La battaglia perché ci siano ancora più borse di dottorato è la rara battaglia in cui tutti combattono dalla stessa parte: chi aspira a un dottorato, chi insegna nelle università, chi le amministra. Quanto ai primi, non servono spiegazioni. Quanto ai secondi, le loro ragioni sono molte, alcune nobili (formare dei giovani studiosi che realizzino la loro vocazione e facciano progredire la disciplina, ricevendo in cambio lo stimolo delle loro intelligenze) altre meno nobili (poter contare su collaboratori che aiutano a portare avanti la propria ricerca, che danno una mano negli esami, nei seminari, eccetera). Quanto all’amministrazione, un’università senza una scuola di dottorato è un’università di serie B, o così viene percepita in Italia (negli Stati Uniti esistono invece eccellenti college, con eccellenti docenti, che non hanno corsi di dottorato): una scuola di dottorato garantisce finanziamenti e prestigio.
L’avversario, in questa battaglia, è la fiscalità generale, cioè lo Stato, che paga i dottorati (sia quelli con borsa sia quelli senza borsa: anche questi ultimi, infatti, comportano una spesa, benché più contenuta), e che ha ogni interesse a che il suo investimento dia buoni frutti. Ora, in troppi casi l’investimento non ha dato e non sta dando buoni frutti, soprattutto nel settore umanistico (ma in una situazione simile si trovano in realtà anche le discipline scientifiche non applicative). In troppi casi, il possesso di un titolo di dottorato finisce per rivelarsi non un vantaggio ma un handicap: perché chi lo ottiene si preclude altre possibilità d’impiego; o perché entra nel mondo del lavoro a un’età già avanzata; o perché le competenze e le conoscenze che ha acquisito non sono spendibili se non nella ricerca e nell’insegnamento universitario, e l’una e l’altro sono carriere che solo una piccolissima percentuale degli addottorati potrà intraprendere.
Il costo di questa – diciamo – cattiva amministrazione dei talenti, stavolta, non lo paga soltanto la fiscalità generale (anche): lo pagano soprattutto coloro che hanno studiato seriamente per tre o quattro anni, hanno scritto una tesi, hanno acquisito conoscenze che li hanno resi degli esperti nel loro settore. Che cosa faranno, adesso? Gli unici che non hanno niente da perdere, in tutta la vicenda, sono i docenti universitari: nessuno li chiamerà a rispondere – per esempio – perché hanno selezionato dottorandi immeritevoli, o perché al termine del loro percorso i dottori di ricerca non trovano lavoro né all’università né altrove. I docenti hanno solo vantaggi. Il che dovrebbe far riflettere sul fatto che lo zelo di chi si batte per avere più borse di dottorato è uno zelo speso anche e soprattutto nell’interesse di quelli che una volta si chiamavano – con un termine che sarebbe bene non usare più, perché è sciocco – ‘baroni’.
Che fare, dunque? Nel mio articolo precedente (5 post più sotto) ho insistito sulla questione dei numeri perché i numeri sono fondamentali per decidere che cosa si può o non si può fare. Se i numeri restano quelli attuali o se i numeri crescono – in linea con l’idea del dottorato come ‘terzo livello dell’istruzione universitaria’ – allora occorre introdurre delle modifiche che facilitino l’inserimento dei dottori di ricerca nel mondo del lavoro, e quanto a questo mi pare ci siano due strade.
(1) La prima è cambiare il tipo d’istruzione che s’impartisce durante gli anni del dottorato. In un intervento di qualche anno fa, Anthony Grafton e Jim Grossman avevano prospettato una soluzione del genere: occorre – scrivevano – che gli studenti di PhD in storia considerino una carriera al di fuori dell’accademia non come una soluzione di ripiego ma come uno sbocco coerente coi loro studi, e che quindi l’università non li prepari ad essere (soltanto) dei bravi studiosi nel loro settore ma li metta nelle condizioni di approfittare di altre opportunità che possano aprirsi nel mercato del lavoro:
Un secondo passo, molto più grande, sarebbe quello di riesaminare il tipo di istruzione che offriamo, e trovare il modo di conservare le sue migliori qualità tradizionali aggiungendo nuove opzioni. Se diciamo agli studenti che un PhD in storia apre molte porte, dobbiamo allargare l’offerta formativa per far vedere che diciamo la verità. Se il campo dell’amministrazione pubblica offre delle opportunità, allora gli studenti interessati devono poter seguire corsi in statistica o in economia, e devono essere incoraggiati a farlo. Contabilità, recitazione, graphic design, lingue straniere: studenti che pensano insieme creativamente e pragmaticamente hanno ogni sorta di possibilità nelle nostre università di ricerca. E naturalmente c’è poi il campo, ora in grande espansione, della storia e dellehumanities digitali, e il tipo di competenze richieste per praticarle.
Questa è certamente una soluzione ottimale: fare un dottorato in storia (magari sotto la guida di Grafton) ma avere l’apertura mentale (e il tempo) sufficiente per seguire, per esempio, corsi più professionalizzanti come statistica o economia. Temo però che non sia una soluzione molto realistica. Da un lato perché chi si iscrive a un dottorato in storia vuole, in sostanza, diventare come Anthony Grafton: ed è difficile che, poniamo, al secondo anno di corso, quando la sua tesi sta entrando nel vivo, dismetta quel desiderio per seguire corsi di tecnica bancaria o di informatica. Sennò avrebbe studiato tecnica bancaria o informatica. Dall’altro lato, anche se un bravo dottorando dovesse dimostrare questa apertura mentale e questa tempra, non credo che l’università (mi riferisco adesso a quella italiana), per come è adesso e per come sarà in futuro, possa offrire un simile curriculum multifunzionale. Già è difficile insegnare storia a storia, e già il tempo è poco, figuriamoci contaminare i corsi curriculari con lezioni più ‘pragmatiche’.
Si finirebbe (e si è già finiti in passato) col trasformare l’università in un luogo di conferenze per giornalisti o per grand commis a riposo (altra cosa, meno complicata, è moltiplicare i contatti e le collaborazioni con ambienti nei quali un giovane con preparazione umanistica può andare a lavorare: case editrici, giornali, televisioni, agenzie di comunicazione. Ma questo va fatto piuttosto prima del dottorato che durante il dottorato). Ciò detto, non c’è dubbio che un dottore di ricerca intelligente e preparato possa passare, col necessario apprendistato, dallo studio della filologia o dell’algebra all’amministrazione di un’azienda o al lavoro in un’ambasciata o in giornale: càpita, per fortuna, e non sono certamente ripieghi. Ma la norma non può essere costruita fondandosi su queste eccezioni alla norma.
(2) L’altra strada è conservare il modello d’istruzione tradizionale (un dottorando in paleografia studia paleografia, un dottorando in storia dell’arte studia storia dell’arte), facilitando però l’accesso all’insegnamento medio e superiore da parte dei dottori di ricerca. Uno dei rischi che corrono i dottori di ricerca, oggi, è infatti quello di non poter insegnare a scuola, perché sopravanzati da chi ha insegnato a lungo da precario, o da chi ha fatto il TFA, o dagli altri abilitati. Ma è un doppio spreco: perché lo Stato ha investito molti soldi nella loro formazione; e perché i dottori di ricerca sarebbero, nella larga maggioranza, insegnanti eccellenti.
Nei concorsi a cattedra sarebbe dunque giusto riconoscere a coloro che sono in possesso di dottorato un certo numero di punti (un numero considerevole, che pesi nel computo complessivo), e l’esenzione da tirocini o percorsi professionalizzanti. D’altra parte, nel paese dei mille ‘corridoi riservati’, a me sembrerebbe del tutto ragionevole se ai dottori di ricerca fosse data la possibilità di entrare subito in ruolo nella scuola media e superiore. Giovani sui trent’anni ben preparati, motivati, sarebbero (e in realtà sono già) una presenza vivificante nella scuola. In cambio, ovviamente, il dottorato non dovrebbe essere, come spesso è, una sinecura di tre anni ma un percorso rigoroso, certificato da esami, e al quale si accede attraverso un concorso altrettanto rigoroso.
Questi abbozzi di soluzione presuppongono che il problema non stia nel dottorato in sé ma in ciò che viene dopo il dottorato, e cioè il lavoro, e che le cose si possano migliorare modificando il rapporto tra dottorato e mondo del lavoro. Non credo che sia così. Credo che il dottorato in Italia funzioni male per ragioni sue proprie.
La prima è il localismo. Come si sa, nell’università italiana si possiede qualcuno e si appartiene a qualcuno: altrimenti, semplicemente, non si esiste. Il mio allievo, il mio dottorando. E simmetricamente: il mio relatore, il mio professore. Come ho detto, le chiacchiere sui ‘baroni’ hanno ormai poco senso, perché i baroni – quei quattro o cinque ordinari che una volta decidevano le carriere di tutti nelle varie discipline accademiche – non ci sono quasi più. L’autonomia universitaria, la moltiplicazione delle sedi, l’impoverimento delle sedi storiche hanno molto diminuito il loro potere.
Quello che è rimasto intatto è il nucleo più interno della mentalità feudale: l’omaggio nel senso di ‘essere uomo/donna di’, la devozione a un signore e, di rimando, da parte del signore, l’obbligo nei confronti del vassallo. Scegli un docente che ti segua per la tesi triennale; fai con lui anche la tesi biennale; se ti giudica promettente cercherà di farti vincere una borsa di dottorato; e poi cercherà di farti vincere i concorsi da ricercatore, da associato, da ordinario. Tu sei il suo allievo, lui è il tuo professore, siete una squadra.
Questa logica è responsabile o corresponsabile del fatto che le università italiane sono italiane solo per modo di dire. In realtà è Strapaese. Chi insegna a Milano di solito si è laureato e addottorato a Milano. Chi insegna a Bari di solito si è laureato e addottorato a Bari. Eccetera. E, soprattutto, questo ragionamento fa sì che nell’università italiana non sempre vincano i migliori: conta, un po’, la bravura, non è che non conti per niente; ma più che altro conta l’appartenenza, e se la nostra università bandisce una borsa di dottorato, o un posto di docente, è il nostro candidato che deve vincere.
Ora, da fuori, di tutta questa vicenda, si vede soltanto il male: la nera ingiustizia, il nepotismo che fa prevalere un discreto candidato locale su tanti ottimi candidati che hanno l’unico torto di non aver studiato nella sede che bandisce il concorso. Ma non sono molti quelli che fanno il male di proposito, e il malcostume accademico ha spesso, alla radice, motivazioni che non sono affatto ignobili: con che cuore abbandonare un allievo che ha lavorato con noi per cinque, sette, dieci anni? Se non ci pensa il suo relatore, a fargli fare carriera (una carriera che merita di fare, anche se forse non più di altri giovani studiosi), chi ci penserà? Le porcherie concorsuali sono quasi sempre il frutto di queste ottime intenzioni, che a loro volta rispecchiano sentimenti anche nobili. La cattiva fede è molto rara: altrimenti sarebbe tutto più semplice.
Uno dei problemi è dunque questo. Il rapporto maestro-allievo è fondativo, centrale nella vita dell’università. Ma bisogna cercare di fare in modo che questo rapporto si sviluppi sul piano scientifico e umano senza però travalicare questi confini: il docente non dovrebbe sentirsi obbligato a pensare, oltre che alla formazione culturale dell’allievo, anche alla sua carriera accademica. Bisogna tagliare questo nodo, e il taglio va dato, credo, proprio al livello del dottorato, perché è il dottorato a istradare alla carriera universitaria.
Per ovviare a localismi e nepotismi si è suggerito di introdurre (e alcuni atenei hanno già introdotto) delle norme restrittive: norme tali per cui i dottori di ricerca di una determinata università non possano essere assunti dalla medesima università, o possano esserlo soltanto dopo un congruo numero di anni, e dopo aver avuto un incarico in un’altra università, meglio se straniera.
È una misura ragionevole, non so però quanto praticabile e quanto soddisfacente. Se la scuola di dottorato dell’università X forma in maniera eccellente il dottore di ricerca Y, per quale ragione dovrebbe poi precludersi la possibilità di assumerlo, facendolo reclutare magari dalla pessima università Z, che ha frattanto formato malissimamente il dottore di ricerca W? Al di là della validità o della non validità delle norme restrittive, il problema è sempre quello dell’incentivo ad assumere i migliori, incentivo che può venire soltanto da una libera concorrenza tra atenei che valorizzi non la provenienza del candidato (il mio allievo) ma le sue qualità di ricercatore e di docente. Col che si aprirebbe un tutto diverso discorso sulla valutazione degli atenei, il finanziamento agli atenei virtuosi, e via dicendo.
Il secondo problema è insieme più semplice e più grave del localismo. Quasi tutti i dottorandi che conosco si lamentano perché sono poco seguiti, perché le lezioni del dottorato sono mal organizzate, occasionali e poco coerenti col loro percorso di studi. Per quanto posso vedere, hanno ragione. Si può dare certamente la colpa ai docenti, ma è anche vero che le condizioni nelle quali i docenti lavorano non sono ottimali.
Per ragioni comprensibili, e in parte anche giuste, le università hanno concentrato i loro sforzi sugli studenti della triennale e della biennale: studenti che sono molti, e ai quali si fanno molte (certamente troppe) lezioni. Frattanto, la macchina universitaria si fa sempre più complessa, e i carichi amministrativi sempre più onerosi. Da quest’anno, inoltre, si viene anche valutati per la ricerca scientifica, il che significa che la ricerca scientifica bisogna farla. Al dottorato restano gli scampoli. So che non dovrebbe essere così, ma in molti casi è così. Inoltre, la creazione delle scuole di dottorato d’ateneo – con cui si riuniscono sotto la stessa etichetta indirizzi di studio tra loro molto diversi – ha avuto un effetto scoraggiante: da docenti, ci si trova a far lezione su un argomento che interessa una minoranza dei presenti, mentre gli altri intervengono per buona educazione; da dottorandi, ci si trova in un contesto troppo eterogeneo per risultare davvero formativo.
Se uno vuole specializzarsi in paleografia bisogna che segua molte lezioni di paleografia (magari tenute da un docente diverso da quello di cui ha seguito le lezioni nei cinque anni precedenti): una «Scuola di dottorato in studi storico-filologici» non fa veramente al caso suo. Infine, in molte sedi periferiche i dottorandi (e i docenti) sono pendolari, così che si finisce per adottare una politica del minimo sforzo: noi vi diamo poco, e vi chiediamo poco in cambio, e andiamo avanti così. Tutto questo è deplorevole, e può sollecitare infiniti (e inutili) commenti indignati. Ma le cose, in molti atenei (non in tutti), stanno così, ed è bene saperlo.
In quale direzione andare? Per saperlo, serve prima capire a che cosa serve un dottorato di ricerca in discipline umanistiche. Serve a quello che servono tutti gli altri dottorati o percorsi di specializzazione: a far sì che uno studente già in possesso di un’adeguata preparazione in una branca di studi (Lettere come Medicina come Ingegneria) si specializzi, appunto, in una determinata materia (Epigrafia come Endocrinologia o Scienza dei materiali). La differenza – a tutto svantaggio dei dottorati in discipline umanistiche – è che mentre chi si specializza in Endocrinologia o in Scienza dei materiali può trovare lavoro all’interno dell’università e, soprattutto, fuori dell’università, chi si specializza in Epigrafia non ha quasi chances di trovare un lavoro coerente col suo indirizzo di studi se non all’interno dell’università. La specializzazione in campo umanistico va dunque distinta meglio di quanto si faccia di solito dalla specializzazione in altri campi dello scibile: è un problema diverso, pone problemi diversi.
(Altro sarebbe il discorso se un dottorato in discipline umanistiche fosse da intendere, come qualcuno lo intende, come un ‘laboratorio creativo’ o come una palestra per l’esercizio del ‘senso critico’. La mia opinione è che non possa e soprattutto non debba essere questo: perché si tratta di ‘specializzazioni’ troppo evanescenti, improduttive sul piano dell’occupazione e dunque, di nuovo, non meritevoli di un investimento da parte dello Stato; e tremo, del resto, al pensiero di un’università – o di una scuola – che amministra cose sfuggenti e ancipiti come la creatività o il senso critico. Il dottorato serve soprattutto a formare degli specialisti in polverose discipline che scomparirebbero, con grave danno della cultura se non ci fosse l’università: paleografia, lingue semitiche, storia dell’arte medievale; e anche certamente in nuove discipline più ‘creative’ e aggiornate ai tempi: media studies, letteratura contemporanea, storia dell’arte contemporanea. Ma queste ultime – è sempre la mia opinione – possono essere solo uno spicchio dell’intero, e, direi, non quello qualificante).
Dato tutto ciò che precede, a me pare che i dottorati in discipline umanistiche dovrebbero essere meno numerosi, più concentrati e, si spera, meglio organizzati. Del resto, è questo l’orientamento che ispira il decreto Profumo (8 febbraio 2013, n. 45, G.U. del 6 maggio 2013) che riformula le modalità di istituzione e accreditamento per i corsi di dottorato. Delle perplessità che il decreto solleva mi sono occupato altrove. Qui basterà osservare che le strade per la razionalizzazione sono, in sostanza, due.
La prima è favorire l’istituzione di consorzi tra università: strada non facile (i consorzi esistevano già in passato, e non hanno dato sempre risultati confortanti), non molto economica, e che – come osservavo in quell’articolo – rende molto ardua l’istituzione di scuole di dottorato in discipline ‘minori’ (ma culturalmente centrali) come, sempre a mo’ d’esempio, la paleografia o la filologia romanza.
La seconda è introdurre vincoli per l’accreditamento così stretti da fare in modo che soltanto poche università italiane – o meglio, pochi dipartimenti italiani – abbiano i requisiti tali da potersi permettere di tenere in piedi delle scuole di dottorato. Una distinzione simile, insomma, a quella tra teaching universities e research universities. A differenza di molti colleghi, io non credo che questa distinzione sia necessariamente un male: fare degli ottimi corsi di laurea triennali e biennali e lasciar perdere il dottorato potrebbe essere, nelle sedi periferiche, una buona strategia (negli Stati Uniti, come dicevo, esistono ottimi college in cui insegnano ottimi studiosi).
Solo che la distinzione tra università di insegnamento e università di ricerca sarebbe tutt’altro che pacifica, perché in alcuni settori le università ‘periferiche’ (che negli anni hanno potuto assumere bravi giovani studiosi) hanno dimostrato di saper fare ricerca meglio delle grandi università. Vale a dire che se tra i requisiti per l’istituzione di un dottorato c’è, come si legge nel decreto, «il possesso, da parte dei membri del collegio, di documentati risultati di livello internazionale negli ambiti disciplinari del corso», è ben possibile che questi requisiti li abbiano docenti della piccola università di X, e non li abbiano invece i docenti della grande università di Y.
C’è una terza strada, che non riforma ma rivoluziona. E una piccola rivoluzione è forse necessaria per far sì che il dottorato in discipline umanistiche riacquisti senso. Forse converrebbe ammettere che le discipline umanistiche non possono più avere, oggi, il rilievo anche quantitativo che avevano un tempo. Forse, limitatamente alle discipline umanistiche, converrebbe separare il dottorato dalla formazione e dalla ricerca universitaria, cioè sottrarre i dottorati alle università e organizzare delle scuole di dottorato autonome, scuole con un indirizzo non generico – non «Studi umanistici», che non si danno in natura, ma «Paleografia e Diplomatica» o «Filologia germanica», e tutti gli altri rivoli in cui si scinde il grande fiume delle humanities – che licenzino ogni anno un numero ridotto di dottori di ricerca.
La scuola dottorale non dovrebbe essere una, ma non dovrebbero nemmeno essere cinquanta. E non dovrebbero essere delle reti senza centro, messe su estemporaneamente, in sedi senza biblioteche, coi professori che vanno e (ogni tanto) vengono, e gli studenti che vanno e vengono anche loro. Il dottorato, come e più dell’università, non è una cosa che si fa per corrispondenza: è prima di tutto un luogo in cui si sta, in cui si vive. E potrebbero dunque essere grandi scuole dottorali ‘miste’, un po’ come la Normale, da collocare in grandi città con grandi biblioteche e spazi adeguati per gli alloggi e gli studi (diciamo Milano Roma Napoli); o potrebbero essere scuole dottorali più piccole e settoriali (diciamo paleografia a Padova e Napoli, storia medievale a Torino e Roma, filologia romanza a Firenze e Milano, eccetera). Per evitare il formarsi di baronie, il personale docente potrebbe ruotare, venendo distaccato nella nuova struttura per lo spazio di un triennio.
Vantaggi: si metterebbe un freno al nepotismo e al localismo; si permetterebbe ai dottorandi di vivere insieme, di scambiarsi opinioni (mentre oggi il dottorato è spesso un esercizio di solipsismo), e anche di vedere una fetta di mondo (e di accademia) un po’ più grande di quella che vedono di solito. Dal canto loro, i dipartimenti umanistici potrebbero concentrarsi meglio sull’insegnamento di base, il che non vorrebbe dire, naturalmente, rinunciare alla ricerca: vorrebbe dire fare in modo che gli studenti imparino a farla bene negli anni della formazione, per la tesi biennale e triennale.
Del resto, non era così in passato, prima che una trentina d’anni fa venisse introdotto il dottorato? E la qualità di un dipartimento verrebbe misurata, con qualche oggettività, in base al numero di suoi allievi che vincono il concorso per le scuole dottorali: che a questo punto sarebbe un concorso nazionale, e non la cosa assurdamente aleatoria – a volte seria a volte no, a volte ‘aperta’ a volte no – che è adesso. Gli stessi dipartimenti potrebbero poi investire le risorse così liberate nell’organizzazione di corsi di specializzazione (master) che siano più brevi e più professionalizzanti del dottorato. Svantaggi: nessuno, credo, né per gli studenti né per le università; qualcuno, senz’altro, per i docenti dei dipartimenti umanistici, che perderebbero un po’ di potere. Non sarebbe grave.