Antonio Rezza e Flavia Mastrella non fanno soltanto ridere, naturalmente. Ma fanno anche ridere, e saper fare anche ridere è, trovo, una delle qualità più preziose che un artista può avere, anzi che un essere umano può avere, perciò li metto nella serie Cose che fanno ridere. Inoltre, fanno ridere in un modo e con ingredienti diversi da quelli usati da tutti gli artisti-attori-performer che conosco. Per chi non sapesse niente di loro, fanno ridere – per esempio – in questo modo qua:
http://www.youtube.com/watch?v=JUAqrAl2Exo
Questo è un pezzo abbastanza rappresentativo sia per quello che c’è sia per quello che non c’è. Ci sono il corpo e la voce di Rezza: le parole non avrebbero lo stesso effetto se non uscissero da quel corpo torto, prosciugato; e se a pronunciarle non fossero le voci che Rezza ‘fa’ con la sua voce. E c’è l’habitat di luce, impalcatura e tessuto costruito da Flavia Mastrella. E c’è, per così dire, un gigantesco gioco di parole, un gioco di parole totale in quanto non si limita al suono delle parole («… depony a suo favore…») ma usa le parole (camicia, carrozza, cavalli) come una specie di combustibile per la produzione di surrealtà. Questa è la ricetta-base (per le variazioni potete vedere i tanti filmati caricati su YouTube). Quello che di solito non c’è, nei testi, è invece precisamente qualsiasi richiamo o allusione a quelle che potremmo chiamare «le cose che si vedono». I Fatti, gli Eventi, la Cronaca, l’Oggi su cui si struggono gli artisti impegnati non li riguarda. «Nei temi disdegniamo tutto ciò che richiami il contingente. I nostri eroi non mangiano, non lavorano, non hanno posizione sociale. Sono lì per sbaglio» (La noia incarnita. Il teatro involontario di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, a cura di Rossella Bonito Oliva, Firenze, Barbès Editore 2012, p. 41).
Un’intervista ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella è un fallimento non perché Rezza e Mastrella non siano gentili o non dicano cose interessanti: sono gentili, dicono cose interessanti. È un fallimento perché uno vorrebbe parlare dei loro spettacoli, saperne di più, ma tutte le domande intorno ai loro spettacoli sembrano o troppo dirette («cosa avete voluto dire?») o sciocche («viene prima il testo o la scenografia?»), e non è che loro due aiutino tanto. Non aiuta neanche il fatto che – tutti e due ma soprattutto Rezza – vanno velocissimo e saltano da un argomento all’altro, da un discorso all’altro senza chiuderne nessuno. Ci vorrebbe un intervistatore esperto che riesca a richiamarli all’ordine, che li costringa a non divagare; io non ci riesco.
Chiacchieriamo per un paio d’ore nel caffè che sta sulla terrazza della Rinascente a Firenze, all’indomani della prima fiorentina del loro nuovo spettacolo, Fratto X. Tutto bene, teatro pieno. Rezza poi è contento perché per la prima volta una fan ha tirato un reggiseno sul palco.
Non fate politica, non vi indignate, non denunciate niente di niente…
Rezza. Io ho sempre avuto una totale avversione per la politica del compromesso, già da ragazzino. Non voto dal 1998. E Flavia da prima. E a teatro noi non vogliamo né provocare né tutelare né risolvere né dare risposte. Non ci interessa il teatro impegnato, il teatro civile. Non c’interessa la gente che sta male, altrimenti staremmo lì ad aiutarla. Se hai l’ossessione dell’aiutare, aiuta; ma col teatro sociale non aiuti nessuno, perciò è meglio evitarlo.
Vedete teatro? Leggete teatro?
Rezza. Io a teatro ci vado pochissimo. E quello che vedo/sento in giro non mi piace tanto. Non mi piace che il teatro venga invaso da quelli che non ne fanno una questione di urgenza. E non mi piace la narrazione, quella in cui l’autore ti prende per mano e ti dà la sua visione del mondo… Leggere non leggo niente. Non ho quasi mai letto niente, mai letto una riga di Beckett, mai letto una riga di Ionesco. Di Artaud un paio di pagine. È bello, è chiaramente bello: per cui per il resto mi fido. I libri belli non vanno letti, bisogna fidarsi. Ci siamo divisi i compiti, e quella che legge è Flavia.
Flavia. Quella che legge sono io. Ho cominciato da piccola e non ho mai smesso. In casa ad Anzio avevo una grande biblioteca, e dato che mi facevano uscire poco leggevo. E ancora leggo.
Di quello che c’è in giro oggi cosa vi piace? Chi vi piace?
Rezza. I morti, tantissimi morti.
Mastrella. Recentemente un Satyricon che ho visto al teatro del Vascello, quattro ore [ndr: si tratta di Satyricon. Una visione contemporanea, di Massimo Verdastro]. Ma poi soprattutto arte contemporanea, video art, vado ad Art Basel e trovo sempre qualcuno diverso che mi piace; ma più che altro amo i Lettristi e i Fluxus.
Tutto qui?
Rezza. Abbiamo comprato due videoproiettori. Così ogni tanto vediamo dei vecchi film, grandi. Un mucchio di registi morti: per esempio Chabrol, Kubrick. E Carmelo Bene. Però non quello degli ultimi anni, quello che ormai era solo voce, quello delle commemorazioni televisive. Molti conoscono Bene non per il suo teatro ma per le sue due apparizioni al Costanzo Show: alla fine anche lui è caduto nella trappola del dire a scapito del fare.
Mastrella. E anche qualcuno vivo. Spike Lee, per esempio, o Kim Ki-duk, Loach, Fassbinder (che è immortale), Herzog, Lee Chang-dong.
Come vi siete conosciuti?
Mastrella. Nel Novecento. Ero tornata da poco dall’India. Dai 17 ai 28 anni ho viaggiato e basta, e ho fatto dei lavori per pagarmi i viaggi. Non è che mi interessasse il teatro. Mi piaceva disegnare, disegnavo con qualsiasi cosa, organizzavo mostre, progettavo allestimenti, facevo sculture al neon, e insomma ero sempre in azione. Poi ho visto uno spettacolo di Antonio e mi sono accorta che la fisicità dei corpi che disegnavo era molto simile alla sua. Quando l’ho visto ho pensato di aver trovato il mio corpo ideale.
Rezza. Era il 1987, stavamo (Massimo Camilli, Angelo Fratini ed io) facendo una mostra dal titolo I visigoti a Nettuno, un esperimento sulle facce, sulla deformazione delle facce, sulla mia faccia in particolare. Ho chiesto a Flavia di aiutarci e lei ha costruito dei contesti, ha inventato degli spazi attorno alle fotografie. La luna è un esempio. È Flavia ad averla intitolata così, è lei che ha saputo vedere nella mia faccia la faccia della luna. È stato il nostro primo lavoro insieme, sì, ventisei anni fa, lo abbiamo portato nelle gallerie d’arte di Roma. Ad aiutarci, all’inizio, è stato soprattutto Giovanni Semerano, che era il presidente dell’Unione Monarchica Italiana. Ci segnalava ai giornali, alle TV locali. Voleva farci diventare baronetti, come i Beatles… È a lui che dobbiamo il primo vero articolo su di noi, sul Tempo, sul nostro primo spettacolo alla galleria Il Fotogramma, che adesso non c’è più.
Dopodiché, tra fine Ottanta e inizio Novanta, hanno fatto un po’ di tutto: mostre d’arte, centri sociali, arci-gay. La scena era vitale, c’era interesse, venivano i free-lance a scrivere articoli su di loro. Per un po’ lavorano anche allo Zelig di Milano, vicino a Paolo Rossi, Albanese. Li vede molta gente. Poi qualcosa si rompe, vogliono farli diventare dei comici ‘alla Zelig’, non li chiamano più. Nel 1990-1991 fanno il loro primo film, «Suppietij», e gli anni Novanta sono pieni di cose: spettacoli a teatro, libri, esperimenti in TV.
Mastrella. C’erano questi festival del cinema indipendente: Bellaria, Torino, Pesaro, dove facevano delle retrospettive illuminanti, mi ricordo giornate intere a vedere film belli. Vincevamo spesso, e i soldi che guadagnavamo li investivamo per realizzare cose nuove, per comprare attrezzatura… Nel 1996 giriamo Escoriandoli.
«Escoriandoli» si trova tutto su YouTube. Per me contiene alcune delle cose più belle inventate da Rezza-Mastrella, sia per le cose che si vedono (certi bellissimi interni ospedalieri, certe immense cucine con le padelle che pendono dal soffitto) sia per le situazioni e i dialoghi (la casa di cura, per esempio: http://www.youtube.com/watch?v=avT2gn6ngg4). Come andò la lavorazione?
Mastrella. Ah, bello lavorare con trenta persone, bellissimo. All’inizio abbiamo faticato anche un po’ perché il set è una guerra, eravamo giovani, non ci conoscevano. Avevamo disegnato lo storyboard, per lavorare poi solo sui particolari, è stato il film più scritto di tutta la nostra carriera, una struttura solida. Non ho mai potuto accettare il fatto che dopo un risultato cosi bello… non ci abbiano più chiamato a fare film.
Rezza. Sì, bello fare Escoriandoli. Il produttore ci ha chiesto se volevamo lavorare con le attrici-attrici (Golino, Ferrari eccetera). Abbiamo detto di sì perché non siamo razzisti. Oggi sarebbe impossibile fare un film del genere. In Italia spesso, ti trovi a parlare con produttori che, semplicemente, non capiscono, sono troppo impegnati a pippare. Che gli parli a fare? E dallo Stato non vogliamo farci finanziare. Non vogliamo la tranquillità parificata del Ministero che addormenta.
Meglio poveri e virtuosi?
Rezza. Meglio ricchi e indipendenti. Per ora abbiamo solo l’indipendenza ma la ricchezza è in arrivo…
Nel 2001 fanno «Delitto sul Po», che però non esce nelle sale. Smettono di fare cinema. Cos’è successo?
Mastrella Negli anni Novanta i registi italiani cominciano a usare il digitale: penso a Daniele Gaglianone. Era Dogma ante litteram. Nel Duemila finisce l’epoca della libertà digitale e comincia la tirannia della tecnologia digitale, tutti a studiare le istruzioni: il mezzo dà a tutti l’illusione di poter fare qualcosa. Dal 2001 in Italia si producono quasi solodocumentari; la sperimentazione che facciamo noi viene ignorata.
Rezza. Alla fine degli anni Novanta cominciamo ad avere difficoltà a trovare i teatri. Ci chiamano in TV. Ci chiedono otto corti, ce ne comprano quattro, ne mandano in onda due. Due anni dopo facciamo Troppolitani su RaiTre. Dopodiché non ci chiamano per dodici anni.
Come funziona materialmente una vostra tournée? Voglio dire, c’è qualcuno che vi aiuta, che vi porta il materiale?
Mastrella. Ah, col tempo abbiamo fatto grandi progressi… All’inizio viaggiavamo con una Renault 4. Poi con una Opel Kadett. E gli allestimenti teatrali erano calibrati sulla macchina che avevamo in quel momento: usavamo solo quello che ci stava nella macchina. Poi abbiamo preso un furgoncino. Guidava sempre Antonio. Adesso per gli spostamenti ci sono dei collaboratori che ci danno una mano. Comunque, quando costruisco gli habitat penso sempre al fatto che se un giorno rimaniamo da soli dobbiamo poter contare sulle nostre forze, perciò tutto quanto dev’essere abbastanza leggero. Anche perché di solito quando siamo in tournée non portiamo solo l’ultimo spettacolo: portiamo tutto.
Dopo 25 anni li conoscono in tanti ma non in tantissimi. E invece sarebbe bello, giusto e salutare che li conoscessero tutti. O magari no, c’è un limite, e cose del genere non possono mai veramente diventare mainstream. Linus ha invitato un paio di volte Rezza a «Deejay chiama Italia» (solo che poi i fans di Rezza hanno commentato sul blog della radio che Linus non si deve permettere di contaminare il genio di Rezza con le chiacchiere della radio commerciale: i fans possono essere molesti). E adesso c’è stata la striscia settimanale a «Neripoppins» con Neri Marcorè. Dato che il pubblico che potete raggiungere non è infinito, dato che non potete immaginarvi a «Buona domenica», cosa vorreste più di quello che avete, cioè cosa vorreste fare in futuro?
Rezza. Stiamo passando alla storia. Vorremmo far uscire i nostri film: abbiamo già mucchi di girato che con un po’ di sforzo e qualche soldo potrebbero diventare film. E ci piacerebbe andare all’estero con tutto tradotto: siamo stati in Spagna e in Francia. Ma vorremmo andare anche fuori dall’Europa. Credo che rispetto ai vivi ci siamo persi il pubblico dei morti e di quelli che nasceranno dopo di noi. Chiunque è vivo è di nicchia se si esibisce solo per quei quattro vivi che saranno morti. Noi saremo per quelli che verranno dopo. Privilegi dell’immensità.