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Il costo delle riviste scientifiche è diventato insostenibile a causa delle speculazioni degli editori. Internet e l’open access possono risolvere il problema. Una conversazione con Juan Carlos De Martin.
Io mi occupo di Open Access solo per legittima difesa: fino a un paio d’anni fa non sapevo nemmeno che cosa fosse.
Poi nella mia università mi hanno chiesto di occuparmi della biblioteca, e ho scoperto quanto assurdamente cari siano gli abbonamenti ad alcune riviste scientifiche, sia nel campo delle scienze dure (fisica, matematica, biologia eccetera) sia nel campo delle scienze umane e sociali (storia, filosofia, sociologia, economia eccetera). Cari, certamente: si parla di migliaia di euro per riviste che escono due-tre volte l’anno. E dove sta l’assurdità? L’assurdità sta (1) nel fatto che queste riviste pubblicano articoli scritti da ricercatori universitari i cui stipendi vengono pagati, per lo più, da istituzioni pubbliche (cioè dai contribuenti); (2) nel fatto che gli editori che pubblicano queste riviste non pagano gli articoli che vi vengono pubblicati; e (3) nel fatto che le stesse istituzioni pubbliche che pagano gli stipendi e la ricerca dei loro impiegati comprano poi a carissimo prezzo quelle riviste. Insomma, l’università paga due volte, e tantissimo. E gli editori, con minime spese di gestione, si tengono tutto il guadagno e, sfruttando una posizione di quasi-monopolio, possono aumentare i prezzi a loro piacimento: quale università può rinunciare all’abbonamento a Nature, o a Science? Nessuna. Ergo: se i prezzi aumentano, non c’è scelta se non pagare, naturalmente tagliando su altre voci di spesa: acquisto di riviste di altri settori, acquisto di libri, reclutamento di giovani studiosi eccetera. Un quadro chiaro della situazione si trova in questo articolo di George Monbiot.
Da parte mia, ho cercato più volte di richiamare l’attenzione dei miei colleghi e di tutte le persone interessate (e trattandosi di soldi pubblici la questione riguarda tutti i contribuenti) su alcuni sconcertanti casi italiani: ne parlo per esempio qui.
Ho detto: non c’è scelta se non pagare. In realtà no, la scelta ci può essere, c’è, ma bisogna fare uno sforzo e cambiare il modo in cui si comunicano i risultati della ricerca scientifica. L’open access è appunto questo nuovo modo, reso possibile da internet. Ne ho parlato con Juan Carlos De Martin, che insegna Ingegneria informatica al Politecnico di Torino e che è a capo di una nuova commissione ministeriale che ha l’obiettivo di definire la strategia open access italiana.
Giunta. Intanto, una breve definizione: cosa s’intende per open access, e da quando si è cominciato a parlarne?
De Martin. Direi addirittura dalla nascita di Internet, anche se allora non usarono l’espressione open access. Internet, infatti, nacque (anche) per permettere a gruppi di ricercatori distanti tra loro di condividere i risultati delle loro ricerche. Senza più carta inchiostrata da stampare, rilegare e distribuire, i costi potevano essere abbattuti, i tempi di pubblicazione ridotti e l’accesso ai risultati scientifici allargato a chiunque avesse accesso alla rete, con conseguente aumento dell’utilità sociale della ricerca. Ma bisogna arrivare al 2002, con la Budapest Open Access Initiative, prima che qualcuno proponga l’espressione open access. Oggi adotterei la definizione di open access proposta da Peter Suber (neo-direttore dell’Office for Scholarly Communication della Harvard University), ovvero: le pubblicazioni open access sono pubblicazioni disponibili online, gratis, in formato digitale e libere dalla maggior parte dei vincoli derivanti dal diritto d’autore.
Giunta. Suber è anche l’autore di un bel libro che fa il punto sulla storia e sulle prospettive future dell’open access. Puoi dirmi in breve qual è la situazione, oggi?
De Martin. Nei dieci anni dopo Budapest l’open access (OA) ha iniziato a diffondersi, sia pure con modalità variabili e con velocità differenti a seconda della disciplina accademica. Si possono trovare, per esempio, molte pubblicazioni accessibili gratuitamente in rete, ma sempre tutelate secondo il principio ‘tutti i diritti riservati’, nel qual caso si parla di gratis OA; si può insomma leggere senza pagare, ma non si può indicizzare, tradurre, eccetera. Quando invece, oltre alla barriera del prezzo, vengono sollevate anche le barriere (molte, non tutte) derivanti dal diritto d’autore, allora si parla di libre OA. Nel mondo open access, inoltre, si distingue tra due diverse modalità di pubblicazione online.
La prima è la cosiddetta strada verde all’OA (Green Road), secondo la quale le pubblicazioni sono disponibili sulle pagine personali dei ricercatori o in depositi della propria università o associazione professionale. ‘Strada verde’ e ‘Auto-archiviazione’, altro termine spesso utilizzato, sono quindi sinonimi. Un esempio di autoarchiviazione lo trovi nella pagina delle pubblicazioni del centro di ricerca che condirigo, il Nexa Center.
La seconda modalità è la cosiddetta ‘strada aurea’ all’OA (Gold Road), ovvero la pubblicazione su riviste scientifiche open access, riviste che rendono cioè immediatamente accessibili i propri articoli direttamente sul sito dell’editore. Queste riviste OA sono ormai migliaia; tra le più note e scientificamente influenti ci sono per esempio quelle della Public Library of Science (PLoS).
Giunta. Quali sono i vantaggi dell’open access?
De Martin. I vantaggi sono evidenti: grazie all’open access, infatti, i risultati della ricerca possono essere letti, studiati, usati da molte più persone. Ciò porta, da un lato, la ‘repubblica della scienza’ a funzionare meglio, perché non ci sono più ricercatori esclusi dal dibattito solo perché le loro istituzioni non sono abbastanza ricche da abbonarsi a tutte le riviste scientifiche (che è il caso non solo delle università del Terzo Mondo ma anche di molte università europee e americane). Io, per esempio, ricevo abbastanza spesso messaggi di ricercatori di paesi in via di sviluppo che, dopo aver letto un mio articolo disponibile sulla pagina del mio gruppo di ricerca, si mettono in contatto con me, mi fanno delle domande: è evidente che senza il web e la condivisione dei risultati della ricerca questo non potrebbe succedere.
Per questo è anche lecito aspettarsi che l’open access produca un aumento di efficienza: sarà più facile, infatti, sia evitare duplicazioni di sforzi indirizzati al medesimo obiettivo, sia costruire su quanto scoperto da coloro che ci hanno preceduti. D’altra parte, con l’open access guadagnano accesso ai risultati della ricerca anche imprese, associazioni, istituzioni pubbliche e semplici cittadini, con un impatto economico, culturale e civile non facile da quantificare, ma certamente molto considerevole. Supponiamo che l’azienda X voglia sapere se in Italia ci sono università che stanno lavorando sul polimero Y o sulla molecola Z: l’open access consentirebbe di rispondere in pochi secondi facendo una semplice ricerca online. Questi effetti positivi sulla scienza e sulla società nel suo complesso spiegano perché molti finanziatori della ricerca, tra cui la Commissione Europea e un numero crescente di governi nazionali (tra cui gli Stati Uniti e il Regno Unito), abbiano già imposto l’open access ai risultati della ricerca che finanziano.
Giunta. E quali gli svantaggi dell’open access?
De Martin. Francamente non ne vedo. A volte mi è capitato di parlare con qualcuno che sostiene che le riviste open access sarebbero di qualità inferiore rispetto a quelle ‘chiuse’, ma è un’opinione senza fondamento. La qualità di una rivista non dipende dalla modalità di pubblicazione, tanto è vero che esistono riviste open access di qualità elevatissima e riviste ‘chiuse’ scadenti. Il mezzo, in questo caso, non dice proprio niente sulla qualità del messaggio. Ma se non vedo svantaggi vedo senz’altro ostacoli, due in particolare: la difficoltà di cambiare le abitudini dei ricercatori e la necessità di ripensare il modo in cui, come società, vogliamo finanziare il sistema della diffusione dei risultati della ricerca. Ma sono ostacoli superabili, come dimostrano le esperienze di università di punta come Harvard e MIT.
Giunta. Come vanno le cose in Italia per ciò che riguarda l’open access?
De Martin. In Italia c’è una comunità OA abbastanza vivace, che in questi anni, oltre a partecipare a numerosi progetti sull’OA finanziati dall’Unione Europea, ha messo online circa cinquanta depositi istituzionali. Inoltre, la quasi totalità delle università italiane ha aderito ai principi dell’OA fin dalla dichiarazione di Messina del 2004. Il problema è che a queste dichiarazioni di principio in genere non hanno fatto seguito politiche incisive a sostegno dell’OA né a livello nazionale né a livello delle singole istituzioni (con le lodevoli eccezioni dell’Istituto Superiore di Sanità e di Telethon). Non sorprende quindi che i depositi istituzionali italiani siano quasi tutti mezzi vuoti, a differenza di depositi esteri, come – per fare un esempio – quello dell’Università di Liegi. È tempo di promuovere l’OA in maniera molto più convinta e incisiva.
Giunta. In pratica, che cosa dovremmo fare? Cioè: che cosa dovrebbero fare, subito, le università e i professori universitari per favorire l’OA?
De Martin. Preso atto che col programma Horizon 2020 l’Europa ha pienamente abbracciato l’OA, in Italia bisogna agire a tre livelli: il livello del singolo accademico, quello delle istituzioni (università e enti pubblici di ricerca) e quello nazionale. Gli accademici devono prendere coscienza del fatto che il passaggio dalla carta al bit li obbliga a interessarsi esplicitamente delle modalità con cui la loro ricerca viene diffusa. Se con Internet chiunque può accedere ai risultati della ricerca, con notevoli benefici per la collettività, chi fa ricerca ed è pagato da un’istituzione pubblica ha il dovere di mettere a disposizione di tutti le proprie opinioni, le proprie ipotesi e le proprie scoperte: tanto più se ci guadagna in termini di visibilità. Prima cosa da fare, molto semplice: rifiutarsi di firmare contratti con cui si trasferiscono tutti i diritti all’editore, per di più in maniera esclusiva e senza limiti di tempo (questa è più o meno la norma). Esistono già delle clausole standard che si potrebbero inserire nei contratti per limitare il trasferimento dei diritti, in modo da rendere l’OA più facilmente realizzabile. Inoltre i ricercatori dovrebbero scegliere le riviste OA sia per pubblicare i propri studi sia per svolgere il lavoro (in genere non pagato) di revisori e di membri dei comitati redazionali. Infine, i ricercatori dovrebbero influenzare le organizzazioni scientifiche di cui fanno parte perché si schierino apertamente a favore dell’OA. In questi anni, purtroppo, non poche organizzazioni scientifiche, che pure sostengono nei loro statuti di voler massimizzare la diffusione della conoscenza, hanno aumentato i prezzi delle loro riviste con tassi non troppo diversi da quelli dei più aggressivi editori commerciali. Un esempio di cui si è molto discusso è, per esempio, quello dell’American Chemical Society.
Quanto alle singole istituzioni, è tempo che vengano definite delle politiche di ateneo (o di ente pubblico di ricerca) a sostegno dell’OA. Le strade percorribili sono molte e vanno dalla creazione di incentivi alla pubblicazione nei depositi istituzionali a mandati di ateneo che vincolino (salvo motivata richiesta di esenzione) tutti i ricercatori a pubblicare in OA. Gli atenei, inoltre, dovrebbero promuovere la diffusione di riviste OA di qualità, per esempio fornendo sostegno ai professori che volessero lanciarne di nuove o che volessero convertire all’OA riviste esistenti.
Quanto a iniziative a livello nazionale, ho alcune idee, ma non vorrei anticipare i lavori della commissione che presiedo. Ne riparliamo tra qualche mese?