I «selvaggi» non li scoprì Cristoforo Colombo sbarcando in America nel 1492. La storia medievale è costellata da incontri tra viaggiatori europei (viaggiatori che partono per commerciare, per fare la guerra, per visitare i luoghi sacri del cristianesimo) e ‘nuove’ popolazioni africane o asiatiche (nuove, si capisce, agli occhi degli europei: agli occhi degli africani e degli asiatici i ‘nuovi’ e gli ‘strani’ eravamo noi). I pellegrini e i mercanti viaggiano da soli o in piccoli gruppi, e generalmente non rappresentano un pericolo per le popolazioni con cui entrano in contatto: al contrario, sono loro – deboli, isolati, lontani da casa, ignari della lingua e dei costumi dei paesi che attraversano – che corrono il pericolo di essere derubati, imprigionati, uccisi.
Ma a un certo punto della storia europea ai pellegrini e ai mercanti si sostituiscono gli eserciti, e i viaggi al di fuori dell’Europa non vengono più fatti per visitare i luoghi santi o per commerciare ma per conquistare. Per secoli, eserciti cristiani attraversano il Mediterraneo per ‘liberare’ dai musulmani i luoghi considerati santi dalla religione cristiana, i luoghi in cui ha vissuto ed è morto Gesù: le Crociate sono la prima delle molte guerre che gli europei intraprenderanno contro popoli di altri continenti. Alla fine del Quattrocento, con la scoperta delle Americhe, quella guerra diventerà davvero mondiale: e porterà allo sterminio o alla riduzione in schiavitù di milioni di esseri umani da parte dei conquistadores. Ma i viaggi di esplorazione e conquista erano cominciati prima, anche se in maniera un po’ meno cruenta, e Giovanni Boccaccio fa un resoconto di uno di questi viaggi in un breve opuscolo intitolato De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam noviter repertis (‘Sulla Canaria e sulle altre isole da poco scoperte al di là della Spagna’).
Nei primi decenni del Trecento, il marinaio genovese Lanzarotto Marocello sbarcò, primo europeo di cui resti testimonianza, sulle isole che poi verranno chiamate Canarie, al largo delle coste meridionali dell’attuale Marocco (il nome della principale tra le isole dell’arcipelago, Lanzarote, ripete appunto quello dello scopritore). Alla sua spedizione ne seguirono altre, e tra queste, nel 1341, una guidata dal ligure Niccolò da Recco e dal toscano Angiolino dei Corbìzi, e finanziata dal re del Portogallo. Dopo cinque giorni di viaggio, le tre navi del convoglio toccarono terra, prima a Madera poi a Tenerife. Tornato in Spagna, Niccolò da Recco raccontò il suo viaggio ad alcuni mercanti fiorentini che si trovavano a Siviglia per conto della banca della famiglia Bardi, e questi mercanti a loro volta riferirono il racconto di Niccolò in una lettera mandata alla casa-madre a Firenze. Boccaccio ri-racconta tutta la storia:
Nell’anno […] 1341 è stata recapitata a Firenze una lettera di certi mercanti fiorentini residenti a Siviglia, città della Spagna Ulteriore, spedita di là il 15 novembre dell’anno predetto. Vi si contiene ciò che esporremo qui di seguito.
Dicono dunque che il primo luglio dell’anno predetto due navi, con una nave minore allestita dal re di Portogallo (il quale aveva anche fornito le provviste necessarie alla traversata), sciolte le vele presero il largo da Lisbona, tutte con equipaggio di Fiorentini, Genovesi, soldati regolari spagnoli e altri Spagnoli, e imbarcando anche cavalli, armi e varie macchine belliche atte a espugnare città e castelli. Erano dirette a quelle isole che comunemente diciamo Fortunate, dove, favorite dal vento, giunsero tutte in capo a cinque giorni. A novembre, infine, tornarono alle loro basi, recando questo insieme di cose: in primo luogo quattro uomini, indigeni di quelle isole, e poi velli di becchi e di capre in quantità, sego, olio di pesce, pelli di foca, legnami rossi che tingono proprio come il verzino (sebbene gli esperti in materia dicano che non si tratta del verzino), inoltre cortecce d’alberi che ugualmente tingono in rosso, e così una terra rossa, e simili.
Peraltro Niccolò da Recco genovese, uno dei due capitani di quelle navi, interrogato diceva che da Siviglia a quelle isole corrono novecento miglia circa, ma che rispetto al punto oggi chiamato Capo di San Vincenzo la loro distanza dal continente è di gran lunga minore; e che la prima delle isole scoperte ha un perimetro di circa centocinquanta miglia ed è tutta rocciosa e silvestre, tuttavia abbonda di capre e d’altri animali, nonché d’uomini e donne nudi, selvaggi nell’aspetto e negli atti. Aggiungeva che lui e i compagni vi avevano preso la maggior parte delle pelli e del sego, ma non avevano osato spingersi troppo verso l’interno dell’isola.
Di là passando a un’altra isola alquanto maggiore della predetta videro una grandissima moltitudine di gente che veniva loro incontro sul lido, uomini e donne ugualmente nudi quasi tutti, sebbene alcuni, che sembravano avere una particolare autorità, fossero coperti di pelli caprine tinte di giallo e di rosso e, a quanto si poteva capire di lontano, molto fini e morbide, cucite insieme piuttosto abilmente con fili di budello. Come si poteva capire dal loro comportamento, avevano a quanto pare un principe cui tutti prestavano rispetto e obbedienza. Tutta questa gente mostrava di voler commerciare e intrattenersi con l’equipaggio delle navi. Pure, per quanto alcune scialuppe dalle navi si fossero spinte verso la spiaggia, i marinai, non intendendo in alcun modo la loro lingua, non osarono affatto sbarcare. Del resto il loro idioma, a quanto riferiscono, suona piuttosto elegante, e sciolto al modo dell’italiano. Vedendo che quelli delle navi non sbarcavano, alcuni di loro cercarono di raggiungerli a nuoto, e così ne fu catturato qualcuno: si tratta di quelli portati al ritorno.
Alla fine, visto che in quel luogo non v’era nulla che valesse la pena, i marinai si allontanarono. Nel circumnavigare l’isola si accorsero però che a settentrione essa è ben più civilizzata che a mezzogiorno, poiché da quel lato videro moltissime capanne, fichi, alberi, palme (sebbene siano palme sterili) e orti, cavoli, verdure. Perciò vi sbarcarono venticinque marinai armati, i quali, cercando di scoprire che cosa vi fosse in quelle abitazioni, vi trovarono una trentina di uomini, tutti nudi, che, atterriti alla vista degli armati, fuggirono precipitosamente. Addentrandosi fra le abitazioni, le trovarono costruite con mirabile artifizio di pietre squadrate, e coperte di tronchi robusti e molto ben lavorati; e poiché desideravano vederne l’interno e ne trovarono chiuse le porte, si misero a spezzare gli usci con dei sassi, al che i fuggitivi si misero in furore e si diedero a empire il luogo di grida altissime.
Rotti finalmente i serramenti, entrarono in quasi tutte le case, ma non vi trovarono altro che fichi secchi in cestini di palma, buoni come quelli di Cesena, e frumento di gran lunga più bello del nostro, perché aveva i chicchi più lunghi e grossi del nostro ed era molto bianco; inoltre orzo e altre biade di cui, come giudicarono, quegli indigeni si nutrivano. Le case poi, oltre ad essere bellissime e coperte di bellissimi legnami, erano tutte così candide all’interno da sembrare imbiancate a gesso. Trovarono inoltre un oratorio ovvero tempio in cui non vi era proprio alcuna pittura né altro ornamento, tranne una sola statua scolpita in pietra, raffigurante un uomo con una palla in mano, nudo, coperto le vergogne con un perizoma di palma alla loro foggia. La presero e, caricatala sulle navi, la portarono a Lisbona. Quest’isola insomma è piena di abitatori, è coltivata e gli indigeni ne raccolgono il grano, cereali, frutta e specialmente fichi. Frumento e cereali o li mangiano come fanno gli uccelli o ne fanno farina che consumano così, senza confezionarne pane, bevendoci su dell’acqua.
Del resto trovarono molte altre cose che questo tal Niccolò non volle riferire. Appare tuttavia che quelle isole non sono ricche, giacché i navigatori ne hanno a stento recuperato la spesa dell’approvvigionamento. I quattro uomini portati al ritorno, adolescenti d’età, piacevoli d’aspetto, vanno nudi. Hanno peraltro perizomi di tal foggia: cingono i lombi di una corda da cui pendono fibre di palma o di giunchi assai folte, lunghe una spanna e mezzo o due al più. Queste coprono tutto il basso ventre e le vergogne, tanto dinanzi quanto dietro, a meno che per il vento o per qualche altro accidente non si sollevino. Non sono circoncisi; hanno capelli biondi e lunghi quasi fino all’ombelico, e se ne coprono; vanno a piedi nudi.
L’isola da cui sono stati portati via è detta Canaria ed è più delle altre popolosa. Costoro non intendono nulla affatto di alcun idioma civile, sebbene in molti e diversi si sia cercato di rivolgersi loro. Non superano la nostra statura. Sono membruti a sufficienza, audaci e forti e, a quanto si può capire, di grande intelletto. Si parla loro a gesti, e a gesti essi rispondono, come fanno i muti. Si rendevano onore a vicenda, ma uno di loro era onorato più degli altri, e costui ha il perizoma di palma (gli altri, invece, di giunchi), tinto di giallo e di rosso. Cantano dolcemente e danzano quasi alla francese. Sono ilari e alacri e assai socievoli, più di quanto non siano molti Spagnoli.
La prima cosa da osservare è che le isole Canarie non erano del tutto ignote agli uomini del Medioevo (perlomeno a quelli colti). Lo storico latino Plinio ne aveva parlato nella sua Storia naturale chiamandole Isole Fortunate, e i geografi antichi – come Pomponio Mela e Solino – mostravano di essere al corrente della loro esistenza: segno che già gli antichi navigatori (fenici, greci, forse romani) le avevano raggiunte. Chi, come Petrarca, aveva accesso a queste fonti antiche, sapeva che a sud di Gibilterra, in mezzo all’Oceano, c’era questo arcipelago: di «Fortunatae insulae ad austrum [‘a sud’]» parla infatti in una lettera all’amico Tommaso Caloiro del 1337 (Familiares III 1).
Boccaccio non ricorre a questa letteratura erudita e si tiene stretto al racconto del viaggio per come gli è stato riferito. Possiamo dividere la sua esposizione nei punti seguenti:
(1) Coordinate del viaggio, che si è svolto nella seconda metà dell’anno 1341, con descrizione delle isole e delle scoperte che i navigatori vi hanno fatto.
(2) Descrizione del primo incontro con gli indigeni, delle loro case e delle loro coltivazioni.
(3) Descrizione degli indigeni: caratteristiche fisiche, modo di comportarsi, atteggiamento nei confronti degli europei.
Il modo di raccontare di Boccaccio è piano, accurato, scrupoloso: si capisce che sta riferendo con cura notizie che altri gli hanno comunicato. Per questo cita con scrupolo le sue fonti, sia quando parlano («Peraltro Niccolò da Recco genovese […], interrogato diceva…») sia quando tacciono («Del resto trovarono molte altre cose che questo tal Niccolò non volle riferire»). L’unica cosa che ci appare strana, in questo resoconto, è la seguente: che Boccaccio riferisce senza alcuna sorpresa o senso di scandalo dettagli che a noi oggi sembrano raccapriccianti. Alcuni indigeni, che si erano fidati degli europei, vengono rapiti: «Vedendo che quelli delle navi non sbarcavano, alcuni di loro cercarono di raggiungerli a nuoto, e così ne fu catturato qualcuno: si tratta di quelli portati al ritorno». Le porte delle case degli indigeni vengono sfondate, e gli abitanti terrorizzati: i marinai «si misero a spezzare gli usci con dei sassi […]. Rotti finalmente i serramenti, entrarono in quasi tutte le case». Un idolo di pietra viene rubato: i marinai lo caricano sulla nave e lo portano a Lisbona.
Rapimento, effrazione, furto: tutto sembra normale, non solo agli occhi degli esploratori, ma anche agli occhi di Boccaccio. Perché questa mancanza di pietà? Bisogna riflettere su due circostanze. Da un lato, la vita umana non ha avuto sempre lo stesso valore. Oggi per noi (e per quasi tutti i popoli che si dicono ‘civili’) atti come torturare e uccidere sono atti che non possono mai essere commessi, contro nessuno; l’idea stessa che si possa uccidere in guerra è, per molti, inaccettabile. Negli anni in cui scrive Boccaccio, la vita era più violenta, e l’idea che ogni essere umano avesse quelli che oggi chiamiamo ‘diritti inalienabili’ (il diritto per esempio alla libertà di culto, o a non subire pene corporali) apparteneva a pochissimi, o forse a nessuno.
Dall’altro lato, non tutte le vite umane hanno avuto, in passato, lo stesso valore: la vita dei nemici era meno preziosa; e quasi senza valore doveva essere la vita di quelle popolazioni ‘selvagge’ che gli esploratori europei stavano cominciando a ‘scoprire’ grazie ai progressi della navigazione: di fatto, di lì a 150 anni, alla fine del secolo XV, i Guanci (questo è il nome della popolazione delle Canarie descritta da Boccaccio) vennero sterminati dagli spagnoli. Del resto, dopo la conquista dell’America, gli europei avrebbero discusso a lungo sulla questione: i popoli del ‘nuovo mondo’ posseggono o non posseggono un’anima? E alcuni avrebbero risposto che no, non la posseggono. Insomma, né a Niccolò da Recco né a Boccaccio dovette passare per la testa che gli abitanti delle Canarie erano ‘uomini come loro’, e che era ingiusto e immorale strapparli alle loro case e derubarli.
Il ritratto che, attraverso la testimonianza di Niccolò, Boccaccio fa degli indigeni è il primo di una serie di ‘ritratti di selvaggi’ che condividono alcuni luoghi comuni o topoi, sia negativi sia positivi. Negativi: sono impulsivi, imprevedibili, e non parlano alcun «idioma civile» (!). Positivi: i selvaggi sono belli, sani, leali, generosi, privi di inibizioni (vanno in giro nudi), e insomma agli occhi degli europei ‘civilizzati’ appaiano virtuosamente prossimi alla natura (o all’idea di natura che gli europei hanno elaborato). In sintesi, sono come bambini. Giudizio apparentemente benevolo, ma in realtà tremendo, perché i bambini possono e devono essere dominati, puniti, educati, civilizzati: ed è quanto la ‘civile’ Europa si occuperà di fare nei quattro secoli successivi. Queste pagine boccacciane, così serene, annunciano una lunga serie di genocidi.