Libri

Su “Le serie TV” di Gianluigi Rossini

Che bel libro. Le serie televisive sono un po’ come la vita, o come internet: tutti quanti hanno un’opinione in merito perché tutti quanti le guardano. Così, se avessero chiesto a me di scrivere un libro sulle serie televisive non mi sarei trovato senza parole: avrei parlato a lungo delle mie preferite, avrei fatto dei confronti, un po’ di storia, un po’ di osservazioni sui generi, il compianto sulla cattiva qualità delle serie italiane. È il punto di vista dell’amatore. Gianluigi Rossini (Le serie TV, Il Mulino) ha invece il punto di vista dello studioso, e fa due cose che io non avrei saputo fare: spiega come siamo arrivati alle serie TV di qualità che da circa vent’anni hanno cambiato il modo in cui si fa e si vede la TV; e spiega come funzionano queste serie TV, apre il loro meccanismo.

Quanto al primo punto, lunga è la storia che porta alle produzioni di HBO e di Netflix, e Rossini parte da lontano, dagli anni Venti e Trenta, quando il Radio Act (1927) e il Communication Act (1934) cominciano a normare il broadcasting americano, e si profila quel sistema locale/nazionale (una miriade di canali dispersi nei vari stati e quattro-cinque network che trasmettono in tutta la federazione) che con non molti aggiustamenti resterà in piedi sino ad anni recenti, sino al boom della TV via cavo e ora a quello dei canali online. Si collaudano in quest’epoca, e dominano poi la successiva Golden Age della televisione, dalla metà degli anni Quaranta alla fine degli anni Cinquanta, i lontani antenati delle serie odierne: i teledrammi trasmessi in diretta, come a teatro; i telefilm brevi o brevissimi (30’ o 15’) ricalcati sui drammi radiofonici o ispirati ai film (I Love Lucy, Dragnet).

Nel corso degli anni Sessanta gli investimenti si moltiplicano, il lavoro creativo s’intensifica, e i telefilm s’insediano nel prime time televisivo americano. La quantità cresce (questo è un libro che si legge in fretta, ma che, se si cede alla tentazione di integrarlo con filmati trovati in YouTube, può richiedere invece settimane: si perdono ore deliziose saltando da uno spezzone all’altro di cose mai viste come Mission Impossible, Mayberry RFD, Gomer Pyle, USMC, The Man from UNCLE ecc.), ma la qualità non migliora molto. «La seconda metà degli anni Sessanta», spiega Rossini, «fu il momento d’oro delle rural comedies, di cui la CBS era regina», un genere «basato principalmente sul conflitto tra la società contemporanea e rozzi, ingenui e nobili campagnoli». Il pubblico apprezza, ma non il pubblico davvero appetibile per i pubblicitari che piazzano le inserzioni. Così un’esigenza di ordine economico (conquistare gli spettatori più giovani e acculturati) favorisce, all’inizio degli anni Settanta, una piccola rivoluzione estetica. Le rural comedies vengono abbandonate («la CBS, secondo l’attore Pat Buttram, decise di cancellare ogni programma in cui figurasse un albero»), e s’iniziano a produrre telefilm più raffinati e più aderenti alla realtà: nel 1970 comincia The Mary Tyler Moore Show, nel 1971 comincia All in the Family, nel 1972 comincia M*A*S*H.

È la prima rivoluzione, nella serialità televisiva. La seconda arriva circa un decennio più tardi, grazie a prodotti di tipo diverso, come Hill Street Blues (che Joyce Carol Oates definì «intellettualmente ed emotivamente provocatorio come un buon libro»: un giudizio che nessun telefilm, sino ad allora, avrebbe potuto seriamente meritarsi) e come Dallas (che applicando alla TV la tecnica del feuilleton produsse anch’essa un buon numero di cloni). Ed è la rivoluzione che tocca da vicino anche noi italiani, perché il repertorio americano diventò una risorsa infinita per le TV private italiane che, non potendo quasi produrre in proprio né andare in diretta, dovevano riempire i palinsesti con qualcosa: il 7 aprile 1984, giorno del mio tredicesimo compleanno, mentre sulla Rai danno Spaziolibero, i programmi dell’accesso, su Canale 5 ci sono T.J. Hooker e I Jefferson, e su Italia 1 Il mio amico Arnold, Supercar e l’A-Team: con quei fili abbiamo tessuto le nostre vite adolescenti. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta arrivano Seinfeld (comico) e Twin Peaks (giallo-horror), e comincia un’altra età dell’oro, tuttora in corso, l’età in cui HBO comincia a produrre non serie TV che possono piacere a tutti ma serie TV che possono piacere solo ai suoi abbonati, il che permette di ignorare le richieste degli inserzionisti e di dare agli sceneggiatori (David Chase dei Soprano, per esempio) la libertà di costruire macchine complesse, che allo spettatore chiedono fedeltà e partecipazione (le trame antiteleologiche di Six Feet Under, gli enigmi di Lost, le lentezze e le divagazioni di Mad Men).

Quanto al secondo punto, il funzionamento del meccanismo, anche qui Rossini fa tutte le cose giuste: non si perde in dettagli o in classificazioni troppo strette; usa ma non abusa della nomenclatura prodotta dai media studies; prende un paio di casi esemplari (esemplari di due diverse tipologie di serie: NYPD per quelle di qualità medio-alta, I Soprano per quelle di qualità altissima) e li smonta e li analizza; specula con discrezione sulla contiguità tra romanzo e serie televisiva di qualità; fa un uso sobrio e intelligente delle categorie inventate dai semiologi, categorie che – non pensavo che l’avrei mai detto – aiutano davvero a capire gli oggetti su cui gettano le loro griglie di parole.

In tanta America, infine, non manca un capitolo dedicato alla serialità televisiva italiana. Qui ci si ricorda, o s’impara, che per lungo tempo gli sceneggiati della Rai furono trasposizioni in video di drammi teatrali o romanzi, riflesso dello stesso zelo didattico che, a un livello più basso, aveva fatto nascere la trasmissione Non è mai troppo tardi (1960-68). Questo zelo si attenua nel corso degli anni Settanta, lasciando spazio ai poliziotteschi e ai mistery, ma la qualità latita. «Sarebbe difficile negare», scrive Rossini, «che la nostra televisione sia stata a lungo caratterizzata dalla mancanza di tentativi di sviluppare forme di racconto che riuscissero ad affrontare la realtà di un paese che pure attraversava enormi cambiamenti ed esprimeva sicuramente il bisogno di un racconto genuinamente popolare che ne parlasse». Ci riesce il cinema, non ci riesce la TV: anche, non solo, a causa del monopolio Rai, tant’è vero che le cose non migliorano, quanto alla qualità (mentre la quantità cresce a ritmo forsennato), quando il monopolio diventa duopolio Rai-Mediaset. Ci voleva la TV a pagamento, un po’ com’era accaduto anni fa negli Stati Uniti con HBO: non la Rai e non Mediaset, bensì Fox (Boris) e Sky (Romanzo criminale, Gomorra, 1992) sono all’origine di questa nostrana mini-età dell’oro televisiva, nata soprattutto come by-product di mafie e camorre ma ora prossima, sperabilmente, a un coraggioso ampliamento del repertorio tematico. Il boom di ascolti di Rimbocchiamoci le maniche (Canale 5) – con Sabrina Ferilli, ex operaia diventata sindaca di buona volontà – potrebbe indicare una strada.

Gianluigi Rossini, Le serie TV, Bologna, Il Mulino 2016.

Condividi