Un poeta ha scritto che il peccato peggiore è quello di fare la cosa giusta per il motivo sbagliato. La sua intuizione è forse il migliore commento per i recenti scioperi della scuola.
Le proteste sembrano riuscite. Alti tassi di adesione allo sciopero, piazze piene, solidarietà vaste, anche se non raramente pelose. E’ possibile, forse probabile, che chi protesta la spunti. Gli articoli più importanti del provvedimento sono stati già «temporaneamente» accantonati e il governo ha già annunciato ascolto e comprensione. Se tutto si fermerà, celebreranno per l’ennesima volta la grande conquista di vivere qualche altro anno di ulteriore triste declino.
Il paradosso è questo. Tra tutte le categorie di lavoratori, gli insegnanti sono tra coloro che hanno i maggiori diritti di protestare. Sarebbero la forma più antica di figura professionale, quella a cui affidiamo i nostri figli, quella che maggiormente contribuisce a formare il tono della vita civile. Per loro, il termine «vocazione» è del tutto appropriato.
Eppure, la loro situazione materiale non potrebbe essere diversa. Spesso giunti all’insegnamento per ripiego, sono pagati poco e gestiti peggio. Vengono reclutati con procedure bizantine, che tutelano tutto salvo le capacità e la motivazione. Le loro carriere sono dominate dalla legge ferrea dall’anzianità. Gli viene concesso qualche magro privilegio – i tre mesi estivi, la non licenziabilità – e gli viene negato il rispetto. Spesso tollerati dagli studenti, sovente disprezzati dalle famiglie, generalmente ignorati dalla società. I tanti bravissimi insegnanti nelle nostre scuole imparano subito che avranno esattamente, al millimetro, lo stesso trattamento della minoranza di loro che vive invece l’insegnamento come una sinecura.
Eppure, di tutto questo quadro desolante non vi era traccia nei cortei di questi giorni. Nei comunicati sindacali, non vengono nemmeno menzionati. Eccetto la vaga foglia di fico della difesa della scuola pubblica, il resto sono rivendicazioni più che conservatrici, reazionarie. Disprezzateci pure, pagateci poco, ma tutti uguale e senza alcuna verifica. Davanti allo spettro dell’accesso per concorso pubblico, sono state riscoperte persino le virtù del precariato. Non è strano che le uniche voci intrise di orgoglio professionale siano quelle di quegli insegnanti, come Olga Rapelli, che hanno scelto di non scioperare?
I provvedimenti governativi meritano molte critiche, e davvero molte cose sarebbero migliorabili. Ma oggi viene da chiedersi qualcosa di più semplice, e quindi di più radicale. Davvero non si può competere al rialzo? Cosa succede a una professione, quando i suoi rappresentati considerano il tirare a campare come l’obiettivo più ambizioso?