Libri

Il mondo, perfavore, non la visione del mondo

Gli articoli di Gabriele Romagnoli sono una delle ragioni per cui si può leggere Repubblica, perché Romagnoli ha virtù che nei giornalisti non si trovano spesso: scrive molto bene, sa raccontare una storia, è naturalmente spiritoso, cioè non si sforza di esserlo come fanno tanti che sono solo maligni, e nei suoi reportage dall’estero mette sempre qualcosa di personale che li rende unici. Questo, per capirsi, è l’inizio di un suo pezzo di un paio d’anni fa: «Non sono sicuro di ricordarmi Hong Kong. Né di volerlo fare. Ci sono cose che stanno meglio tra le sfumature di una vita, così da poterne dire: “Forse l’ho soltanto sognata”. Ammesso che non sia stato così, alle sei del mattino ero in un noodles bar con l’amico di sempre, il parrucchiere delle star indigeno e un’ex modella di nome Claudia che aveva un problema». Il tono blasé può anche dare fastidio, ma non dura a lungo, perché Romagnoli possiede anche il raro dono dell’autoironia; dal moi haïssable l’attenzione vira verso il parrucchiere delle star e l’ex modella Claudia, si continua a leggere.

Da lettore-ammiratore mi ha dunque fatto piacere la pubblicazione per Feltrinelli di Solo bagaglio a mano. Solo che il libro non è, come mi aspettavo, una raccolta di reportage ma, diciamo, un saggio su ‘i viaggi e il senso della vita’: ramo filosofia, non ramo turismo per persone colte. In realtà, l’inizio è quello di un normale reportage, ed è molto riuscito. Romagnoli è in Corea del Sud, ha saputo che nella città di Naju c’è un tale che si è inventato una strana professione: fa il funerale a chi non è ancora morto. Gli fa la foto, gli fa fare testamento, lo veste, lo chiude in una bara e ce lo lascia dentro per un po’, il tempo necessario a permettere al non-defunto di meditare seriamente sulla sua esistenza; se ne esce cambiati. Romagnoli ci va e fa tutto il trattamento; entra nella bara, si chiude il coperchio, comincia a pensare. È un avvio perfetto, a cui segue però non un’antologia di reportage bensì appunto un compendio della filosofia di vita di Gabriele Romagnoli, declinata attraverso aneddoti, citazioni, aforismi, non tanto nella forma del saggio quanto nella forma di un’amabile conversazione nella quale il lettore-amico viene apostrofato col tu, un po’ come nei manuali di self-help: «Perché non vieni con me? Che cosa te lo impedisce?», oppure: «Conta soltanto quel che ancora può essere. È importante, ricordatene. Non trascrivere o sottolineare: ricorda. Oppure, dimentica. Volta pagina».

La sostanza di questa visione della vita è dichiarata nel titolo Solo bagaglio a mano. È una metafora. Vuol dire che secondo Romagnoli la vita va vissuta non indugiando dentro o intorno alle cose ma passandoci attraverso: non conservare gli oggetti, buttarli via; non ricordare, dimenticare; perdere, non ritrovare; non percorrere il sentiero battuto, inventarsene un altro; non guardare indietro ma avanti; non essere schiavi del superfluo, accontentarsi dell’essenziale; non comprare una casa, affittarla. Insomma: viaggiare leggeri, in quel lungo, affascinante viaggio che è la vita.

Quest’ultima frase non è di Romagnoli, è mia, ma non è peggiore di tante altre che si leggono, con una certa sorpresa, in Solo bagaglio a mano. Questo è infatti un libro in cui si trovano rivelazioni come questa: «Poi un giorno ho incontrato Tony Wheeler, ideatore delle Lonely Planet, le guide di viaggi più diffuse nel mondo, e gli ho sentito dire: “Il più delle volte ho trovato quel che cercavo quando mi sono perso”»; o come questa: «In realtà l’esistenza è quella che viviamo, quella che abbiamo vissuto è la sua storia. Siamo funamboli sulla corda, dobbiamo guardare sempre avanti»; o come questa: «Il senso di colpa tende a infilarsi nel bagaglio e a renderlo di una pesantezza intollerabile, ma va scaricato o si resta bloccati e non si va più avanti. Il viaggio, la vita sono imprevedibili». È il genere di saggezza che si trova nella pagina degli oroscopi, e a renderla meno scontata non bastano né la gragnuola di citazioni middlebrow (manca, per buona sorte, la leggerezza di Calvino, gli altri ci sono tutti, da Gibran, «L’oblio è una forma di libertà», a Mies van der Rohe, «Less is more», a Kavafis, «E se non puoi la vita che desideri…»), né gli accostamenti peregrini tra fatti di cronaca nera – il dirottatore dello United 93 Ziyad Jarrah e Salvatore Parolisi – che a un secondo sguardo c’entrano ben poco l’uno con l’altro. «Chi mai penserebbe all’esistenza di un legame tra un kamikaze arabo e un militare abruzzese? Eppure». Eppure niente.

Superato lo scoglio della forma, che dire del contenuto? Sono d’accordo su tutto, sottoscrivo tutto, Romagnoli è il mio fratello gemello. Non possedere, non fermarsi, non farsi appesantire dalle zavorre, dimenticare. Fare rizoma, non radice. A differenza di Romagnoli, però, non credo che questo sia un progetto di vita molto originale, un progetto che vada illustrato e difeso dalle obiezioni del mondo; il mondo, o almeno quello spicchio di mondo che legge il libro di Romagnoli, la pensa già così. E, a differenza di Romagnoli, non sono sicuro che sia un progetto del tutto salutare. Biblioteche intere – da Lasch a, molto più in basso, Bauman – sono state scritte contro questo tipo di essere umano, con ragioni buone e cattive, ma ragioni che andrebbero meditate e discusse prima di auspicare, imperturbabilmente, la nascita di «una generazione capace di scegliere sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario (incluso ciò che è necessario per il piacere), di non legarsi a nulla, di saper perdere cose e battaglie senza perdersi, di non credere in idee e fedi che le sono state date, preconfezionate, alla nascita, una generazione senza troppo passato né avvenire, ma con una inflessibile attrazione verso il presente, inafferrabile, imprevedibile, disancorata dal suolo e dal tempo».

Disancorarsi dal suolo e dal tempo. Chi non sogna di farlo, passata la metà della vita? Ma a pagina 64 è comunque sorprendente trovare citata una scena di Up in the Air, una scena «fondante per questo testo», senza nemmeno un accenno al fatto che il protagonista di Up in the Air, l’Uomo con lo Zainetto Leggero, è uno stronzo disperato. «Poche cose in vita mia sono durate dieci anni: non una relazione (so far), non una casa, neppure (incredibile) una passione sportiva» (La Repubblica, 24 gennaio 2011). Se Romagnoli, 55 anni, riesce a scrivere una frase del genere senza che questo gli generi anche solo un briciolo d’ansia, ho bisogno di parlargli.

Mentre si amplia lo spazio che le librerie dedicano ai «Libri di viaggio», si nota anche la tendenza ad attribuire a certi Grandi Viaggiatori il nome di Saggi, da leggersi non per capire meglio cos’è successo in Birmania, o che indole hanno gli abitanti del Perù, ma per capire come bisogna vivere la vita: perché se uno ha passato un mese in mezzo ai boscimani o ha fatto a piedi la via della seta avrà senz’altro qualcosa di profondo da rivelare al mondo una volta tornato a casa, perché il contatto con l’Altro sembra dischiudere chissà quali nascoste verità, perché la radice di fahren è la stessa di Erfahrung, eccetera. Commercialmente, è un terno al lotto: basta vedere cos’è successo al brand Tiziano Terzani. Ma i pochi davvero bravi, come Romagnoli, dovrebbero resistere alla tentazione, ed essere aiutati a resistere dai loro editori. Aspetto, da lettore-ammiratore tradito, una bella raccolta di reportage.

Gabriele Romagnoli, Solo bagaglio a mano, Feltrinelli 2015, euro 10.

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