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Su Deleuze vent’anni dopo

Buona parte del pensiero novecentesco ha relativizzato la metafisica e l’umanesimo, cercando di risalire a una loro radice rimossa. Questa radice non è un concetto – altrimenti sarebbe metafisicamente inquadrabile – ma una «soglia». E’, cioè, il contesto di senso che ogni discorso presuppone senza poterlo esprimere: l’essere dell’ente per Heidegger, ciò che si mostra ma non si dice per Wittgenstein, la barra che separa dalla Verità per Lacan… Anche Deleuze ha insistito su questo tema, come spiega Rocco Ronchi in un ritratto stringato e limpido (non era facile) uscito per Feltrinelli a vent’anni dalla sua morte. Per capire cos’è, secondo l’autore di Differenza e ripetizione, questa soglia irrappresentabile da cui emergono le rappresentazioni, Ronchi si serve di Peirce (caro al suo maestro Sini) e di Gentile.

Per un empirista radicale, annota, la realtà è un tessuto non di fatti ma di atti. I soggetti e gli oggetti, l’io e il mondo non sono essenze originarie, bensì risultati provvisori di eventi-soglie non oggettivabili e non personali, di un flusso di esperienza anonimo e assoluto. Qui è il nucleo del deleuziano immanentismo in movimento, nel quale Spinoza incontra Bergson, e al cui centro sta un Uno neoplatonico dinamizzato, che si dà solo nel proprio illimitato differenziarsi. Questa equivalenza tra monismo e pluralismo non contesta solo la metafisica classica, ma soprattutto Hegel. Deleuze rifiuta infatti di pensare la differenza a partire dalla negazione, che la riduce all’ombra di un’identità già data, e d’irreggimentare la molteplicità negli aut-aut (legge o infrazione, castrazione edipica o follia…). Il suo è un divenire antidialettico, tutto affermativo.

Ed è appunto una tale “pura vita” che non si può dire: «semmai solo dirne, e cioè ripeterla», come tenta di fare Deleuze col suo continuo, seriale «gesto» filosofico. Affine a questo gesto gli sembra quello della cinepresa, «occhio non umano» che coi suoi illimitati punti di vista invera la percezione impersonale e diffusa da cui l’uomo ritaglia un proprio film, una soggettiva “metafisica” nel cinema infinito della realtà. E’ un’idea che il filosofo condivide con Pasolini, a cui si oppone invece frontalmente nel giudizio sul 68, che per lui non fu la trasgressione di un ordine, cioè un movimento imprigionato nel solito schema binario, ma un tentativo di riattingere il «piano di immanenza assoluta» dell’esperienza che scorre al di sotto dei «dispositivi di potere». Qui però sta il punto debole di Deleuze. Perché se nel divenire siamo sempre immersi, appare capzioso o pleonastico considerare il 68 come una sua «affermazione» più «pura» di qualunque altro fenomeno, senza eseguire sui fatti associati a quella data il lavoro de-metafisicizzante che il pensiero deleuziano ostenta di eseguire su ogni oggetto; oppure bisogna credere a una mera metafora, o a un uso pretestuoso della teoria a fini giornalistici.

Coi suoi cortocircuiti tra filosofia e politica (estetizzante), Deleuze spaccia infatti per necessità filosofica suggestioni o scelte personali che richiederebbero invece di essere argomentate politicamente. La stessa ambiguità inficia la sua scrittura, che come quella di altri pensatori francesi si vuole vertiginosa, ma che poi appiccica la teoria alla cronaca, e mima nello stile il contenuto, con una meccanicità da far impallidire i positivisti e gli hegeliani più brutali.

La verità è che l’immanentismo assoluto, destinato a celebrare tautologicamente tutto ciò che esiste, lascia poche strade aperte a un pensatore che voglia sostenerlo senza rinunciare a distinguere caso per caso valori e disvalori. Un tale pensatore può annuire sempre, e tacere; oppure può giudicare le singole situazioni con una analisi etica o politica davvero immanente, abbandonando l’ontologia per la prassi (è la via del gentiliano Calogero); o infine può restaurare la dialettica, che sola permette di collegare universale e particolare senza trucchi. Altrimenti, l’immanentista che pretende di assegnare un’indebita aura filosofica a ogni opinione contingente calando dall’alto la sua teoria, finisce per contraddirsi e cede alla retorica: quella stantia del Gentile ideologo, o quella più glamour con cui Deleuze introduce surrettiziamente nel suo refrain sul Divenire opinioni improbabili sul 68 o sull’OLP, e in cui, proprio mentre predica l’anonimia, esibisce un ansioso bisogno di riconoscimento. Per questo, mentre rimangono notevoli le sue interpretazioni dei grandi filosofi, non convince la sua intimidatoria mistagogia estetico-politica. Pensatore del secolo, lo chiamò Foucault: in effetti rappresenta bene quel Novecento in cui l’intelligenza si confonde con la sofistica, e la demistificazione con una mistificazione al quadrato.

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