Università

Petit conte moral

[www.roars.it, 4 marzo 2013]

Forse l’anonimato, nella valutazione (o una valutazione così concepita), non è proprio la strada giusta, perché è tra l’altro un modo per dare sfogo a meschinità, rancori, invidie. Qui di seguito uno scenario immaginario ma assolutamente possibile, forse probabile.

Erano molti anni che aspettavo una buona occasione per vendicarmi della collega X.

Una vendetta in nome della verità, della giustizia: non un fatto personale. La collega X la conoscete tutti anche senza conoscerla. Mentre la maggior parte degli studiosi italiani ha dovuto dannarsi l’anima per farsi strada e conquistare – ma a quaranta, cinquant’anni – un posto fisso all’università, la vita della collega X è stata un lungo fiume tranquillo. Figlia di un ordinario ultra-potente dell’università di Y, massone, la collega X si è laureata nell’università Y, ha fatto il dottorato nell’università Y e ha avuto un posto da ricercatrice nell’università Y quando non aveva ancora trent’anni. Merito del padre? Ma cosa andate a pensare… Ma merito soprattutto del vecchio ordinario della sua disciplina che – di solito piuttosto distratto circa i destini dei suoi allievi maschi – le ha fatto fare carriera alla velocità della luce. A trentaquattro anni associata, a trentotto ordinaria. Che strano caso.

Ma, obietterete, la cattedra di visiting professor a Princeton? Le dichiarazioni di stima nei suoi confronti da parte di un paio di premi Nobel? Le molte pubblicazioni in riviste internazionali sulle quali – bisogna essere onesti – né il padre massone né il vecchio maestro possono aver avuto influenza? Sono successi, certamente, ma successi che abbagliano soprattutto i non addetti ai lavori. Princeton, per la nostra disciplina, è da tempo su una china discendente. Il Nobel, retorica a parte, è un premio screditato. E si sa come viene fatto il rating delle riviste scientifiche, e come si arriva a pubblicare sulle più importanti: relazioni, entrature, piccoli favori. Non dico altro, anche se potrei. Aggiungo solo che è sospetta, e urtante, anche la frequenza con cui il nome della collega X si legge sulla copertina delle riviste (ne condirige due: non una, due!), nei comitati editoriali, negli organismi di controllo universitari e interuniversitari (che si prepari al grande salto verso Roma? La collega X sottosegretario? Ministro?); e da un po’ di tempo anche sui giornali: commentini, articoletti, noticine polemiche con cui presume di (così dice lei) dare un contributo al dibattito delle idee, ma che le servono soprattutto per ‘mettere a posto’ gli avversari e i colleghi restii a riconoscerle quel ruolo di spicco nella vita intellettuale italiana (bella roba, del resto…) che la sua arroganza le fa credere di meritare.

Non ho problemi a confessare che io rientro nel gruppetto dei, diciamo così, resistenti, e che questo negli anni mi ha procurato qualche noia. Un’allusione non benevola al mio lavoro, in una sua recensioncina sul giornale: allusione implicita, indiretta, ma limpidissima per chi è del mestiere (non sono paranoico: «Che le hai fatto?» è stata la domanda che ben tre colleghi mi hanno rivolto dopo aver letto il pezzo). Citazioni affrettate dei miei studi nelle note ai suoi studi, a volte precedute da formule derisorie come «si può vedere anche» o «da ultimo»; e a volte nessuna citazione dei miei studi, l’ostracismo, anche quando parla di argomenti su cui io ho scritto cose che non possono non essere almeno menzionate. E poi voci, pettegolezzi: colleghi, amici comuni che mi riferiscono di suoi giudizi liquidatori nei miei confronti lasciati cadere anche a sproposito, mentre si parla di tutt’altro. E infine, qualche mese fa, una vera bassezza. Un’università americana dell’Ivy League cerca un docente della mia materia che faccia il visiting professor per due mesi all’anno. Io conosco i colleghi di quell’università, ci sono stato una volta. Mando il mio CV, entro nella shortlist. Tutto sembra mettersi bene, poi vengo a sapere che, richiesta chissà perché di un parere, lei (che non è neanche veramente del mio settore disciplinare) ha suggerito il nome di un altro candidato.

Erano anni che cercavo di vendicarmi. Poi è successo che mi hanno chiesto se volevo essere inserito nella lista dei revisori dell’ANVUR, e giudicare (anonimamente) il lavoro di un certo numero di colleghi del mio settore disciplinare. Ho risposto di sì: in questi casi è sempre meglio stare dentro che stare fuori. E indovinate chi mi chiedono di valutare, nel primo lotto di pubblicazioni?

Già.

E indovinate chi mi chiedono di valutare, nel secondo lotto di pubblicazioni?

Il suo allievo prediletto, il suo primo brillantissimo allievo.

Naah, non così brillante…

Mi dispiace soltanto che non saprà mai da che parte le è arrivato il ceffone.

O magari sì.

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