Io sono entrato all’università come professore associato a 31 anni, al cinquanta per cento circa per merito mio. Il senso di colpa che provo per il cinquanta per cento mancante si mitiga un po’ quando mi guardo attorno e vedo docenti che sono, per l’università, più o meno quello che la criptonite è per Superman: il docente asino, il docente matto, il docente che fa da decenni sempre lo stesso (pessimo) corso, il docente che si presenta in aula tre volte e poi manda a far lezione i dottorandi (infinitamente migliori di lui, ma non pagati per insegnare, mentre lui lo è). Tale è (in parte, si capisce) il panorama umano che si contempla nelle università italiane: un dato che andrebbe ricordato ogni volta che si lamenta la scarsità dei finanziamenti, «lo Stato che ci ha abbandonato», l’idiozia delle verifiche ministeriali, le strettoie dell’Anvur; o ogni volta che si vanta l’eccellenza (una parola che si trova con frequenza sorprendente sulle labbra dei mediocri) degli atenei italiani. Gli atenei italiani pagano un gran numero di persone che in qualsiasi azienda privata (in qualsiasi azienda che, a differenza dello Stato, debba rispondere a qualcuno del proprio operato) verrebbero licenziate in tronco.
Che fare? Niente. Il passato è immedicabile, e anche l’immediato futuro. Per il futuro meno immediato si può provare a fare qualcosa, si sta facendo qualcosa. Tre anni fa, il MIUR ha bandito un mega-concorso al termine del quale un numero considerevole di ricercatori o di professori associati, nei vari settori disciplinari, sono stati dichiarati idonei allo scatto di carriera, cioè alla chiamata – rispettivamente – come professori associati o come professori ordinari. Meritavano tutti quanti questa abilitazione? Assurdo pensarlo. Qualcuno la meritava al cento per cento, qualcuno al cinquanta (come me a suo tempo), molti non la meritavano affatto (il docente che va in aula tre volte l’anno, per esempio: che, non insegnando, pubblica un mucchio). Ma al di là del merito, il problema è che gli atenei hanno, come sempre, pochi soldi, e per smaltire (cioè per promuovere) tutti questi abilitati ci vorranno anni (l’abilitazione ne durava quattro, ora ne dura sei: che è già un modo per dire ‘mettetevi comodi’). Questo è un peccato per gli interessati (che spesso meritano, e da anni, la promozione) ma è un peccato soprattutto per (1) chi ha avuto l’abilitazione ma non lavora già nell’università, e ancora di più per (2) quelli che non si sono abilitati perché due o tre anni fa, quando si sono presentate le domande, erano troppo giovani e non avevano abbastanza pubblicazioni (gli toccava concorrere, infatti, con gente di venti, trent’anni più anziana, che aveva pubblicato, com’è logico, molto più di loro: la qualità conta fino a un certo punto).
Il fatto è che le norme ministeriali premiano inevitabilmente gli interni, anche se mediocri, rispetto agli esterni, anche se ottimi. Per assumere gli esterni, infatti, gli atenei devono sborsare uno stipendio intero; se invece promuovono qualcuno che lavora già al loro interno devono sborsare soltanto la differenza (il delta, si dice) tra lo stipendio da ricercatore e quello da associato, o tra quello da associato e quello da ordinario. Perché chiamare qualcuno da fuori, coi pochi soldi che ci sono? Meglio pescare tra gli interni, anche se meno bravi di quelli che stanno fuori. E infatti il motto degli abilitati che non sono già nelle università è «Sì, ho l’idoneità, ma me la posso appendere al muro…». Stiamo parlando di persone che hanno più di trent’anni, che sono al culmine della loro produttività scientifica, che potrebbero ringiovanire molto la senescente università italiana: ma che, in quanto «non incardinati» (cioè non in ruolo nell’università), stanno al fondo della lista. Molti hanno già rinunciato. Molti, spesso i migliori, vanno all’estero.
Questa la situazione. Ora, la perorazione. Io ho meritato al cinquanta per cento il posto che ho. Ma tra questi trentenni o appena quarantenni che stanno a spasso (con o senza abilitazione) ci sono – e parlo per esperienza, potrei fare i nomi – persone che lo meritano al cento per cento. Non c’è oggi, per l’università italiana, problema che sia più urgente di questo (e s’intende che l’università è un pezzo dell’intero: se è vero com’è vero che, come osservava giorni fa Marco Alfieri su Rivista Studio, la questione sociale italiana è soprattutto una questione generazionale). Bisogna assolutamente fare in modo che questi giovani studiosi restino in Italia, bisogna dar loro la possibilità di avere, prestissimo, un’occupazione stabile qui, e bisogna che un buon numero di loro vada a insegnare all’università. Ripeto: un’occupazione stabile, perché i contratti a tempo possono essere tentanti solo per chi non ha altra scelta, mentre l’università (come la scuola) dovrebbe attrarre i bravi, non i disperati. Già ora si respira, in molti dipartimenti italiani, un’aria mefitica, dovuta soprattutto al fatto che l’età media di chi ci insegna è alta, troppo alta: un posto abitato quasi solo da sessantenni non è un posto da cui possano venire molte idee nuove, e neanche molte idee buone. Ora la chiamata en masse degli idonei rischia di rimandare ancora un rinnovamento che è, invece, necessario. È opportuno che il MIUR premi, con più fondi rispetto a quelli già ora disponibili, quegli atenei che assumono docenti idonei che non sono già nei ruoli universitari, o che faciliti in altro modo queste assunzioni. Ed è opportuno che, nel più breve tempo possibile, si bandisca un nuovo esame di abilitazione, severo e selettivo, per dare una possibilità a chi, pur meritandolo, non ha potuto abilitarsi. Perché il rischio non è soltanto che questi giovani vadano all’estero: è anche che, arrivati a trent’anni e vedendo che aria tira, decidano di fare altro, e altro facciano, lasciando l’università del futuro ai più ostinati, che non sono quasi mai i più bravi, e soprattutto a quelli che sono ricchi abbastanza da potersi permettere di vivere per anni in un limbo. È già successo, sta succedendo, ne pagheremo le conseguenze per decenni.