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Arrivato a quarant’anni vedi diventare ministri i tuoi coetanei, un paio li conosci anche, li hai sul cellulare o nella posta elettronica, ci hai cenato assieme qualche volta, sono come te, e per questo disperi.
La mattina in tv c’è un talk show in cui si parla di politica, e tutti i maschi presenti hanno anche loro intorno a quarant’anni, portano i capelli a spazzola e hanno occhiali rotondi con la montatura spessa, uno somiglia a tal punto a Corrado Guzzanti e ha un modo di atteggiarsi così artefatto da sembrare un imitatore di Corrado Guzzanti, o un personaggio di Corrado Guzzanti, invece no. Nello studio ci sono dei giornalisti e dei parlamentari, ma sono indistinguibili perché dicono le stesse cose più o meno con lo stesso tono. Per chi si ricorda di Tribuna politica, o per chi vede le televisioni straniere, è una strana situazione: non ci sono persone pagate per domandare e persone pagate per rispondere, gente che non sa e gente che sa, è tutto soltanto un libero scambio d’opinioni tra persone che sanno esattamente le stesse cose, cioè le stesse parole che stanno intorno alle cose, che potrebbero scambiarsi le parti e di fatto se le scambiano, il parlamento è pieno di ex giornalisti. In un’ora di programma non imparo niente che non sapessi già un’ora prima. Giro su Deejay TV, e il profilo intellettuale di Linus e Nicola Savino mi appare (nel senso che è) infinitamente superiore a quello dei parlamentari-giornalisti che ho appena ascoltato. È possibile, è probabile che gli attuali meccanismi di selezione finiscano per destinare alle professioni della sfera pubblica (politica, giornalismo) le persone più stupide.
«La società moderna, nella sua disperata incapacità di formulare giudizi, è destinata a prendere ogni individuo per ciò che egli stesso si considera e si professa e a giudicarlo su questa base. Una straordinaria fiducia in se stessi e l’esibizione di questa fiducia susciterà perciò fiducia negli altri; la pretesa di essere un genio desterà negli altri la convinzione di trovarsi di fronte a un genio. Si tratta solo della degenerazione di una vecchia e provata regola di ogni buona società, secondo la quale tutti devono essere capaci di mostrare ciò che sono e di presentarsi nella giusta luce. La degenerazione avviene quando il ruolo sociale diventa, per così dire, arbitrario, quando cioè è completamente staccato dalla sostanza umana effettiva, quando un ruolo svolto con coerenza viene accettato acriticamente come la sostanza stessa. In una simile atmosfera diviene possibile ogni genere di frode» (Hannah Arendt, parlando di Hitler).
Così giovedì sera sono andato a un meet up dell’M5S all’Hotel Adige di Trento. Si scelgono i candidati alle elezioni provinciali di domenica, e i cinque candidati sul palco si presentano e rispondono alle domande degli altri membri dell’M5S, una sessantina di persone un po’ di tutte le età, due terzi uomini un terzo donne. I candidati sono un tipografo, un laureato in biologia, un direttore del personale, un’insegnante; il quinto non ho capito che mestiere facesse. È gente che, lo ripetono tutti, non ha mai fatto politica, il Leitmotiv è che «mai mi sarei immaginato, due anni fa, di trovarmi qui a parlare davanti a una platea di decine di persone, a candidarmi, addirittura. Ma…». Ma cosa? Nessuna vera vocazione politica (esistono vocazioni politiche?). Ma «adesso abbiamo veramente toccato il fondo, e ho sentito che dovevo darmi da fare, impegnarmi anch’io», e il M5S, per la prima volta in tanti anni, ha dato a molti l’impressione che questo impegno possa servire a qualcosa, portare a qualcosa: deboli vocazioni politiche si sono rinvigorite perché il M5S ha cominciato a esistere. E poi ovviamente si intravedono ragioni personali più intime, e anche semplicemente il caso: uno è passato da un lavoro full time a un lavoro part time e si è detto che il tempo libero poteva spenderlo in qualcosa di utile; a un altro è morto un famigliare, e questa scossa lo ha cambiato, gli ha fatto prendere delle decisioni: «un giorno vorrò dire che anch’io ho provato a fare qualcosa».
Per chi ha partecipato ai meet up del movimento durante l’ultimo anno questo è un momento strano. I candidati sul palco erano, fino a ieri, ‘normali’ membri dell’M5S, e presto torneranno ad esserlo. Alcuni non volevano candidarsi, sono stati pregati di farlo e ora – nella sala risuona tre o quattro volte questa frase così urtante – «ci mettono la faccia», né rassegnati né entusiasti. Nei meet up si è discusso di tutto, prima e dopo le elezioni, e dai meet up sono nati i gruppi di lavoro (GDL) sui temi fondamentali: sanità, istruzione, trasporti, lavoro, energia eccetera. Gli iscritti ai GDL hanno studiato, hanno parlato, hanno scritto. I candidati hanno studiato i dossier preparati dai GDL e adesso rispondono alle domande dei loro amici-colleghi. Naturalmente questa è Trento, non è Roma: i numeri sono piccoli, tutti conoscono tutti, gli eventuali dissenzienti se ne sono già andati mesi fa, chi pone le domande lo fa più per allenare il candidato che per metterlo in difficoltà. Perciò tutte le domande sono domande gentili. Ma quasi nessuna è evasiva, quasi tutte sollevano problemi concreti, alcuni molto specifici: che fare coi 1700 esuberi che la provincia non sembra aver modo né intenzione di riassorbire? Che fare per i disabili, che le aziende trentine in crisi si rifiutano di assumere, preferendo pagare le penali? Che fare a proposito del minacciato tunnel del Brennero.
Le risposte mescolano idee-guida dell’M5S nazionale, osservazioni intelligenti, osservazioni di puro buon senso, opinioni disinformate, sciocchezze. È la miscela usuale, in politica, ed è una miscela comprensibile, tanto le cose sono complicate e tanto stretti i margini di manovra. La risposta sensata ai tre quarti delle domande sarebbe, come è sempre, «non so, bisognerebbe pensarci bene». Ma non si può. Del resto, nessuno chiede a nessuno la formula magica, nessuno vuole i dettagli, stasera: è più una terapia di gruppo, un farsi coraggio per le elezioni di domenica, che probabilmente non andranno bene. Ci si fa forza con gli applausi: si applaudono – troppo – sia le risposte sia le domande.
E dunque: reddito di cittadinanza, eliminazione dei privilegi per i dirigenti pubblici, eliminazione dei privilegi della curia, che in Trentino è ultrapotente e ultraricca, taglio dei contributi alle aziende, taglio delle pensioni d’oro, abolizione dell’IVA, riduzione dell’IRPEF, rifiuti zero, salvaguardia del territorio, stop alla cementificazione, sostegno alle famiglie, alleggerimento della burocrazia provinciale, finanziamenti alla scuola, trasporto pubblico gratuito (ma anche: investimenti nel trasporto pubblico), gestione no profit degli acquedotti (ma anche: investimenti negli acquedotti). E poi parecchie idee semplificate in slogan: trasparenza, meritocrazia, referendum su qualsiasi cosa, andare contro le cricche. E anche un venti venticinque percento di slogan semplificati al punto da perdere il contatto con la realtà, da diventare solo parole dette a vanvera: far conoscere il Trentino nel mondo, finanziare la ricerca solo se serve ai giovani e non ai baroni…
Sul muro, un orologio digitale misura il tempo: cinque minuti per la presentazione, un minuto per porre la domanda, un minuto per la risposta. Tutti rispettano i tempi: se qualcuno non li rispetta, se qualcuno sfora di più di dieci secondi viene richiamato in modo, diciamo, cortesemente fermo da un signore dall’aria bonaria, uno dei pionieri del movimento che è anche uno degli organizzatori della serata. «Posso aggiungere solo una considerazione?», chiede uno del pubblico dopo la risposta di un candidato. «No, mi spiace, non si può, il prossimo», taglia corto il signore bonario. E anche lui prende un applauso.
Dato che non è più il tempo della discussione ma è il tempo dell’autocoscienza, dell’affermazione d’identità, rigidità e semplificazione sono da mettere nel conto. Nessuno sembra essere disposto a considerare l’ipotesi che Stefano Rodotà possa avere torto su qualcosa; o che i «beni comuni» siano un’etichetta senza senso; o che l’«acqua privata», se funziona e costa poco, possa essere preferibile all’«acqua pubblica»; o che la nostra costituzione non sia, dopotutto, «la più bella del mondo», o che anche questa etichetta non abbia senso; o che, in generale, la democrazia diretta, «perché uno vale uno», possa non essere la forma di governo migliore, sia per una nazione che ha sessanta milioni di abitanti sia per una provincia che ne ha cinquecentomila. Rigidità e semplificazione sono da mettere nel conto. Alla fine il volontario più volontario di tutti, quello che gira col camper a sue spese per fare campagna elettorale per il movimento, e che sempre a sue spese ha affittato la sala dell’albergo, dice che «noi siamo come gli antichi romani, che formavano una testuggine per abbattere le porte della cittadella nemica», e l’assemblea si scioglie.
Nelle chiacchiere che seguono – sono le undici di sera di un giorno feriale, tutti l’indomani lavorano – il lamento che sento più spesso da parte dei membri dell’M5S più informati è il lamento sul modo in cui TV e giornali trattano l’M5S: il sarcasmo, le vere e proprie falsità, il puro odio che trapela dai servizi Rai e Mediaset e dalle cronache e dagli editoriali del Corriere e di Repubblica. Io sono d’accordo, sono anch’io sconcertato, e in realtà sono venuto all’Hotel Adige soprattutto per questo, anche se non ho votato e probabilmente non voterò mai l’M5S: per il modo vergognoso in cui i media, e in particolare i giornali, e in particolare Repubblica, sta trattando l’M5S (Libero e Il Giornale non contano, non sorprendono, Repubblica un po’ sì), per la malevolenza a priori, l’indisponibilità a capire, l’incapacità di distinguere, per i titoli scaraventati contro l’M5S come se l’M5S fosse il Nemico, mentre bastava venire all’Hotel Adige per capire che la vera colpa dei membri dell’M5S è la naïveté: non voler capire, non poter capire – per impreparazione, improvvisazione, scriteriato idealismo – che le cose sono molto più complicate di come suonano dal blog di Beppe Grillo. Ma la gran parte di coloro che hanno fatto politica in questi anni aveva ed ha colpe più gravi, difetti più gravi. Sul palco della sala Rubino dell’Hotel Adige io ho visto cinque persone perbene, cinque persone prive di quella «straordinaria fiducia in se stessi» (Arendt) che hanno invece, immotivatamente, persone come Berlusconi o Renzi (e sì, anche Grillo). E nessuno era un genio, ma nessuno neanche credeva di esserlo. E gli altri sessanta in platea erano più o meno così. Non voglio drammatizzare né farla più grossa di com’è, ma a me pare che rifiutarsi di vedere tutto questo, rifiutarsi di cercare il buono che si nasconde nella confusione, confusione che pure c’è, sia, da parte di chi lavora in TV e nei giornali, qualcosa di molto simile a un tradimento.