La controversia sui vaccini è benvenuta, e non soltanto perché evita a molti bolognesi di parlare, per mancanza di alternative, dei maldipancia della sinistra radicale cittadina. È benvenuta perché porta all’attenzione una matassa di problemi che resteranno con noi per molto tempo.
È bene partire sgombrando il campo dalla presunzione che si tratti di un fenomeno di ignoranza da guardare con sussiego. L’ostilità ai vaccini – come l’adesione alle cure naturali, la convinzione che le scie nei cieli siano legate a esperimenti militari o la fede nelle capacità salvifiche di certe diete – si ritrova spesso in genitori mediamente o altamente istruiti, che investono molte più energie della media nel documentarsi sulle proprie posizioni.
Questo rende il fenomeno sia interessante sociologicamente sia difficile da gestire politicamente. È l’effetto di due cause congiunte, che si rafforzano a vicenda.
La prima è che i vaccini – come quasi tutte le misure igieniche ed epidemiologiche – operano principalmente su popolazioni. Il vaccino interviene sulla probabilità che qualcosa avvenga, non è un talismano che protegge ciascuno dei nostri figli singolarmente. Inevitabilmente, come qualunque misura umana, presenta dei rischi, ancorché minimi. Se i genitori si aspettano e pretendono prove che quel singolo vaccino proteggerà proprio loro figlio proprio da quella malattia– e che esso non presenti alcun rischio, anche soltanto meramente potenziale – hanno già vinto la loro battaglia in partenza. Contribuendo tuttavia così a perdere la guerra, perché il vantaggio di non vaccinare i propri figli dipende dal fatto che questi vivano in un ambiente dove tutti gli altri genitori invece lo fanno, riducendo così al minimo i rischi di contagio per i non vaccinati. Salvo il fatto che anche gli altri presto si adeguano. Con particolare velocità quando l’ignavia dei politici regionali e i pregiudizi dei giudici lisciano il pelo a questi atteggiamenti invece di contrastarli.
Il secondo è il processo, che si registra in tutte le società avanzate, di progressivo crollo dell’autorità della conoscenza scientifica e del prestigio professionale. È in corso, e non da pochi anni, una secessione silenziosa dei ceti istruiti da due istituzioni che sembravano essere in precedenza la loro stessa ragione d’essere. Chi rifiuta i vaccini non ignora la conoscenza scientifica, ritiene semplicemente di essere in grado di distinguere da solo tra quello che è «veramente» scientifico e quello che è frutto dell’oscuro agitarsi delle multinazionali. Chi rifiuta i vaccini non ignora le competenze dei medici. Ritiene semplicemente di sapere riconoscere da solo se quello che dicono è parte di una superiore conoscenza professionale oppure del loro appetito finanziario. Col risultato di trasformare le conoscenze scientifiche e la diagnosi professionale in un repertorio dal quale si può estrarre qualcosa serenamente tralasciando tutto il resto. Con l’esito di vedere genitori postare su Facebook allo stesso tempo letteratura contro i vaccini e commenti indignati verso i politici che negano il riscaldamento globale. E’ il trionfo della scienza fai da te e del professionista visto come commesso per il quale il cliente deve sempre avere ragione. Non viviamo forse nel paese del siero Bonifacio, della cura Di Bella, del metodo stamina?
Inutile dire che questo non vuol dire negare che il sempre più stretto intreccio tra finanza e ricerca presenti numerosi problemi. E neanche che la professione medica abbia spesso praticato comportamenti poco conformi al giuramento d’Ippocrate. Vuol dire che certe volte le reazioni posso finire per configurarsi come peggiori rispetto all’offesa iniziale. Che ci piaccia o meno, la scienza è la peggiore forma di conoscenza, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate sinora.