Per quelli come me, nati nei primi anni Settanta, Labranca è stato, all’inizio, l’autore di due libri geniali usciti nei Novanta, Estasi del pecoreccio (1995) e Chaltron Hescon (1997). Erano geniali perché Labranca faceva il contrario di ciò che ci avevano insegnato a fare a scuola e all’università: da un lato prendeva molto sul serio le cose pop (TV, cinema di serie B, canzonette, fumetti), e ne parlava con amore, ironia e intelligenza, e in più con uno stile magnifico, lontano anni-luce dai birignao demenziali dei semiologi; dall’altro trattava la cultura ‘seria’ con un’indipendenza di giudizio che per noi vittime del liceo classico e della facoltà di Lettere aveva una autentica forza liberatoria. Labranca prendeva in giro tutti, gli elzeviristi pensosi, i romanzieri impegnati, i peracottari dell’arte contemporanea, ma soprattutto ce l’aveva con la Cultura, cioè con la retorica idiota che avvolgeva e avvolge, specie in Italia, le arti e il discorso sulle arti. Labranca indovinava il grottesco là dove gli altri credevano di vedere il sublime, rideva là dove gli altri indossavano la loro maschera compunta («La commozione, ecco l’ossessione dei cialtroni … Se si inizia a ridere è finita per tutti, il gioco si scopre e le case produttrici di detersivo per stoviglie ritirano i loro spot»). Il sottotitolo del saggio Chaltron Hescon, Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo, è un buon compendio della sua intera opera, e anche una sintesi preveggente dei vent’anni che sarebbero seguiti.
Vent’anni nei quali la voce di Labranca si è sentita poco, molto meno di quanto sarebbe stato giusto (per lui) e salutare (per noi). I suoi libri successivi sono stati pubblicati da piccoli editori; gli ultimi se li è pubblicati da solo. Sono quasi tutti libri bellissimi: sia quelli in cui continua a riflettere sulla venefica atmosfera culturale che si respira in Italia (Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia, del 2002; Vraghinaroda, appena uscito); sia quelli in cui parla della sua vita, con un’intensità, un acume e una qualità di scrittura che hanno pochissimi eguali nel panorama della prosa contemporanea (78.08, lo splendido, accorante memoir Il piccolo isolazionista); sia quelli in cui usa la sua intelligenza per raccontare le vite degli altri, come il ‘romanzo d’appendice’ (perché scritto a puntate per la rivista Film TV) Haiducii, che è un libro pieno di sana commozione e di allegria, e che mi ha fatto capire come vivono e cosa pensano gli immigrati rumeni meglio di qualsiasi documentario o saggio, e – come per un riflesso della stupenda umanità di Labranca, dispiegata nel racconto – me li ha resi amici. Oltre a questi libri, per campare, in questi vent’anni Labranca ha dovuto scriverne parecchi altri ‘servili’ dedicati alle star del cinema, della TV e della canzone (Michael Jackson, Taricone, Zero, i Coldplay), e ha fatto l’autore radiofonico e televisivo.
Non l’ho mai incontrato, ma dai suoi libri (l’ultimo, Vraghinaroda, sfotte sanguinosamente la Milano degli artisti e dei galleristi), dalle interviste e da quello che si sente in giro si capisce che doveva avere un carattere molto difficile, refrattario ai compromessi, censorio. In particolare, non credo fosse capace di dissimulare il suo disprezzo per il mondo para-culturale della TV e dei giornali da cui dipendeva buona parte dei suoi introiti: sugli abitanti di quel mondo, del resto, ha scritto alcune delle sue pagine più amare e divertenti, pagine su cui non potrà non riflettere chi voglia un giorno farsi un’idea veritiera del misero glamorama italiano a cavallo tra i due millenni.
Questo cattivo carattere («una persona gentile, sensibile, ingenua e totalmente inabile al cinismo», così lo ricordava ieri lo storico del cinema Giacomo Manzoli in un post su Facebook: e tale può essere purtroppo – nel mondo come è, nell’Italia come è – la definizione di un cattivo carattere), questa vocazione all’isolamento, non giustifica in alcun modo, dato il suo talento eccezionale, l’ostracismo che la cultura (cioè la Cultura) italiana gli ha inflitto. Ma non si sottovaluta mai abbastanza l’establishment culturale di questo Paese. Che un uomo simile fosse quasi costretto al silenzio, e all’autopubblicazione, mentre le pagine dei quotidiani e gli scaffali delle librerie tracimano delle opinioni dei cretini, è una cosa che lascia senza parole. Vedo che nei ricordi in rete lo si incasella nella categoria del ‘trash’ o dei ‘cannibali’, ma sono etichette del tutto inadeguate: chi leggerà o rileggerà i suoi libri vedrà che Labranca è stato un grande scrittore, irriducibile alle categorie e alle etichette, e soprattutto uno degli italiani più intelligenti della nostra epoca.