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Sì, ma cosa c’è dentro? Per esempio Rilke

Nel 1902, Rilke va a Parigi per conoscere lo scultore Auguste Rodin: da tempo ammira le sue opere e vorrebbe scrivere un saggio su di lui. Resterà a Parigi fino al 1906, e i suoi rapporti con Rodin diventeranno tanto stretti che, per un periodo, Rilke lavorerà come segretario dello scultore, nella sua villa di Meudon. L’incontro con Rodin ha una notevole importanza per i suoi riflessi sulla poesia di Rilke. Sino a quel momento, egli aveva cercato, come i simbolisti, di evocare attraverso i suoi versi degli stati d’animo, dei sentimenti: la musica e la pittura erano state le arti che lo avevano soprattutto ispirato. Ora l’interesse per la scultura lo porta a voler piuttosto descrivere che evocare, cioè a ricreare con le parole gli oggetti, lasciando in secondo piano le idee e le emozioni dell’io. Come scrive a Lou Salomé nel 1903, «la cosa è precisa e determinata, la cosa dell’arte dev’esserlo ancora di più. Strappata al caso, sottratta a ogni oscurità, tolta via dal tempo e data allo spazio, è diventata durata, capace di eternità. Il modello è parvenza, la cosa dell’arte è».

In questi anni parigini Rilke visita ripetutamente il museo del Louvre, e al Louvre è conservata appunto la statua che ispira la poesia intitolata Arcaico torso di Apollo. Si tratta del cosiddetto Torso di Mileto, dal luogo in cui fu ritrovato: la città di Mileto, nella parte sud-occidentale dell’attuale Turchia. La statua, raffigurante un giovane (non è detto che si tratti di Apollo: così Rilke ha voluto interpretare l’opera, dandole il nome del dio delle arti) è priva della testa e delle braccia, che erano le parti più fragili delle sculture, e perciò più facili a rompersi e disperdersi. Resta una gamba, fino all’altezza del ginocchio, mentre dal modo in cui l’anca sinistra si innesta sul torso si capisce che la gamba sinistra, perduta per intero, era tesa in avanti. In Arcaico torso d’Apollo (che apre la seconda parte delle Nuove poesie, dedicate a Rodin), Rilke descrive questa statua e, soprattutto, gli effetti che la statua ha su colui che la osserva.

Archaischer Torso Apollos


Wir kannten nicht sein unerhörtes Haupt,
darin die Augenäpfel reiften. Aber
sein Torso glüht noch wie ein Kandelaber,
in dem sein Schauen, nur zurückgeschraubt,

sich hält und glänzt. Sonst könnte nicht der Bug
der Brust dich blenden, und im leisen Drehen
der Lenden könnte nicht ein Lächeln gehen
zu jener Mitte, die die Zeugung trug.

Sonst stünde dieser Stein enstellt und kurz
unter der Shultern durchsichtigem Sturz
und flimmerte nicht so wie Raubtierfelle;

und brächte nicht aus allen seinen Rändern
aus wie ein Stern: denn da ist keine Stelle,
die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern.

 

Torso arcaico di Apollo

Non conoscemmo il suo capo inaudito,
e le iridi che vi maturavano. Ma il torso
tuttavia arde come un candelabro
dove il suo sguardo, solo indietro volto,

resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
la curva del suo petto e lungo il volgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
fino a quel centro dove l’uomo genera.

E questa pietra sfigurata e tozza
vedresti sotto il diafano architrave delle spalle,
e non scintillerebbe come pelle di belva,

e non eromperebbe da ogni orlo come un astro:
perché là non c’è punto che non veda
te, la tua vita. Tu devi mutarla.

Il poeta descrive la statua, come abbiamo detto. Ma è subito chiaro che la sua descrizione non ha niente a che fare con quella di una guida, o di un libro di storia dell’arte. Per dire che manca la testa, Rilke scrive «Non conoscemmo il suo capo inaudito» (con inaudito che sposta sul senso dell’udito ciò che, a rigore, appartiene alla vista: la testa che non si vede). Mancano anche gli occhi, e Rilke parla di «iridi che vi maturavano» (l’iride è la parte colorata dell’occhio che ha al centro la pupilla). Dopodiché la descrizione, che fin qui era parzialmente metaforica, diventa totalmente metaforica, perché il poeta mescola ciò che vede – il nudo torso di una statua greca – con quello che immagina, o per meglio dire con quello che sente: una luce che fuoriesce da quel torso e che abbaglia lo spettatore, e che rende viva, scintillante «come pelle di belva» quella che, senza l’opera dello scultore, sarebbe solo una «pietra sfigurata e tozza». Invece, scrive Rilke, questa pietra inerte erompe «da ogni orlo come un astro». E per capire questo verso enigmatico può essere utile confrontare una pagina del suo diario parigino di qualche anno prima (dicembre 1902). «Ci sono delle statue che portano in se stesse il mondo che le circonda, lo hanno succhiato in sé medesime e lo emanano. Lo spazio in cui una statua è collocata è lo spazio del suo esilio – il suo mondo ce l’ha già in sé medesima e il suo occhio si rapporta a questo mondo che è nascosto e compiegato nella sua figura».

Gli ultimi due versi sono i più enigmatici, e anche i più sorprendenti e belli del testo. Perché fin qui si era trattato della descrizione della scultura, anche se di una descrizione anomala e, a causa della stranezza delle immagini adoperate da Rilke, difficile da comprendere. Ma negli ultimi versi il linguaggio è chiarissimo: nel torso di Apollo «non c’è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla» (ma l’originale è ancora più tassativo: «Du mußt dein Leben ändern» ‘Tu devi cambiare la tua vita’). Dunque non è solo lo spettatore che guarda l’opera. È anche e soprattutto l’opera che guarda lo spettatore: è la perfezione classica della scultura che giudica lo spettatore e, senza parlare, gli dice che deve cambiare la sua vita, e cioè, probabilmente (ma questo il testo non lo dice), che deve renderla più simile all’armonica bellezza del torso.

L’idea di ‘vedere l’intero’ in un’opera frammentaria come quella che ha ispirato Rilke è ovviamente un’invenzione poetica. Ma Rilke non è stato il primo ad averla. Johann Winckelmann (1717-1768) è stato il più grande archeologo del Settecento, e uno dei più importanti studiosi d’arte antica di ogni tempo. Durante i suoi viaggi in Italia vide e descrisse un gran numero di opere greche e romane, tra cui il cosiddetto Torso del Belvedere, oggi custodito ai Musei Vaticani. Certamente Rilke non si è ispirato a questa pagina, ma le corrispondenze sono sorprendenti:

«Ti conduco davanti al tanto celebre e mai abbastanza lodato Torso d’Ercole, davanti a un’opera che, nel suo genere, tocca il culmine delle perfezione e deve annoverarsi tra le maggiori creazioni artistiche giunte fino ai tempi nostri. Ma come potrò descriverlo, se gli mancano le parti più belle e più importanti che la natura ha date all’uomo! Come d’una meravigliosa quercia abbattuta e spogliata dei rami e delle fronde non rimane che il nudo tronco, così, deturpata e mutilata si vede l’immagine dell’eroe: gli mancano la testa, le braccia, le gambe e la parte superiore del petto. Al primo sguardo forse non scorgerai altro che un sasso informe: ma se hai la forza di penetrare nei segreti dell’arte, osservando quest’opera con occhio tranquillo, vi scorgerai un prodigio: Ercole ti apparirà allora come circondato da tutte le sue imprese, ed in quella pietra vedrai insieme l’eroe e il dio […]. Se vi sembra inconcepibile che si possa mostrare la forza del pensiero in un’altra parte del corpo, che non sia la testa, imparate qui come la mano d’un artista creatore abbia il potere di spiritualizzare la materia. Mi pare di veder sorgere dal dorso, curvo in profonda riflessione, una testa che con letizia ricorda le sue prodigiose gesta. E mentre una simile testa, piena di maestà e di sapienza, appare al mio sguardo, anche le altre membra mancanti incominciano a formarsi nel mio pensiero» (Il bello nell’arte, Torino, Einaudi 1973, pp. 75-78).

 

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