Allegoria, 65-66 (2012) – Interviste a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato
La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?
Direi di no, anche perché non saprei bene come riempire la formula ‘scelta di campo’. Mi sembra che siano un po’ passati i tempi delle scelte di campo politico che si riflettevano direttamente sul giudizio letterario, quelle che ispiravano, per intenderci, opinioni del genere: «la valutazione delle opere d’arte antiche o moderne è rigidamente inseparabile dal giudizio e dall’augurio che formuliamo per l’uomo, oggi» (Franco Fortini, Verifica dei poteri, Torino, Einaudi 1989, p. 169). Oppure: «Per esibire subito un chiaro programma, diciamo, e anzi postuliamo, che l’attualità di Dante può verificarsi, ai giorni nostri, in proporzione diretta al suo eventuale realismo» (Edoardo Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze, Sansoni 1966, p. 4). O almeno, sono passati per me. Direi che la valutazione delle opere d’arte antiche o moderne è separabilissima dal giudizio e dall’augurio che formuliamo per l’uomo, oggi. E direi che il realismo di Dante c’entra poco con la sua attualità, e che in fondo nessuna delle due questioni – il realismo di Dante, l’attualità di Dante – è particolarmente interessante, oggi.
Anche le scelte di campo metodologiche mi sembrano molto più esitanti, problematiche, reversibili di quanto fossero un tempo, e anche questo mi sembra un fatto positivo. Nessuna scelta di campo a priori, dunque, cioè ispirata a criteri che stanno al di sopra (la Politica) o al di fuori della letteratura (il Metodo). Ma questo non significa che non ci possano o debbano essere delle «dichiarate parzialità»: per un certo modo di scrivere, per un certo modo di osservare e raccontare le cose. Ma sono le parzialità del critico, anzi, del lettore, riflettono la sua visione del mondo, e sono quelle che – se ben argomentate – rendono interessanti le opinioni che il critico-lettore esprime. Si può, voglio dire, essere parziali nell’eclettismo: servire molte cause (le proprie) e non una sola Causa. I critici che preferisco fanno così.
L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?
(1) Ho l’impressione che questa descrizione della «critica storica» (fatta di «appartenenza» e di «comuni maestri») corrisponda in realtà solo a un segmento, importante ma abbastanza circoscritto, della storia della critica: il segmento durante il quale la critica della letteratura e delle arti contemporanee diventano, sono, parte dei curricula universitari, e quindi diventano, sono, cose che s’insegnano. Soprattutto per questa critica accademica (il cui raggio d’azione naturalmente va molto al di là dell’accademia) si pone il problema della scuola, della comunicazione dei saperi, dei comuni maestri, nonché ovviamente il problema dei metodi che definiscono l’identità della scuola, dei maestri, degli allievi, eccetera. È banale dirlo, ma l’idea stessa di una discendenza maestro-allievo, padre-figlio nel campo della critica sarebbe suonata bizzarra in epoche neanche molto lontane dalla nostra, e suona bizzarra, credo, in altre nazioni, proprio perché vi mancava e vi manca il luogo nel quale questo rapporto di discepolato può svilupparsi.
(2) Come non ho molta simpatia per le scelte di campo e per i metodi, così non mi è particolarmente cara la nozione di ‘scuola’, né quella di ‘maestro’ (il mio maestro è una di quelle espressioni tronfie che per fortuna non credo di avere mai adoperato). Penso che queste etichette abbiano un senso se adoperate in relazione a discipline tecniche: essere allievo del linguista X o del filologo Y ha un significato, perché in quelle discipline il metodo, i rudimenti della professione, si devono imparare, e l’impronta del docente è spesso decisiva (un allievo di Castellani, poniamo, fa e pensa cose differenti da un allievo di Folena: parlando sempre in generale, si capisce). Ma il critico migliore è il critico originale, il critico libero: e come si possono conciliare originalità e libertà con la devozione al Maestro?
(3) Io non sono un critico: mi occupo anche di letteratura contemporanea, ma senza continuità e senza speciale competenza. La mia formazione è di storico della letteratura medievale e di filologo. In questi campi ho avuto degli insegnanti (più d’uno) che hanno fatto del loro meglio per istruirmi, e che potrei chiamare maestri se non avessi già respinto poco fa quest’etichetta così magniloquente. Le mie conoscenze sulla letteratura moderna e contemporanea (di questa si parla quando si parla di ‘critica’: vale la pena esplicitarlo, credo) derivano da letture personali, dal consiglio di amici gentili ed esperti negli anni della mia formazione (Mazzoni, Simonetti, Afribo, tra gli altri) e dalla felice scoperta, quand’ero studente, della critica anglo-americana del Novecento: Wilson, Matthiessen, Auden, Trilling, Wellek, Pritchett, Vidal, Updike. Questi sono stati, se vogliamo, i miei maestri (‘padri’ non potrei dirlo neanche tra apici), morti o morenti (che sono poi quelli che contano di più, direi; anche perché sono quelli che uno si sceglie veramente). Per me sono stati importanti soprattutto perché il loro inglese mi ha aiutato a migliorare il mio italiano: in questo senso li raccomanderei a tutti.
(4) Rimozione o angoscia dell’influenza? Non la farei così complicata. Ci sono studiosi e critici che non ci sono più utili e che non leggiamo più (sono questi i rimossi? Ma se uno rimuove scientemente, a ragion veduta?). E ci sono studiosi e critici che hanno ancora delle cose da insegnarci, e che continuiamo a leggere. Non mi pare che trasportare il termine di ‘rimozione’ dalla psicanalisi alla letteratura, o alla critica letteraria, possa rappresentare un guadagno; e non ho mai veramente capito che cosa abbia detto d’interessante o di nuovo Bloom con l’etichetta «angoscia dell’influenza»: mi pare serva soltanto a riempire una casella nei corsi di teoria della letteratura, perciò la eviterei.
Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?
Credo che su questo punto la mia esperienza sia diversa rispetto a quella degli altri intervistati, perché io passo gran parte del mio tempo a studiare la letteratura del passato remoto mentre, come ho già detto, non studio professionalmente la letteratura contemporanea. Se me ne occupo, lo faccio dietro richiesta di un giornale o di una rivista, che mi paga per farlo: ma se è possibile cerco di scrivere non di poesie o di romanzi (sia perché non ho, in questo campo, le competenze necessarie, sia perché non mi interessano molto) bensì di saggistica, o di questioni relative alla società, alla vita civile. E quando studio o scrivo in maniera meno episodica di temi contemporanei cerco di fare delle inchieste o dei reportages: dunque uso (molto) i libri, ma per parlare d’altro.
Prescindendo dalla mia esperienza, alla domanda «Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati?» risponderei decisamente di no. Una delle cose più penose, nel panorama della cultura universitaria, è proprio la tendenza, comune a molti filologi, di affrontare la letteratura contemporanea con gli stessi strumenti che adoperano per studiare, o per editare, la letteratura premoderna. Ne vengono fuori esercizi eruditi noiosissimi, irrilevanti (la disciplina che si chiama ‘filologia d’autore’ – che entro precisi limiti ha un suo significato e un suo valore – ne è piena). La mia opinione è che le domande che ha senso porre alla letteratura premoderna non siano le stesse che ha senso porre alla letteratura contemporanea. Questo non vuol dire che siano domande completamente diverse, e che questi siano mondi non comunicanti. Ma da un critico mi aspetto una sensibilità e delle competenze diverse rispetto a quelle che ha uno studioso della letteratura antica, o un filologo, perché diversi sono i problemi che deve affrontare (sempre che siano problemi interessanti). Avalle ha detto una volta che «ogni critico, prima di dire la sua, dovrebbe spendere almeno una decina di anni in lavori di ‘bassa macelleria’ filologica senza perdere il tempo in pubblicazioni che, retrospettivamente, si potrebbero anche rivelare inutili […]. Se mi si chiedesse un consiglio sul miglior modo di prepararsi all’attività di critico letterario, risponderei che non c’è niente di meglio che lavorare sulla tradizione manoscritta di un testo antico, possibilmente ricca di testimoni e per di più ‘contaminata’, e di non fare altro per un congruo numero di anni» (Intervista, in Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il Saggiatore 1990, pp. 405-17, alle pp. 406-7). Io non credo che questa sia la ricetta giusta per «prepararsi all’attività di critico letterario». È meglio leggere altro, passare per altre strade, porsi altri problemi.
Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?
Sul rapporto tra la rete e il mercato, non ho cose particolarmente originali da dire. Leggo, come tutti, delle success stories di scrittori fantasy o di giallisti semi-sconosciuti; e seguo un po’ il dibattito su cose come l’evoluzione delle piattaforme di print on demand, il trionfo di Amazon e la triste fine della libreria sotto casa, la conversione alla rete di autori di cassetta come Paulo Coelho. Ma è un rapporto talmente fluido, è un assetto talmente mobile che devo dire che ho quasi smesso di leggere articoli e libri sul tema ‘il web e l’umanesimo’, perché invecchiano subito. Staremo a vedere. Per ora, mi pare che ci sia ancora da spendersi per fare della buona comunicazione culturale sui giornali, in TV e, ovviamente, a scuola. Mi pare che siamo un po’ tutti troppo convinti di essere entrati in un mondo nuovo, con nuove regole, nuovi rischi e nuove opportunità. Mi pare che regole, rischi e opportunità siano ancora per buona parte quelli del mondo di ieri. Va bene riposizionarsi, voglio dire, ma attenti a non lasciare troppo in fretta la posizione vecchia, che merita ancora di essere difesa.
Parlando di «dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo» immagino ci si riferisca alle recensioni online e ai blog culturali, e alla discussione infinita che questi generano. Però non credo che tutto questo abbia delle conseguenze particolari sui «metodi e i linguaggi della critica»: si continuano a scrivere saggi sulla letteratura come si faceva un tempo, e alcuni di questi finiscono online invece che su carta. Che la rete permetta poi a tutti di commentare le opinioni altrui, è un fatto che attiene, diciamo, più alla sociologia (o alla psicanalisi) che alla critica. Non vedo perché il fatto di scrivere per la rete anziché per una rivista debba influenzare il metodo, gli obiettivi e il linguaggio di un critico. Altro, ripeto, sono i liberi commenti sul lavoro del critico da parte dei lettori. Personalmente, li leggo di rado, come leggo di rado i commenti ai video di YouTube o agli articoli di Repubblica. Non credo affatto (con Freud) che Eris, la Contesa, sia la madre di tutte le cose: mi sembra piuttosto la sorella sguaiata del narcisismo.
O forse quello che ho appena detto esprime più il dover essere che l’essere: o, diciamo, la linea che personalmente cerco di seguire e non la linea che lo stato delle cose sembra imporre. Di fatto, la rete ha moltiplicato le occasioni di scrittura, ha messo tanti nella condizione di scrivere tanto: e questo può modificare sia la qualità degli interventi (argomentazione più scorciata, scrittura più corsiva), sia il loro taglio (più aggressività, meno sfumature, ma anche meno accademismi), sia la scelta degli argomenti (non è la stessa cosa parlare ai cento lettori di «Studi novecenteschi» o agli n potenziali invisibili variegati lettori di un sito internet). In particolare, quanto alla scelta degli argomenti, la mia sensazione (e un po’ anche il mio timore) è che proprio la necessaria ricerca di temi attuali, che incontrino l’interesse anche dei non specialisti, possa finire per penalizzare lo studio delle arti e delle letterature premoderne, rendendolo sempre più marginale. Nel blog al quale collaboro un saggio polemico su Calvino ci sta benissimo, perché si presta alla discussione; un saggio anche non troppo erudito su Dante no, perché alla discussione si presta molto meno. E naturalmente meglio di tutti ci sta un saggio derisorio sull’ultimo vincitore del Premio Strega. La cosa un po’ mi preoccupa, ma non credo ci sia molto da fare al riguardo.
Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?
Mi pare che l’emergenza riguardi molti cittadini italiani indipendentemente dalla generazione alla quale appartengono. I ventenni disoccupati e i cinquantenni licenziati se la passano male quanto e più dei trentenni e dei quarantenni precari. In generale, sono piuttosto refrattario a impostare un discorso, un discorso rivendicativo in ispecie, sulla base della comune appartenenza a una generazione (e men che meno alle due generazioni comprese nel compasso dei trenta-quarantenni). Quella che ha travolto la generazione dei trentenni e dei quarantenni, quella di cui i trentenni e i quarantenni soprattutto si preoccupano, e a buon diritto, non è una generica emergenza ma l’emergenza che deriva da un’enorme disoccupazione intellettuale. Questa disoccupazione intellettuale era ampiamente prevista già negli anni Settanta: si sapeva benissimo che ci sarebbe stata. Ma saperlo non è servito a niente soprattutto perché gli italiani (trovo questa tristissima verità in Guido Calogero, Scuola sotto inchiesta, Torino, Einaudi 1957, p. 134) hanno «un’incommensurabile capacità di vivere sulle finzioni». Si tratta dunque di capire come e perché questo problema è andato facendosi sempre più acuto nel corso degli anni; quali sono stati gli errori, le falle all’interno del sistema formativo; quali i responsabili (e in cima a questa lista stanno ovviamente molti dei docenti che oggi lamentano la crisi dell’università e protestano contro i tagli all’istruzione); che fare, oggi, per evitare che il problema si trascini e travolga anche i trentenni e i quarantenni di domani. Riflettere seriamente, senza retorica, sulla scuola, sull’università e sugli sbocchi lavorativi: mi pare questo il compito più urgente che l’emergenza attuale assegna agli intellettuali. Non vedo altre possibili conseguenze sulle mie «scelte critiche».