppo spesso ciò che ci colpisce, del non-accaduto, è la sua ovvietà, l’urgenza con cui la data situazione lo reclamava. Il paradosso sta dalla parte dell’accaduto (…) La cucitura del ‘contro-passato’ sul passato, nel racconto, diventa visibile proprio nel punto dove il congruo e il sensato si sostituiscono all’incongruo e insensato».
Dall’analisi in corpore vili delle filosofie della storia, Morselli passa (dopo la deliziosa vacanza offenbachiana di Divertimento 1889, dove s’immagina un simpatico e mediocre re Umberto in fuga dal suo ruolo) alla verifica in corpore vili di una situazione tipicamente metafisica. Lo fa con la sua ultima opera compiuta, quella Dissipatio H.G. che gli sarà rispedita indietro dagli editori pochi giorni prima del suicidio. L’«H.G.» del titolo sta per «humani generis», e la situazione è appunto quella di una volatilizzazione o evaporazione dell’umanità, che sparisce lasciando un unico superstite. L’io assoluto, il soggetto dei filosofi, diventa qui un uomo concreto e davvero empiricamente solo; e in più si tratta di un tipo affetto da solipsismo, di un giornalista che, forse a causa del suo mestiere, ha maturato una vera e propria «fobantropia». La «dissipatio» sembra quindi una beffarda, terribile realizzazione dei suoi sogni. Ma c’è qualcosa di più. Tutto è avvenuto proprio la notte in cui il «fobantropo» ha deciso di andare a suicidarsi in una caverna sotterranea, per sparire senza lasciare tracce. Alla fine ha rinunciato: ma una volta riemerso ha scoperto che a sparire senza lasciare tracce era stato il resto della specie. Il narratore si sente quindi l’autore involontario di questa silenziosa catastrofe, che risparmiandolo non si sa se lo abbia salvato o condannato. E il “romanzo” è la cronaca della sua vita solitaria: di una storia privata che ormai, in assenza di testimoni, coincide con la Storia. Siamo di nuovo in Svizzera, a conferma del fatto che Morselli considera la vicina «repubblica platonico-alberghiera» come il luogo “neutro” più adatto a svolgere senza ostacoli i suoi esperimenti fantastici. Il protagonista assoluto di Dissipatio si muove tra uno scenario montuoso e una città chiamata Crisopoli, pseudonimo di Zurigo. Per molti giorni cerca disperatamente di trovare altri superstiti. Torna alla sede del giornale, dove contempla lo «sbracciarsi privo di senso delle sue linotypes». Ascolta invano i fruscii della radio, esplora gli alberghi vuoti. Vaga tra gli aeroporti deserti, e penetra nelle case dove i letti recano ancora le impronte dei corpi coricatisi nella notte fatale. Con angosciata ironia, si mette a costruire in una piazza un gigantesco monumento pop alla civiltà scomparsa, fatto di macchine, tv, cocacole, cartelloni pubblicitari. Poi, rassegnatosi al suo destino di ricco Robinson, inizia a lasciarsi andare, a utilizzare a caso i comfort e le scorte accumulate dai propri simili, ad ammuffire lentamente con loro e a vivere come un clochard. Intanto, intorno a lui si moltiplicano i rumori degli animali, ormai padroni della terra: con l’ennesima sottolineatura antiantropocentrica, Morselli tiene a dirci che la fine dell’uomo non è la fine del mondo.
Questa breve notazione faunistica viene sviluppata nei diarii, insieme all’ipotesi generale di Dissipatio, in un estroso raccontino. Lo scrittore ritiene probabile che l’evoluzione si trasformi a poco a poco in involuzione: «niente catastrofe finale per chiudere la carriera dell’homo sapiens, oeconomicus (o comunque si scelga, fra i tanti appellativi che si è inventato). La catastrofe cosmica o storica soddisfa la nostra vanità, ma armonizza molto meno con le abitudini della Natura. Niente. Un bel giorno, senza che nessuno se ne accorga, né abbia più voglia o attitudini per rifletterci e impressionarsene, ci rimetteremo a camminare a quattro zampe. Potrebbe essere il ritrovamento dell’età dell’oro. Poi scenderemo ancora, ci sorprenderemo (per modo di dire) a strisciare per terra: rettili. Il mare primordiale ci aspetta, o piuttosto, i laghi o le paludi o le lagune, che nel frattempo si saranno redenti dalle nostre perfide polluzioni. Da ultimo, i protozoi, e le “macromolecole”. Qualche cosa degli antichi istinti (umani) sornuoterà? E’ probabile o se non altro possibile, così come oggi c’è abbastanza dell’animalesco, residuo, in noi. Saremo tutti solo lucertole, ma qualcuna di quelle lucertole, presa da ataviche nostalgie estetiche, indugerà amorosamente al sole sui muri scrostati dove qualche milione d’anni prima c’era la Cappella Sistina. O per ancestrali influssi automobilistici, qualcuna s’ingegnerà di accostare a un travetto di legno quattro ciottolini tondi, nostalgica delle antiche “quattro ruote”. Un nuovo Archaeopterix “à rebours”, che abbia doni pappagallacei, chissà che non scandisca nella selva natale due fatidiche sillabe: He-gel».
Chissà, forse se avesse deciso di continuare a vivere, è possibile che dopo i romanzi-apologhi Morselli si sarebbe messo a progettare degli apologhi con protagonisti animali. Altrove, nei diarii, fa su questo genere un’osservazione acutissima. «A me pare cattivo segno» scrive «che la nostra letteratura (…) non dia più voce agli animali (…) Questo rifiuto di riconoscere, o almeno di prestare, una vita alle bestie, è effetto di uno squilibrio, tipico dei tempi troppo intensi e presuntuosi: troppo convinti che la natura sia “stupida” all’infuori dell’uomo, ed esista solo come un décor per la sua storia, o come una funzione della sua coscienza. Finché il pensiero è stato anche saggezza, l’apologo fioriva». Questa saggezza implica il riconoscimento del fatto «che oltre all’uomo ci sono delle realtà valide per sé stesse». E’ un fatto che il nostro soggettivismo, il nostro antropocentrismo ci inducono a dimenticare di continuo. Sintomo di questa dimenticanza, oltre all’abbandono dell’apologo con animali, è la sparizione progressiva dello humour, inscindibile dalla saggezza. L’uomo moderno è così fissato su sé stesso da perdere il senso della misura. Spinge ogni ipotesi all’estremo, nell’ottimismo ma anche nel pessimismo: non sa immaginare la propria scomparsa se non come una catastrofe universale. E quando concepisce pensieri negativi sulle sorti del mondo, li collega in levigatissimi sistemi che escludono capziosamente gli aspetti più imponderabili della vita empirica, le sfumature di una realtà sempre in parte oscura, «valida in sé» e indipendente dalle categorie teoriche. «Chi nell’uomo riconosce un valore subordinato, chi cioè ha il senso del relativo dell’umano,» scrive ancora Morselli, «non può concludere al pessimismo: che è, a suo modo, una conclusione assoluta. Arriverà se mai al pirronismo di un Montaigne o all’ironia di Swift».
Ma sia chiaro: questi approdi non implicano nessun atteggiamento autoconsolatorio. Né ha nulla di consolatorio il riconoscimento dell’ineliminabile coesistenza di bene e male: «I pessimisti assoluti non hanno capito, che proprio il mescolarsi del bene (un bene incontestabile, checché essi dicano) al male, è ciò che rende quest’ultimo così grave, oltre che più misterioso ancora», e in fondo più assurdo. Siamo di nuovo, sotto un’altra prospettiva, alla teorizzazione di quella realtà “mista” che per Morselli si rispecchia prima di tutto nel genere misto del romanzo: dove si dà conto insieme del caso, della fatalità e della volontà, del male (sofferenze, crimini) e delle rare isole di ragionevolezza. E proprio “ragionevolezza” potremmo chiamare l’ideale di Morselli: una ragionevolezza caparbia, nutrita da un umanismo mai trionfale, ben consapevole della piccola parte recitata dall’uomo nell’universo.
Questo ideale esce allo scoperto nei saggi e nei diarii, dove lo scrittore si confronta direttamente, senza lo schermo e il tratto a volte lieve delle invenzioni narrative, coi temi del male, della felicità e del suicidio. Negli anni Cinquanta, a quell’«unde malum» che in Roma senza papa alimenterà la satira delle mode culturali novecentesche, Morselli tenta di rispondere confrontandosi con la teologia. Nasce così il trattato Fede e critica. Qui lo scrittore associa subito al tema del male quello della sofferenza, che secondo lui non può esser colta se non nel vivo dell’esperienza singola: perché sublimarla con la metafisica equivale a vanificarla. Né valgono a giustificare il dolore una logica (fini superiori, ecc.) o una promessa di premi (immortalità) che trascendono chi soffre qui e ora. Se da questo problema si risale a Dio, osserva Morselli, si è tentati di pensarlo o spietato o impotente. Certo, se ce lo si figura come un padre umano e dunque comprensibile, davanti agli orrori non si può poi invocare la sua imperscrutabilità. Le teodicee, i tentativi di giustificare l’opera di Dio, vedono nel dolore cosmico la punizione del peccato. Ma perché l’uomo può scegliere il male? Forse perché è creato libero, e non sarebbe libero se non ne avesse la possibilità? Ma Morselli ribatte che si può ben immaginare un mondo libero senza il male. Del resto, come insegna già Giobbe, l’uomo concreto è dominato da istinti che non ha scelto. Come punirlo quindi dei suoi atti? E se si pone il peccato alle origini, nell’Eden, dove è immaginabile un uomo sciolto da vincoli, come spiegarne le ricadute su tutti e su tutto? Infine, e in ogni caso, come giustificare la sofferenza non umana, la sofferenza degli animali non toccati dal peccato originale?
La verità è che per Morselli, come per Leopardi, il dolore e l’infelicità non sono effetto o castigo delle nostre azioni inique, ma al contrario, queste presunte azioni inique sono il frutto del dolore e dell’infelicità che ci tormentano. Di qui deriva l’altro Leitmotiv dello scrittore, quello della felicità considerata non come un lusso ma come un bisogno vitale: «Chi ripudia la sofferenza non vuole già con questo il “piacere” (il lusso del piacere), ma soltanto la vita quale ha da essere». Ciò non vuol dire che questa «vita» sia frequente: come diceva Leopardi, noi spesso duriamo più che vivere. Sta di fatto però che si tratta di una condizione necessaria per condurre un’esistenza piena, non mutilata. A coronamento di questa tesi, Morselli aggiunge poi che non esiste nessun nostro desiderio che sia superfluo, che non sia radicato in una necessità: «desideriamo unicamente ciò che attiene alle nostre esperienze e quindi rientra nei nostri limiti». Tutti i desideri esprimono dunque il bisogno di vivere pienamente, di essere ciò che si è fino in fondo – e nient’altro. Infatti, per quanto possa sembrare sorprendente, secondo Morselli noi non siamo nemmeno «in grado di desiderare l’immortalità, di cui la natura non ci offre l’esempio. Vorremmo non morire? Ma perché nessuno di noi ritiene di aver vissuto abbastanza. Se giungessimo all’età del padre Abramo e come lui fossimo “vecchi e sazi di vivere” (Gn, 25), ci disporremmo lieti come lui alla morte. Paventiamo questa, perché lungi dal levarci da mensa “ut conviva satur”, ci tocca morire mentre sentiamo di non avere fatto, veduto, goduto, quello di cui ci stimiamo capaci». Ma se non si può parlare di un reale desiderio di immortalità, dove collocare invece il desiderio di morire e l’atto del suicidio? Nella prospettiva di Morselli, il suicidio in pratica non esiste. Quando ci si dà la morte lo si fa solo perché il dolore e l’infelicità sono così grandi che l’esistenza ne è di fatto impedita: «Nessuno contraddice al supremo istinto della conservazione, se non vi sia indotto, in ultima analisi, dallo stesso istinto, il quale si ribella a una condizione di vita che lo nega, ossia a una sofferenza non sopportabile. E’ suicida, ripetiamolo, chi rifiuta di vivere, e vi è rifiuto quando si respinge un dono che possiamo accettare o conservare, non già se abbandoniamo un bene la cui fruizione ci venga, comechessia, inibita».
Questi temi, come si è visto, riaffiorano lungo tutta l’opera morselliana, trattati ora in chiave umoristica o satirica, ora in chiave drammatica, ora invece coi toni accorati e ultimativi di chi intende accerchiare un problema fino a ridurlo al suo nudo nucleo esistenziale. Quando scrive, qualunque sia il genere tentato, Morselli non dimentica mai le domande che animano da sempre la riflessione dell’uomo su sé stesso. Come Nicola Chiaromonte, è un «filosofo al modo antico»: insegue «un pensiero plausibile che non sia luogo comune, un pensiero ardito che non sia paradosso. La saggezza infine». E attraverso la pacata sfrontatezza del suo linguaggio «lineare, piano, tollerante», mette «con le spalle al muro» sia i teologi, sia soprattutto quei teologi moderni che sono i filosofi accademici. Morselli, infatti, rifiuta di abbandonare al loro falso specialismo le fondamentali questioni teoriche ed etiche da cui ognuno è «investito nel profondo». «Oggi si è filosofi con lo stesso animo astioso ed esclusivista con cui si può essere entomologhi o otorinolaringoiatri» ironizza nei diarii. E poco oltre: «Abbiamo disimparato da un pezzo a concepire poeti professionisti, come i poeti aulici o di corte di un tempo (…) Non abbiamo ancora disimparato a pensare i filosofi come professionisti della filosofia». E si tratta evidentemente di un professionismo usurpato, dato che davanti ai massimi problemi della vita e della morte si è tutti dei dilettanti.
Ma la vis polemica di Morselli era proporzionale al suo desiderio di dialogo. E il dialogo che inseguiva, da buon allievo di Banfi, era a tutto campo, insofferente dei labili confini disciplinari tra le scienze umane. Cercava interlocutori con costante, volonterosa e voluta ingenuità. Scrisse lettere a Calogero (pubblicò poi alcuni saggi nella sua rivista «La Cultura»), sottopose commedie ad Albertazzi, Gassman e Visconti, sollecitò la collaborazione al «Mondo» (che fu breve). Tra le sue carte c’è perfino una buffa lettera spedita a Konrad Lorenz, in cui chiedeva lumi sul comportamento dei ghiri che gli infestavano la casa. Nella sua solitudine, Morselli era attento a tutto ciò che accadeva intorno a lui; e sembra davvero che non considerasse alieno dalle sue ricerche niente di ciò che è umano. Capitalizzava ogni spunto interessante, da qualunque parte provenisse, attraverso un lavoro creativo paziente, lucido, privo di illusioni; lavoro che durò fino a quando, evidentemente, l’infelicità fu così forte da “inibire” la vita. D’altronde, pur considerando la gioia un sentimento di prima necessità, Morselli l’aveva esclusa dal suo più emblematico aforisma sull’esistenza, che la identifica solo col dolore. «A coloro che vanno cercando una definizione della vita (biologi, per es.),» scriveva nei suoi diarii questo leopardiano sui generis, «vorrei proporre la seguente: “la materia quando incomincia a soffrire”».