Da Contini e i classici: Dante, in Gianfranco Contini 1912-2012. Attualità di un protagonista del Novecento, a cura di Lino Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo 2014, pp. 81-99.
Preparando questa comunicazione ho pensato ogni tanto che, anziché dare al congresso un taglio tematico (il Dante di Contini, la filologia di Contini), gli si sarebbe potuto dare un taglio cronologico, procedere per decenni, dagli anni Trenta agli anni Ottanta, e forse, guardando le cose secondo questa sincronia larga, diciamo, attenta ai tempi più che ai temi, sarebbero emerse più nitide anche nella loro genesi certe posizioni critiche di Contini (la linea espressionista, la polarità Dante-Petrarca così com’è formulata nei Preliminari sulla lingua del Petrarca, e che però ritorna simile altrove, con varianti interessanti, lo «sliricamento» del Montale delle Occasioni e la «mancanza di lirismo» del Dante delle Rime); e si sarebbe anche potuta precisare, sfumandola, quell’opposizione tra ‘critico di idee’ e ‘critico di parole’ di cui si è discusso in questi anni, magari valorizzando dichiarazioni dello stesso Contini, dichiarazioni di cui era parco in pubblico ma generoso in privato, e che danno conto di un’evoluzione consapevole, cercata – penso in particolare a quella che si trova in una lettera a Cecchi del 1948: «Aborro ormai da un’interpretazione che prevalga a priori sull’accertamento, da un metodo che prevarichi in metafisica, da una precoce distinzione dei dati in fatti e non-fatti, dall’umanismo che è in realtà neologismo, dall’antipositivismo che assicura per la vita contro ogni avventura e azzardo sperimentale (…). La strutturazione ‘spaziale’, la ‘localizzazione’ dei dati, sia poi la continuità-discontinuità delle serie biologiche o quella dei fatti storiografici (…) mi sembra la sola garanzia d’un’autentica conoscenza individua, che se si pone dapprincipio (o si finge) irrelata ed estranea a ogni memoria, naufraga nell’impressionismo dei dilettanti»[1].
Di fatto, però, questa scansione per decenni, o per stagioni, non avrebbe grande utilità in relazione agli studi danteschi di Contini, perché il percorso di Contini dantista è nitido e non contraddittorio. Nitido, perché Contini si occupa soprattutto del Dante lirico quando è giovane; soprattutto della Commedia negli anni della maturità; e soprattutto del Fiore quando è anziano. Le rare eccezioni si debbono a scritti occasionali: cioè a schede su codici danteschi (i Bodmeriani [1959], il cosiddetto codice Fontanini della Commedia [1978], i codici meridionali della Commedia [1966], un frammento della Vita nova [1969]) e alla grande recensione all’edizione Marigo del De vulgari eloquentia, che è contemporanea al commento alle Rime (1939). Non contraddittorio, perché i problemi che Contini si pone e la prospettiva dalla quale li considera non cambiano nel tempo e, soprattutto, non cambiano a seconda che l’attenzione cada sull’una o sull’altra opera dantesca. L’ottica di Contini è unitaria, ovvero monografica. Non nel senso in cui lo è quella crociana (l’ottica che si adempie nella caratterizzazione, nell’individuazione del sentimento dominante e nella sua iscrizione a una data «classe o tipo psicologico»[2]: ché l’antipsicologismo è come si sa una costante della critica continiana), ma nel senso che l’unità, il principio che legittima la monografia, è trovata nello stile, nel linguaggio, e facendo perno sullo stile e sul linguaggio Contini traccia delle linee di continuità che finiscono per ricomporre, frammento per frammento, l’intero. (Che è poi ovviamente la strategia, l’originalità, del Contini variantista. Ma dal momento che Dante è il solo, tra gli autori sommi di cui Contini si occupa, che non gli offra varianti, ecco che Contini, per così dire, dinamizza l’intero – non potendo mostrarcelo nell’atto di costruire, ce lo mostra nell’atto di trovare, per tentativi, la sua strada, che è la strada che porta alla Commedia).
Per citare soltanto un primo caso, esemplare di questo atteggiamento è, nel saggio sui Preliminari sulla lingua del Petrarca, l’insistenza sulla «portata che riveste nell’elaborazione della Commedia la tenzone con Forese»[3], insistenza che è però anche esemplare dei rischi che un simile atteggiamento comporta: rischio di sopravvalutazione (in breve: della portata dimostrativa dei contatti verbali tra opere di magnitudine tanto diversa); e rischio di sottovalutazione (in breve: dell’autonomia dei generi letterari). E quello che vale per i rapporti, come qui, tra Rime e Commedia, vale doppiamente per i rapporti diciamo intragenerici: ed ecco allora che il sonetto Com più vi fere Amor co’ suo’ vincastri risulta essere per Contini non solo l’incunabolo delle petrose ma anche il primo omaggio reso alla sestina di Arnaut Daniel (salvo che questo rilievo è vanificato dall’osservazione che si tratta di un testo responsivo, e che consimili esercizi di petrosità sono correnti nelle tenzoni duecentesche: detto altrimenti, la rarità e l’asprezza del lessico in rima non è un fatto di stile, è un fatto di genere).
Questa idea unitaria, monografica, risalta, più ancora che nei saggi danteschi in senso stretto, proprio nei Preliminari sulla lingua del Petrarca. Perché qui il ritratto di Petrarca non è, come Contini dichiara subito, un ritratto in piedi, posto che l’obiettivo è centrato sulla lingua del Canzoniere e su nient’altro; ma un ritratto in piedi è invece quello di Dante, perché qui tutte le caratteristiche che Contini isola come pertinenti definiscono non la tale o talaltra opera bensì l’opera nel suo complesso e anzi, a rigore, l’uomo, la sua mente: plurilinguismo, gestione sincronica di strati lessicali diversi, interesse teoretico, sperimentalismo (mi pare che Contini stesso ammetta che questa polarità di stili venga ridescritta come polarità di caratteri, di tipi psicologici: non nei Preliminari ma vent’anni dopo, nel saggio su Petrarca e le arti figurative: «Si tratta di due esemplari umani addirittura antitetici, in uno dei quali l’inaudita ricchezza e a prima vista eterogeneità delle percezioni poetiche si accompagna, come di rado accade, non solo a una vivacissima intelligenza generale, ma a un vero logos capace di inventare concetti e strutturare ragionamenti; mentre l’altro, temperamento fondamentalmente introspettivo, elabora in solitudine una serie di meditazioni e, al limite, di modulazioni melodiche lentamente variate, scompagnate da operazioni stricto sensu razionali»[4]).
Dunque anche a Contini, come a Croce, interessa «il carattere e l’unità della poesia di Dante», salvo che, come accennavo, Contini trova questo carattere e quest’unità non in un sentimento dominante ma in un particolare uso del linguaggio: quel linguaggio che, ha osservato Contini, «non ha posto nella didattica crociana». (E nel fatto che un lettore odierno avverta questa riduzione a unità come assai meno urgente, addirittura superflua, è un segno di quel «mutamento della cultura complessiva» che Contini evoca proprio nel saggio su Croce[5]). Ora, costante negli scritti danteschi di Contini è che questa continuità si complichi – se non piuttosto si semplifichi – come teleologismo ovvero, per usare una formula continiana, come «storiografia retrospettiva»[6]. È un’idea-guida che troviamo nel Contini venticinquenne (è il Leitmotiv dell’introduzione alle Rime, e basta ricordarsi il paragrafo con cui si conclude il saggio: «Può trovarsi migliore argomento a riconfermare, in conclusione, come l’ossessione della Commedia, nell’animo dell’esegeta delle Rime, non sia un vano fantasma agitato dal principio d’autorità? Solo in questo canone si vede placato il travaglio esplorativo di Dante e il furore dell’esercizio»[7]), nel Contini quarantacinquenne («Dante tiene fede alla sua cronologia letterale e ideale»[8]), nel Contini sessantacinquenne («La composizione delle opposte tesi [quella che presiede alla poesia d’amore e quella che presiede alla poesia di rectitudo] era, ancora una volta, serbata alla Commedia»[9]). Dal che si comprende come per Contini la continuità, l’unità dell’opera dantesca stia precisamente nel suo essere continuamente, unitariamente sperimentale; e come la Commedia sia il luogo in cui si compongono, si sommano, si esaltano questi esperimenti. Né questa visione teleologica si ferma alla lirica; coinvolge anche il Convivio: che «contiene molti nodi della meditazione dantesca, ne è anzi una sua prima summa, finché […] questa funzione non viene smistata alla Commedia»; e coinvolge anche il De vulgari eloquentia: la cui interruzione «trova la sua razionalità […] nell’accettazione del piano stilistico meno squisito, quello appunto della comedìa, genialmente interpretato come inclusivo di tutti gli altri livelli»[10]. Sicché si conferma anche in relazione al caso-Dante ciò che dice Mengaldo sull’idea di sperimentalismo in Contini: idea che «almeno fino a una certa data è al servizio non tanto del puro stile quanto dell’intelletto, e della razionalità dell’opera (p. es. Bacchelli è detto “indefatigato sperimentatore intellettuale”)»[11]. Tant’è vero che sul conto della ‘sperimentalità’ dantesca finiscono persino le oscillazioni di pensiero circa questioni capitali come il primato del latino (Convivio) o del volgare (De vulgari eloquentia), o la variabilità dell’ebraico (negata nel De vulgari eloquentia, affermata nel Paradiso), o l’ordine delle intelligenze angeliche, o il giudizio sui trovatori – persino queste oscillazioni vengono ricondotte non alle incertezze, alle esitazioni di una messa a fuoco progressiva ma a una sorta di gusto per l’esercizio dialettico: Dante è «uomo di temi più che di tesi, anche concettualmente investito della formalità della ricerca mentale, nel grande solco della tradizione sofistica, tanto nitidamente proseguita dalla disputazione scolastica»[12].
Qual è il guadagno, il frutto critico di questa coerenza? La risposta è facile: è la verifica, condotta soprattutto nei saggi sulla Commedia e sul Fiore, circa il modo in cui funziona la memoria di Dante, la verifica dei meccanismi che la regolano, e la dimostrazione di quanto questa dimensione pesi nella scrittura (e dunque debba pesare nella lettura) dell’opera dantesca. E più in particolare, il frutto di questo approccio unitario è il magnifico saggio Un’interpretazione di Dante, saggio che contiene insomma, e documenta, la scoperta della memoria di Dante, con le sue appendici nel futuro (la memoria di Dante in Petrarca, in noi moderni) e nel passato (i classici come «cava di citazioni»[13]); con anche le conseguenze che la scoperta comporta in ordine all’interpretazione, e anzitutto la riduzione «entro più giusti confini» di quella «interpretazione ideologica al quale gli studiosi della cultura dantesca si sentono irresistibilmente inclinati»[14]. Non serve citare queste pagine celebri. Serve semmai ricordare una cosa che critici un po’ troppo disinvolti tendono a dimenticare, e cioè che la pertinenza delle osservazioni di Contini sulla ‘memoria interna’ di Dante non viene meno anche se il Fiore non dovesse essere di Dante. Il Fiore può essere un’applicazione indebita del metodo, ma un’applicazione indebita non inficia la validità del metodo stesso: tant’è vero che quel metodo è stato poi fecondo anche in altre mani, e penso per esempio agli studi di Beltrami sulla metrica dantesca.
E qual è invece il rovescio negativo di questa coerenza? Quali inconvenienti produce il ‘metodo’? Direi questo: che il negativo e l’inconveniente stanno in un eccesso di fiducia nella possibilità che la memoria di Dante (genitivo soggettivo e genitivo oggettivo) sia in grado di spiegare adeguatamente l’opera di Dante.
Quanto alla lirica, cioè alle Rime e alla Vita nova, la cosa è particolarmente vistosa nelle pagine su Cavalcanti in Dante, che è il saggio dantesco di Contini in cui la macchina dell’intertestualità è adoperata con più larghezza e più fiducia. Non sarebbe un gran male, se non fosse che Cavalcanti in Dante contiene un avallo preventivo alle analisi intertestuali che inonderanno la dantistica, e la medievistica in generale nel secondo Novecento, perché è qui che si collaudano categorie para-critiche poi diffusesi con rapidità e intensità virale come quella del «superamento», dell’«omaggio formale» che nasconde una solidarietà ideologica, delle genealogie costruite sulle parole, dei «non è un caso che» applicati anche alle più tenui accidentali somiglianze formali. Per esempio:
Il primo sonetto del Fiore, dove la saetta chiamata Beltà «per gli occhi il core / mi passò», offre un patente ricordo verbale dell’enunciato cavalcantiano Voi che per gli occhi mi passaste ’l core, confermando anzi ulteriormente questa lezione, a cui una parte della tradizione oppone al core (…). E si sarebbe tentati di vedere in questa reminiscenza liminare, non dico una chiamata di correo (…), ma un’ostentata collocazione sotto il patronato cavalcantiano[15].
O più avanti, con il caratteristico metodo dell’incrocio o somma delle fonti:
Di Voi che per li occhi mi passaste ’l core si è letta un’orma nel Fiore; ma se si integra l’inizio («guardate a l’angosciosa vita mia»), nessun dubbio che si crederebbe di riconoscerlo nell’attacco di un famoso sonetto rinterzato («O voi che per la via d’Amor passate, / attendete e guardate»), ove questo non si tenesse dappresso a Geremia, «passate» in particolare rispondendo a «transitis», «guardate» a «videte». O anche in Guido (si veda pure il «guardi… e miri», quasi «attendite et videte», del suo Quando di morte) è latente Geremia? E addirittura andrebbe avanzata l’ipotesi di scambi d’esperienze fra Dante e Guido, non di derivazione unilaterale? Sta di fatto che, quando maestro Adamo prorompe nella sua implorazione («O voi che…, / guardate e attendete / a la miseria…»), egli sembra inserire un cavalcantismo nella formulazione della Vita o di Geremia[16].
Dove abbiamo questi due tempi: (1) sopravvalutazione di somiglianze verbali probabilmente fortuite, o non dimostrabilmente intenzionali; e (2) loro interpretazione in chiave ideologica, come se usare le medesime parole, in una poesia tanto ridondante, volesse dire collocarsi nell’orbita, o «sotto il patronato», o insomma in dialogo con l’autore presuntamente citato.
Quanto alla Commedia, dell’intertestualità Contini si serve estesamente nelle tre letture di Inf. xxx, Par. xxviii e, in modo particolare, in quella di Pg. xxvii, che è spesa per gran parte nel tentativo di stabilire se lo stile e certi motivi del canto (Piramo e Tisbe, il fanciullo «vinto al pome») rientrino, come vuole «l’opinione vulgata»[17] all’orbita stilnovista oppure – come propende a credere Contini – a quella siciliana e siculo-toscana (ma per la comparatio domestica del fanciullo vinto al pome non sembra pertinente la pagina di riscontri da Mazzeo di Ricco, Bonagiunta, Chiaro, Paolo Zoppo, tutti luoghi, questi, in cui del «fantino» si predica l’ingenuità, anzi la «follia»: non, come in Dante, la mansuetudine). E non di echi intertestuali ma addirittura di «citazioni» Contini parla in Filologia ed esegesi dantesca:
Se dissertando sulla generazione Virgilio biasima, in verità col giusto riguardo, Averroè per aver disgiunto «da l’anima il possibile intelletto», questo tecnicismo in rima, con la sua inversione pur coatta dal ritmo, evoca irresistibilmente la capitale canzone cavalcantiana, tanto ammirata da Dante, Donna me prega: «Ven da veduta forma che s’intende, / che prende nel possibile intelletto, / come in subietto, loco e dimoranza»; coinvolgendo e ostentando l’averroismo del primo amico. Altrove l’ammicco potrà essere meramente implicito. Nell’endecasillabo «come di neve in alpe senza vento» se ne riflette notoriamente (e perfeziona) uno del plazer cavalcantiano Biltà di donna, «e bianca neve scender senza venti»[18].
(ma nel primo caso la coazione del ritmo sembra in effetti determinante, per scongiurare la rima in –ibile; nel secondo si tratta di un’immagine da plazer che può ben essere topica: e la si trova per esempio anche nella canzone di Francesco Smera Per gran soverchio 76 «veder fioccar la neve senza venti»).
Ma la chiave dell’intertestualità è poi soprattutto quella che dà l’ossatura al saggio sul Dante come personaggio-poeta. Solo che qui c’è un salto di livello. Da un lato, l’intertestualità continua a interessare la forma, il modo in cui sono dette le cose. Ecco per esempio come Contini imposta la questione dei rapporti tra Dante, Guinizelli e Guittone:
«O caro padre meo», cominciava il sonetto di Guido; e, per parodia e antitesi, caricando di enjambement, Dante chiama lui «padre / mio». «De vostra laude», continuava Guido, «non bisogna ch’alcun omo se ’mbarchi» (in rima con «marchi», che Guittone riprende quattro volte, in mutevoli accezioni). È parola abbastanza peregrina perché l’«esperienza imbarche» (in rima con «marche») che Dante mette in bocca a Guido, ritenga portata di allusione precisa (…). Insomma, l’episodio del primo Guido è, per dir tutto, assai meno una dichiarazione di guinizellismo che, sotto forma di palinodia, una proclamazione antiguittoniana[19].
Dall’altro lato, l’intertestualità promette di illuminare anche la struttura del poema, nonché di articolare alcune delle idee che il poema contiene. Vale a dire che l’intera Commedia è interpretata da Contini come una vasta resa dei conti – precisabile appunto come superamento o risarcimento o omaggio eccetera – non tanto tra Dante e i poeti del passato quanto tra Dante e le proprie varie stagioni poetiche, ciascuna trascorsa sotto la stella di un ispiratore. (Idea che, sia detto di passaggio, si salda a una delle idee-guida del commento alle Rime, idea non solo continiana ma soprattutto continiana, e cioè che le stagioni di Dante si possano distinguere speculando sull’influenza dei maestri: Guittone Cavalcanti Arnaut). Il saggio su Dante come personaggio-poeta è tutto costruito in questo modo; e rileggendolo si ha soprattutto la percezione di un eccesso, di un trascorrere non abbastanza motivato da – come dicevo – fatti di lingua a fatti d’ideologia, una manomorta delle parole sui concetti, in cui ogni cosa è da riportare, come scrive Contini parlando dell’episodio di Forese, «nel grembo della letteratura».
Non è facile riassumere un’argomentazione come quella di Contini, che è già scorciatissima. Ma proviamo. Francesca da Rimini ripara il suo peccato «all’ombra della morale stilnovistica», perché le sue terzine sono un pastiche di luoghi di Guido Guinizelli e del giovane Dante (il che vale sempre a ribadire il sentimento unitario che Contini ha dell’opera di Dante: la Vita nova e la Commedia si parlano, e se la Commedia non è veramente una collezione di liriche, è però il luogo in cui quelle liriche giovanili vengono, dal poeta maturo, rifuse e giudicate). S’intende allora come mai la passione di Francesca non possa essere riportata all’esperienza, come non si possa qui parlare di mimesi o di realismo. Se gli amanti impallidiscono non è perché gli amanti, quando scoprono di amarsi, impallidiscono; se tremano, non è perché l’eccitazione sessuale fa tremare, ma perché tutti questi clichés sentimentali si trovano inventariati nel De amore di Andrea Cappellano, e insomma per deferenza a lui: è tutto «Cappellano puro» (p. 47). Sia chiaro: il problema non sta nell’attribuire alla letteratura del Medioevo un grado di letterarietà che non ci sogneremmo mai di attribuire alla letteratura moderna: questo sarebbe un modo di procedere tutto sommato giusto, adeguato all’oggetto. Il problema sta nel leggere qualsiasi cosa la letteratura medievale ci dica attraverso il filtro della letteratura, come se quegli uomini non fossero stati capaci né di concepire né di rappresentare passioni, sentimenti, idee che non fossero letterarie (o filosofiche, se è per questo).
Francesca, che è il primo personaggio della Commedia con cui Dante abbia un dialogo, apre la catena dei superamenti: è una tappa del superamento di quell’etica mondana che ha il suo luogo d’elezione nelle liriche stilnoviste: perché, altrimenti, «la complicità affettiva dell’io viaggiatore, pietà, svenimento, anzi tenerezza ancor prima che i due gli sian cogniti?» (p. 47). Il prossimo nella fila è Cavalcanti. La menzione del suo nome nel decimo dell’Inferno non allude tanto – argomenta Contini – a un fatto di fede, di mancanza di fede. Allude invece soprattutto alla hybris del poeta «contento alla letteratura con i suoi sistemi di metafore. Dante, come già in Francesca della morum probitas, fa ammenda in Guido d’una teologia adoperata come tropo» (p. 51).
Si procede. Forese Donati. «Qui parremmo una seconda volta molto lontani dalla letteratura» (p. 51). Invece non ne siamo affatto lontani, perché la sua ascrizione al girone dei golosi non è che un «risarcimento» per la «diffamazione» della tenzone. Lo provano, tra l’altro, le non casuali congruenze tra «la faccia di Forese» (Commedia) e la «faccia fessa» (tenzone), tra il «difetto di carne» (Commedia) e la «vendetta de la carne» (tenzone). E Forese, il Forese-poeta vale, più che per sé, per un’intera provincia della poesia, per un modo del linguaggio poetico, quello cosiddetto comico-realistico: «Sarà proprio un caso che non dico Rustico, ma Cecco Angiolieri, suo corrispondente un poco troppo confidenziale, non assurga alla menzione presso Dante (fatta anche la tara di ciò che il libro iv del De vulgari, destinato allo stile umile e mediocre, non venne mai scritto)? Forese è una liquidazione per tutti» (p. 53). Forse, ma è comunque arbitrario «fare la tara» di quanto Dante non ha scritto nel De vulgari: né Rustico né Cecco lasciano canzoni, Dante promette di scrivere ma non scrive dello stile umile, Cecco è ancora vivo nell’anno 1301 – dove, in quale opera dantesca avrebbe potuto cadere la citazione? Insomma, se è bene non speculare troppo sulle presenze, è bene non speculare affatto sulle assenze.
Cosa resta da superare? Scontato «in Francesca l’eros infernale dell’etica cortese» (p. 56), l’incontro con Guinizelli e Arnaut Daniel mira appunto a una purificazione ulteriore, cioè a espiare «l’eros purgatoriale della suprema tradizione occitanica e anche del cor gentil». E perché proprio Guinizelli e Arnaut? La ragione intrinseca la conosciamo: sono i padri, i maestri che Dante sente di dover riconoscere. Ma a Contini preme trovare anche una giustificazione esterna. Dove trovarla? Tacendo le rispettive biografie, non c’è che da leggere le loro poesie, beninteso con chiavi d’interpretazione opportune. Si comprende allora che Guinizelli paga pegno (pegno essendo le fiamme del purgatorio!) per la carnalità del sonetto per Lucia (è «giustificato il bel suggerimento di Vittorio Rossi, che il peccato sia noto per letteratura e non per biografia»); e che Arnaut espia le fantasticherie sull’ongla e sulla cambra.
Al termine di questa rassegna, i tempi delle Rime e della Vita nova si specchiano nei progressivi superamenti che il Dante della Commedia ha voluto compiere attraverso figure esemplari; e tutto davvero è riportato «in grembo alla letteratura» (un’operazione che farà scuola non soltanto, ripeto, tra gli studiosi ma anche tra gli scrittori prestati alla critica: penso al Calvino delle Lezioni americane). Scrive Contini: «Ogni tappa e sosta del suo viaggio oltreterreno è una modalità del suo ‘io’ vittoriosamente attraversata» (p. 62). A distanza di vent’anni, Contini ha insomma descritto nei dettagli, ha documentato, quella ‘composizione nel canone della Commedia’ di cui diceva alla fine dell’introduzione alle Rime.
Il rovescio di questa estrema sensibilità ai fatti verbali è una scarsa sensibilità per i fatti che possiamo chiamare strutturali. Mengaldo ha raccontato di quando, rispondendo a una domanda circa il suo metodo, Contini accostò l’orecchio al libro che teneva sul banco e disse «Ascolto»[20]. E di auscultazione si parla nell’intervista a Ludovica Ripa di Meana. Ora, questa ovviamente era sprezzatura, perché Contini era uno che auscultava solo dopo aver imparato tutto. Ma mi pare di poter dire che era una sprezzatura sincera, di chi – in tempi di sovrapproduzione di teorie – ha, per fortuna sua e nostra, poche ubbie metodologiche. Ora, auscultazione vuol dire concentrazione sul particolare piuttosto che sull’intero, concentrazione alla quale è organica per esempio la visione riduttiva dei classici in Dante come «cava di citazioni» (e non invece, per ipotesi, come modelli di pensiero o di retorica); e alla quale soprattutto è organico il moderato interesse che Contini nutriva per i problemi che hanno ispirato i saggi più interessanti del Novecento sulla Commedia, che sono saggi – in breve – sulla struttura più che sulla poesia (Auerbach, Singleton), o sul pensiero di Dante (Nardi).
Di fatto, quando Contini si ferma a considerare questioni strutturali lo fa con uno spirito di sistema tale – speculando sulla continuità tra lirica e poema – da fargli mettere in un unico fascio fenomeni che andrebbero invece distinti, come quando nel saggio su Filologia ed esegesi dantesca riflette sulla presenza della parola stelle tanto all’inizio quanto alla fine di ciascuna cantica:
Ma qual è il valore formale del richiamo? Esso sembra assimilabile solo agli istituti retorici della lirica, per esempio alla ripresa o al ritornello della ballata e generi affini; se si vuole, anche al riverbero della parola-rima nella sestina. Se questo certificato di nascita è valido, occorrerà una controprova. E la controprova sembra di trovarla nella ripercussione del vero dall’explicit di Paradiso xxvii («e vero frutto verrà dopo ’l fiore») alla prima terzina del successivo («… aperse ’l vero») e al suo stesso explicit («con altro assai del ver di questi giri»), conforme all’insistenza sul vero che caratterizza questo canto: non casualmente, se il riecheggiamento del vero si limita altrove, in una replica di maestro Adamo, allo stretto giro di una terzina. Il canto dunque si morde la coda e si conduce come una cobla capfinida della tecnica trobadorica rispetto al precedente, giusta l’artificio che stringe insieme insigni esemplari del trovare prima provenzale e poi siciliano e quindi addirittura stilnovistico (…). Si prenda la canzone E’ m’incresce di me: sono collegate a questo modo («… “Nostro lume porta pace”. // “Noi darem pace al core…”») tre stanze, cioè metà del componimento. O si prenda la limitrofa Lo doloroso amor: un tale collegamento connota solo le prime due stanze («“Per quella moro c’ha nome Beatrice”. // Quel dolce nome…»). In altri termini, Dante si accontentava di accenni alla compagine e unità delle poesie, senza irrigidirli in ripetute costanti (ancora più lasso è il rapporto del primo verso del Paradiso, «La gloria di Colui che tutto move», ad altro solo collocato verso la fine, «la gloria di Colui che la innamora»), con una sprezzatura che era automaticamente discrezione[21].
A mio avviso qui va negata la premessa, cioè non va concesso che «questo certificato di nascita sia valido», e che il ritorno di stelle in testa e in coda alle cantiche alluda alla tecnica delle coblas capfinidas nelle canzoni antiche: non è provabile, ed è improbabile, che sia così, e di conseguenza non sono valide, o sono superflue, le deduzioni successive.
Il fatto è che si tocca, con Dante, il limite concesso all’auscultazione, cioè più largamente alla critica stilistica. Prima del Settecento – ha scritto una volta Spitzer – «è assai difficile scoprire in qualche scrittore associazioni ‘individuali’, cioè associazioni non suggerite da una tradizione letteraria. Dante, Shakespeare, Racine sono grandi ‘individui’ letterari, ma non permisero – o non ottennero – che il loro stile venisse permeato dalle loro fobie e idiosincrasie personali (perfino Montaigne, nel ritrattarsi, pensava a se stesso come a l’homme)»[22]. Non direi che Spitzer abbia interamente ragione, in questo negare l’emergenza di idiosincrasie personali in Dante, Shakespeare e Racine, ma nella sua impostazione generale il ragionamento è sensato: il clic che rivela la caratteristica individuale di un autore o di un’opera, o meglio – con parole di Contini – di una «singola unità espressiva», scatta con più difficoltà se quelle che abbiamo di fronte sono le pagine di un poeta premoderno, perché in esse la forza del codice, la mediazione della tradizione, è soverchiante. Ora, l’ingorgo di letteratura che si avverte leggendo i saggi danteschi di Contini corrisponde non solo alla mentalità del critico ma anche a questo che chiamerei vincolo della materia: non potendo, mancando le varianti, descrivere un processo elaborativo; non volendo, per la nota renitenza allo psicologismo, ricostruire una ‘personalità’, che cosa scopre l’auscultatore? Scopre «una parola fondamentale e rivelatrice» (la parola vero che rimbalza in più punti del canto xxviii del Paradiso), e lascia che questa parola orienti l’interpretazione del testo; oppure scopre i frammenti di un codice, che è parte un codice individuale (memoria interna) parte un codice sovraindividuale, volta a volta siciliano, o siculo-toscano o stilnovista. E saggi come Cavalcanti in Dante o, in misura tra loro diversa, i tre saggi su canti della Commedia (su Inferno xxx, su Purgatorio xxvii, su Paradiso xxviii) sono appunto un tentativo di riduzione a unità dei frammenti, sono il codice ricostruito. Delle forzature che, a mio avviso, quest’opera di ricostruzione comporta ho già detto a sufficienza.
Fin qui ho accennato a Contini lettore di Dante senza dire niente del Contini storiografo, cioè del posto che Contini assegna a Dante nella storia della letteratura italiana. Anche qui vorrei distinguere tra lirica e poema.
Il discorso storiografico sulla lirica di Dante s’intreccia, in Contini, al discorso sullo stilnovo. Ora, in Dante come personaggio-poeta Contini dice a chiare lettere (proprio: in maiuscoletto) che nel xxiv canto del Purgatorio Dante «non produce la definizione d’una scuola» (p. 55). Resta però che tutta la sua lettura delle Rime è fatta tenendo ben ferma, come continuo termine di confronto, l’idea-immagine dello stilnovo. Come si definisce, di quale contenuto si riempie questa idea-immagine? Innanzitutto, di amicizia: che significa, più ancora che ideale stilistico comune, «congruenza di lavoro», talché si registra addirittura, «nella pratica del fatto poetico, la tendenziale indifferenziazione dei rimatori, il loro disinteresse o rifiuto a sottolineare la distinzione delle individualità». E a questo incontro, a questa fusione di poetiche non manca la convalida filologica:
L’intercambiabilità frequente delle attribuzioni nei manoscritti, il fatto che entro certi confini, in mancanza di sicure attestazioni documentarie, i dati stilistici non sarebbero sufficienti a una ‘perizia’ distintiva circa alcune coppie d’autori, sono il pallido riflesso esterno d’un’intercambiabilità, prima ancora, teorica. Lo spartiacque fra Dante e Cino, per citare un caso tipico (…), è tutt’altro che sicuro. Incertezza giuridica – è addirittura truistico sottolinearlo – che vale quanto inessenzialità della proprietà e dell’individuo[23].
In secondo luogo, l’idea-immagine dello stilnovo si riempie di complessità filosofica, complessità assente nei più ingenui predecessori curiali: «nelle summae o manuali o appunti di scuola essi andavano rintracciando (…) la riserva inventiva, il repertorio euristico convenienti alle loro canzoni più solenni (…). Neppure gli stilnovisti veramente posseggono interessi dottrinali pronunciati; hanno, questo sì, in uno dei più imponenti fra i loro settori d’esperimento, interessi pronunciati per il linguaggio tecnico della filosofia e per l’accensione metaforica in cui può indurre l’esposizione concettuale»[24].
In terzo luogo, caratteristica dello stilnovo secondo Contini è la «rappresentazione dei fatti interni riferiti a un soggetto trascendentale»[25]. Ovvero, come Contini spiegava già nell’introduzione alle Rime,
se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest’analisi non va già riferita all’individuo empirico, ma, di là da questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch’esso oggettivo e assoluto. Questo spiega come la persona del nuovo trovatore, lungi dall’affermarsi, si dissolva nel coro dell’amicizia[26].
E ancora meglio, ancora più chiaramente, nella Letteratura italiana delle origini:
La radicale differenza tra lo Stil Novo e la poesia precedente (…) è che questa, in quanto poesia d’amore, è puramente rituale, legata a una convenzione tematica e non a un’occasione storica, mentre lo Stil Novo deriva le sue situazioni dall’esperienza: salvo che l’esperienza dall’individuo umano è subito trasportata all’uomo in generale. S’instaura per tal modo un doppio registro, in virtù del quale l’io è insieme il soggetto delimitato d’un’azione e l’uomo universalmente considerato[27].
Ciascuno di questi tre punti si presterebbe a una lunga discussione. E ci sarebbe soprattutto da accogliere, da approvare: in particolare, la perfetta caratterizzazione dei due tempi della poesia stilnovista, l’estrema individuazione (Dante, Guido, Cino sono i primi a fare – e non solo nelle rime di corrispondenza – dell’autobiografia nei versi, addirittura della cronaca: pensiamo alla Mandetta) come viatico a un’estrema universalità. L’unico dubbio riguarda semmai proprio la premessa, l’idea di uno stilnovo che non ha naturalmente i muri di una scuola ma è pur tuttavia una scuola «con il senso della scuola», un’unità, rappresentabile, descrivibile come unità. Mi pare che si tratti di una forzatura: che tra i cosiddetti stilnovisti gioverebbe piuttosto distinguere che unificare; che il predicato della profondità filosofica, che Contini estende alla scuola, vada limitato invece a un paio di canzoni di Cavalcanti e di Dante; e che tutto il discorso circa l’indistinzione della paternità che diventa nei manoscritti indifferenza alla paternità, sia la proiezione illegittima, sui documenti, di una legittima posizione critica.
Circa il rapporto tra Dante e Petrarca e le idee di Contini intorno a questo rapporto, si citano generalmente i Preliminari a Petrarca (1951). Come ho accennato, tuttavia, sulla questione – un po’ come sulla questione della linea espressionistica nella letteratura italiana – Contini torna più volte nel corso degli anni (e s’intende che nessuna delle due idee è interamente originale: di una linea espressionista aveva già parlato per esempio Elwert; e per l’opposizione Dante-Petrarca non si risale solo a De Sanctis ma al Cinquecento, al Varchi per esempio: cioè, Contini recupera un topos della poetica classicista, ma recuperandolo lo cambia di segno, mette un più là dove i classicisti mettevano un meno). Rileggendo le varie riformulazioni è interessante notare almeno questo:
(1) Che l’opera di Dante, se guardata da una certa prospettiva, risulta essere all’origine di entrambe le linee, quella petrarchesca e quella dantesca: in quanto «lirico stilnovista (…) egli appare l’antenato più prossimo della poesia petrarchesca, e perciò in definitiva responsabile anche di questa decisiva cifra letteraria, non solo italiana»[28]. Anche: perché «nell’ultimo decennio del secolo Dante oltrepassa tali posizioni» gareggiando con Guittone nella poesia morale e dando una declinazione diversa, petrosa, alla sua poesia d’amore. Un’idea analoga Contini aveva argomentato più distesamente nella scheda che introduce Chiaro Davanzati nei Poeti del Duecento:
Il Davanzati, anche dove ne cercò di nuove, percorse strade che non portavano al futuro (…). La struttura irreversibile della grande lirica dantesca, opposta al melodismo trobadorico e siciliano dal libretto a zone intercambiabili, è condizionata da una strenua applicazione ragionativa e da un risentimento linguistico che sono legati, l’una e l’altro, all’esperienza di Guittone. Il nostro va per tutt’altri binari (…). L’altra grande strada lirica, quella che sboccherà in Petrarca, e che rinnova in diversa cultura la metodicità occitanica, intanto abbisogna di un culto formale troppo più energico; e poi le occorre, nel suo istituto duecentesco, il Dolce Stile, un mito nuovo, con (a scopo euristico s’intende) la mediazione linguistica della scolastica e della scienza[29].
(2) Che, proprio come accade con la linea espressionistica, la storia si complica in metastoria, o meglio: l’idea metastorica trova un po’ forzatamente alloggio in una figura storica, quella che oppone appunto Dante e Petrarca. Perché questa opposizione è in realtà soltanto un caso di quella opposizione tra la poetica classica da un lato, che redige «un catalogo chiuso di oggetti selezionati», e crea «un recinto riservato di temi e di parole che soli possono essere usati in poesia», e la «rivoluzione romantica», che, sottolinea Contini «in sostanza è una rivoluzione permanente, se pure accentuata in misura particolare durante quello che fu il romanticismo storico», rivoluzione che estende «il diritto di cittadinanza a tutti gli elementi della realtà» (sono parole tratte dal saggio su Pascoli, del 1955).
(3) E che il punto di vista di Contini sulla questione è più mobile di quanto in genere non si pensi. Come è noto, la polarità tra Dante e Petrarca descritta da Contini è stata giudicata da alcuni come troppo unilaterale. Dove trovare un’indicazione, uno spunto per correggere questa unilateralità? Nello stesso Contini, ma nel Contini venticinquenne del saggio su Michelangelo:
Abbiamo, insomma, due posizioni concorrenti, che fanno il doppio ritmo della lirica di Michelangelo. Storicamente – sta qui il punto più interessante – che cosa diventano queste due posizioni? Diventano due poetiche: la poetica petrarchesca, da una parte; e, dall’altra, la poetica bernesca o della maniera laurenziana o, come usa dire la discendenza danconiana, ‘burlesco-realistica’[30].
Per esemplificare la poetica petrarchesca Contini cita i primi versi di Verdi panni, e cita gli ultimi versi della sestina 22, perché in Petrarca cerca «un vocabolario energico, ma, insieme, un’equa distribuzione di tale energia». Ora, da che parte sta Dante, nella divaricazione tra questo Petrarca e la poetica bernesca? Dalla parte di Petrarca:
Se poi vogliamo ricercar brevemente l’ascendenza dell’allusività petrarchesca, potremo ritrovare esempi più antichi di vocabolario allusivo, poniamo, in Dante; nel Dante delle rime petrose: «S’io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e ferza, / pigliandole anzi terza, / con esse passerei vespero e squille…» (…). Che ne dedurremmo? L’albero genealogico di Petrarca non passa per Dante, o appena, ma essi hanno un antenato comune: sarà la sestina provenzale, la sestina di Arnaut Daniel[31].
Ed ecco qui, anno 1937, una prima documentazione per il dossier relativo al Petrarca ‘petroso’. Prima, perché qualche aggiunta verrà un quarto di secolo più tardi, nella Premessa a un’edizione di Arnaut Daniel, dove Contini osserva anche che, segnate tutte le distinzioni, è poi opportuno ragionare anche sulle convergenze tra Dante e Petrarca: «Quale che sia la sua attualità odierna, Arnaut Daniel è comunque un responsabile necessario del supremo linguaggio poetico italiano, attraverso un aspetto di quella convergenza dantesco-petrarchesca sulla quale sembra ormai opportuno insistere, a evitare che il troppo favoleggiato divorzio renda incomprensibile la formazione della nostra cultura tradizionale»[32]. Insomma, è legittimo concludere che la polarità che Contini instaura (o meglio, che Contini eredita e riformula) tra Dante e Petrarca è una polarità mobile, e vale meno come ipotesi storiografica che come metafora.
Forse un modo per esprimere in sintesi le riserve espresse sin qui è dire che in alcuni dei saggi danteschi di Contini c’è una vocazione alla sistematicità che trovo a volte fuorviante, a volte solo poco interessante. Naturalmente si può capovolgere la questione e dire che ad abbagliarmi, e a non farmeli apprezzare come meritano, è appunto la mia renitenza ai sistemi, la mia vocazione all’antisistematicità. Come che sia, gli studi di Contini che trovo davvero supremi sono quelli in cui la mole delle osservazioni non è ordinata a un unico fine e non mira ad argomentare un’unica tesi: ciò che avviene, ripeto, mirabilmente in Un’interpretazione di Dante, meno in Dante come personaggio-poeta. Oppure sono le letture puntuali: i commenti alle singole poesie di Dante piuttosto che il saggio introduttivo alle Rime; e il commento ‘scolastico’ a Tanto gentile (senza l’appendice strutturalista 1975). E sono infine, e forse soprattutto, le sue sintesi, quando anziché usare il microscopio usa il grandangolo: come la premessa al commento di Sermonti all’Inferno; o gli studi che collocano il Fiore nella storia della letteratura romanza; o la bellissima sezione dedicata a Dante nella Letteratura italiana delle Origini, che contiene soprattutto una quantità impressionante di lavoro e che perciò vale, oltre tutto, come modello di dedizione e di umiltà (da parte di chi avrebbe ovviamente potuto delegare ad altri queste incombenze pratiche: invece Contini non delega, e una rara, forse unica intervista concessa a Giovanni Bonalumi, della TV svizzera, ce lo mostra impegnato appunto nella compilazione del capitolo sul Dante minore: «Una cosa un po’ più onerosa di quella dei contemporanei… L’impresa è piuttosto fastidiosa… È una rogna…»). Ciò che mi ha sempre lasciato stupefatto, in quelle pagine, è il talento che Contini aveva nel coordinare il giudizio puntuale, sopra un testo o un autore, o un loro frammento, e la sintesi storico-letteraria, cioè nel fissare la posizione di quel testo o di quell’autore. È il genere di talento che si dispiega nel modo più evidente nel saggio su Pascoli, o in quello sulla poesia rusticale; ma di questo talento traboccano anche i saggi medievali (su tutti, direi, i cappelli introduttivi ai Poeti del Duecento).
Infine, è normale che a ogni centenario e a ogni comunicazione per un centenario si affacci la domanda intorno alla ‘attualità’ dell’opera del celebrato. Può darsi che la domanda abbia senso in relazione al Contini critico militante e storiografo del Novecento. Non ne ha in relazione al dantista perché, a decenni di distanza, i saggi di Contini restano il meglio che sia stato scritto sulla poesia di Dante. Né è immaginabile che questo meglio venga superato: chi, infatti, potrà avere insieme tanta intelligenza della letteratura e una conoscenza così sicura della tradizione romanza? Se la presenza di Contini nel dibattito dovesse scemare sarà perché, in un contesto sempre più internazionale, i lettori stranieri faticano a comprenderlo; e perché, dopo gli anni della critica centrata sui testi, il fuoco dell’interesse non sembra più stare nella poesia di Dante, nei versi di Dante, ma in ciò che sta intorno a quei versi: la storia, la biografia, i generi, i possibili modelli. Ma, dopo queste giuste esplorazioni, ogni ritorno al testo non potrà non essere anche un ritorno alle pagine di Contini.
[1] L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura P. Leoncini, Milano 2000, p. 87.
[2] B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, a cura di G. Galasso, Milano 1994, p. 130.
[3] G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, pp. 169-99 (a p. 178).
[4] G. Contini, Petrarca e le arti figurative, in Id., Frammenti di filologia romanza, a cura di G. Breschi, 2 volumi, Firenze 2007, I, pp. 519-34 (alle pp. 519-20).
[5] G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1989, pp. 21 e 36.
[6] G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, p. 298.
[7] G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976, p. 20.
[8] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 59.
[9] Contini, Letteratura cit., p. 336.
[10] Contini, Letteratura, pp. 361 e 394.
[11] P. V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Torino 1998, p. 54.
[12] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 198: ma per un giudizio analogo cfr. le pp. 38 e 107, nonché Contini, Letteratura cit., pp. 361 e 394.
[13] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 75.
[14] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 93.
[15] Contini, Un’idea di Dante cit., pp. 153-54.
[16] Contini, Un’idea di Dante cit., pp. 155-56.
[17] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 181.
[18] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 137.
[19] Contini, Un’idea di Dante cit., pp. 59-60.
[20] P. V. Mengaldo, Preliminari al dopo Contini, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino 1991, pp. 159-73 (a p. 166 nota 10).
[21] Contini, Un’idea di Dante cit., pp. 123-24.
[22] L. Spitzer, Critica stilistica e storia del linguaggio, Bari 1954, pp. 148-49.
[23] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 9.
[24] Contini, Preliminari cit., pp. 177-78.
[25] Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, 2 volumi, Milano-Napoli 1960, II, p. 448.
[26] Contini, Un’idea di Dante cit., p. 10.
[27] Contini, Letteratura cit., p. 298.
[28] Contini, Letteratura cit., p. 297.
[29] Poeti del Duecento cit., I, p. 400.
[30] G. Contini, Una lettura su Michelangelo, in Id., Esercizî di lettura, Torino 1974, pp. 242-58 (a p. 252).
[31] Contini, Una lettura cit., p. 253.
[32] G. Contini, Premessa a un’edizione di Arnaut Daniel, in Id., Varianti e altra linguistica cit., pp. 311-17 (a p. 314).