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Di cosa parliamo quando parliamo d’impiattamento

Tutti noi persone intelligenti che mangiamo un po’ come viene, normale in settimana e un po’ meglio il week-end, abbiamo pensato alla fregola culinaria degli ultimi anni – cucinare come si deve, mangiare come si deve, impiattare come si deve, parlare di cibo come si deve – come a un’idiozia, una delle tante che per fortuna rallegrano la società affluente, ma senza distinguere tanto: come non si distingue tra tatuaggio geometrico e tatuaggio floreale, o tra feticisti del piede destro o del piede sinistro. E abbiamo imparato a chiudere le orecchie, a pensare ad altro, quando la mania per il cibo ha cominciato a contaminare il linguaggio producendo schifezze onomastiche tra il lezioso e il pacchiano non solo ai piani alti della ristorazione (quelli della «Dolce ambrosia di foie gras con Aceto Balsamico Tradizionale di Modena extra vecchio 44 anni medaglia d’oro») ma anche a quelli medi, medio-bassi, bassi: le bollicine, il macchiatone, la focaccella del Mulino Bianco, i pestati Barilla, l’articolo determinativo in funzione auratica (da Spaghetti al pesto a Gli spaghetti al pesto), il singolare pro plurale sempre in funzione auratica (da Gli spaghetti al pesto a Lo spaghetto al pesto), e via dicendo.

In La repubblica dei cuochi, Guia Soncini comincia a mettere ordine in questa babilonia, comincia a distinguere, e lo fa con molto spirito seguendo due fili, due modalità di spettacolarizzazione del cibo: il cibo visto in TV, tra La prova del cuoco e Masterchef; e il cibo mangiato nei ristoranti ‘stellati’, là dove la Narrazione impera, e una torta al limone caduta per terra sbriciolandosi diventa una – cito dal menu – «crostatina di limone ma… spaccata». Visto in TV, combattuto in TV, il cibo è un affare per chef narcisi e un po’ cazzari, che citano Ai Weiwei per ‘spiegare’ (sì, spiegare) una spuma di mortadella, e per concorrenti quarantenni che l’autrice capta per caso sul Frecciarossa mentre rievocano i loro cinque minuti di celebrità a Masterchef («Ha fatto il maialino con la senapata di albicocche» è un magnifico inizio di capitolo). Ma le pagine migliori sono quelle, diciamo, autoptiche, quelle in cui la Soncini finisce in un ristorante di lusso e prende appunti, e gli appunti si trasformano in descrizioni intelligenti e battute molto argute (che ci perdono, a isolarle, ma proviamo: «perché se vai in uno stellato è anche un po’ per capire come sarà la tua vita quando non saprai più badare a te stesso»), e vaticini molto sensati: «bambini d’oggi diventeranno adulti che impiattano. D’altra parte sono cresciuti con cartoni in cui i topi ambiscono a fare i cuochi (Ratatouille, 2007), mica gli aviatori (Bianca e Bernie, 1977)».

Che cosa significa questa mania per il cibo, per l’esperienza del cibo – cucinarlo, consumarlo, parlarne? È un riflesso della moderna mania per il corpo, per la cura del corpo? Oppure, al contrario, è solo l’avatar postmoderno dell’antica ghiottoneria? Forse l’una cosa e l’altra, e anche il desiderio – indotto, si capisce – per le buone cose di una volta (l’aceto balsamico che condisce il foie gras è Tradizionale, con la maiuscola), la convivialità perduta, il sogno del ritorno al paesello ma, al contempo, un cosmopolitismo da lettori di «Gente Viaggi» («Il granchio: da Boston a Hokkaido passando per Goro»: cito sempre dal menu dell’Osteria Francescana). Tante cose insieme, si direbbe, anche contraddittorie. Nel tentativo di darsi ragione di quel che vede e sente, la Soncini privilegia invece, mi pare, la chiave della distinzione. Si mangia così, si parla di cibo così, perché si vuole fissare la propria posizione rispetto agli altri, si vuole ribadire il proprio status. È l’idea che ispira giudizi come i seguenti: «Eataly rappresenta l’universo a cui vuoi appartenere, coi suoi cd esposti che saranno sempre di De André e di Bob Dylan, mai di Justin Bieber, e non perché li selezioni qualcuno cui non interessi vendere: perché li seleziona qualcuno che sa che, se sei lì a darti un tono, moriresti piuttosto che farti vedere alla cassa con un cd di Justin Bieber». Oppure: «Coloro che tendono a rappresentarsi come intellettuali – io che scrivo, voi che leggete – vanno pazzi per Bottura […]. Vogliono mangiare lì per la stessa ragione per cui vogliono vestire Prada: per sentirsi più intelligenti». Oppure: «Siamo in tanti e, se lasciamo i nostri biglietti da cento da Bottura invece che da un cuoco di pari fama ma di peggiori letture, è perché ci teniamo a sembrare gente di cultura almeno quanto a soddisfare le nostre papille gustative». Oppure: «Se nessuno cucina più, nessuno però lo rivendica, nessuno se ne vanta, nessuno lo ammette. Non cucinare è pratica comune, ma socialmente inaccettabile».

Qui, nel campo delle motivazioni, mi sembra che la Soncini insieme complichi e semplifichi un po’ troppo la questione. La complica, perché il fatto che l’interesse quasi morboso per il cibo nasconda anche qualcosa che col cibo non c’entra non implica che il cibo non c’entri per niente: dobbiamo essere abbastanza elastici da ammettere che se uno va a fare la spesa da Eataly o va a cena da Bottura può anche non farlo per snobismo, ma solo perché gli piace mangiare bene. E la semplifica, perché usando il passe-partout dello snobismo non dà il giusto rilievo a motivazioni di natura diversa (ho accennato ad alcune) e, cosa più grave, proietta sulla totalità dei consumatori sensibilità e – usiamo il termine tecnico – paturnie di auto-rappresentazione che appartengono soltanto agli intellettuali, e anzi – siamo giusti – alla frangia più insicura e sfigata degli intellettuali: io di intellettuali veri che vanno pazzi per Bottura e adorano vestirsi Prada mica ne conosco tanti, sembrano più dei buzzurri arricchiti…

Quanto allo stigma sociale che graverebbe su chi non cucina («Non cucinare è pratica comune, ma socialmente inaccettabile»), mi pare proprio che le cose stiano a rovescio. Una delle nuove meraviglie della vita, almeno della vita borghese in Occidente, è che gli stigmi sociali non è poi troppo difficile scrollarseli di dosso: e così come si può benissimo pasteggiare soltanto a Sassicaia ascoltando Justin Bieber anziché De Andrè (ma anzi, ma anzi…!), allo stesso modo, se uno (io, per fare un esempio) dichiara di non cucinare mai, di non avere neanche le pentole in casa, si fa subito la nomea di persona interessante, persino del maschio alfa, mica uno di questi poveretti coi coltelli di ceramica. Uncool is the new cool. Sospetto che un ben altro stigma sociale – e qualche manrovescio – avrebbe dovuto sopportare la nonna della Soncini («Mia nonna faceva da mangiare», è la prima frase del libro) se per una settimanetta avesse deciso, poniamo, di non cucinare e di dedicare i suoi pomeriggi al pilates.

Ciò detto, il libretto è molto ben riuscito, nel contenuto e nella forma, e la mia longanimità, la mia proposta di indulgenza plenaria per i foodies, è dovuta anche al fatto che io non ho dovuto sciropparmi, per poi scriverne, ore e ore di Masterchef e visite settimanali alla Boutique du Fromage: facile, così, essere longanimi. No, no, bello. Se Oscar Farinetti è un uomo di mondo, e certo che lo è, mi aspetto di vedere pile di La repubblica dei cuochi alla cassa di tutti gli Eataly d’Italia: perché la varietà delle opinioni conta quasi quanto la varietà dei cibi, no? Se poi ci fosse spazio anche per Mangi chi può di Luca Simonetti, che qualche anno fa spiegò con tutta la chiarezza necessaria di che cosa veramente stiamo parlando, potrei persino diventare cliente.

Guia Soncini, La repubblica dei cuochi, Il Mulino, 8 euro.

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