È l’inizio di settembre del 2010 quando, per la prima volta, sento parlare di Tirocinio Formativo Attivo (TFA). Chiusa per sempre la SISS (Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario), che fino al 2008 formava i docenti e li abilitava all’insegnamento nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado, il futuro dei docenti precari e di coloro che, appena usciti dall’università, volevano provare ad insegnare era rimasto un’incognita. Stando a quanto riferito dall’allora ministro dell’istruzione Gelmini, il nuovo metodo di abilitazione, costituito da un anno di tirocinio a scuola e da lezioni all’università, sarebbe stato attivato entro l’anno, previa selezione dei candidati.
Conseguita da pochi mesi la laurea specialistica in lettere moderne, avevo spedito il mio curriculum a tutte le scuole della mia provincia, Trento, sperando in qualche supplenza. Dopo quotidiane consultazioni sul sito del MIUR per avere notizie più specifiche in merito al TFA, passato il 2010 capisco che la cosa non si sarebbe risolta molto in fretta. Del resto, il governo Berlusconi cade prima che la questione sia stata sistemata. Nonostante le ripetute rassicurazioni ministeriali sul prossimo avvio dei corsi di formazione, il tutto rimane quindi in standby per molti mesi.
Solamente nella primavera 2012 il nuovo ministro Profumo dà notizia certa dell’avvio della selezione per l’accesso ai TFA entro e non oltre giugno dello stesso anno, decidendo di proseguire il lavoro del suo predecessore, a cui non sembra siano state apportate significative modifiche.
Fortunatamente, nei due anni di attesa sono riuscita a lavorare ininterrottamente in alcune scuole. Non ho però accumulato quei tre anni di servizio che, stando alle notizie diffuse da vari quotidiani e dai siti web dedicati all’insegnamento, avrebbero dato la possibilità di frequentare il TFA senza la selezione iniziale. È lo stesso Profumo a dichiarare ufficiosamente al Corriere della Sera del 6 maggio 2012 che i docenti con tre anni di servizio «non dovranno sostenere alcuna prova preselettiva, non ci saranno selezioni di ingresso per loro, perché sono persone che nella realtà il tirocinio l’hanno già fatto. Finito il corso, come tutti gli altri tirocinanti, dovranno superare la prova finale». Solamente pochissimi giorni prima dello scadere delle iscrizioni, i docenti che si trovano in questa situazione si vedono negare, attraverso una nota del MIUR, questa possibilità, vedendola posticipata a data da destinarsi. Si può immaginare il malumore degli interessati.
Il 25 luglio, dopo mesi di studio in preparazione all’esame, insieme a più di trecento aspiranti insegnanti, mi presento per sostenere l’esame di preselezione nella sede destinata dall’Università di Trento.
Le classi di insegnamento alle quali ho la possibilità di accedere sono la A043 e la A050, rispettivamente italiano, storia ed educazione civica, geografia nella scuola secondaria di primo grado e materie letterarie negli istituti di istruzione secondaria. A Trento il costo per ogni esame è stato di 50 euro, ma in altre regioni è stato di 100/150 euro. Rimango quindi spiacevolmente stupita, avendo pagato due tasse d’iscrizione, nel constatare che c’è un unico test per le due classi di abilitazione, il che vuol dire anche meno possibilità di successo. Benché il percorso di studi sia più o meno lo stesso, è molto diverso insegnare alle scuole medie rispetto alle superiori. Innanzitutto perché l’età differente degli alunni rende diverso l’approccio alla materie insegnate, e poi perché le materie stesse vengono proposte in maniera quantitativamente differente. Alle medie, per esempio, la grammatica ha un’importanza fondamentale durante tutti i tre anni, mentre alle superiori la grammatica viene ripresa seriamente solo nei primi due anni, ma spesso capita che se gli alunni non hanno una solida base di conoscenze grammaticali pregresse la grammatica rimane per loro una materia ostica e la scrittura un’attività certamente più difficile. Alle superiori, invece, si trattano con maggior attenzione e rigore argomenti storici e letterari che alle medie si accennano solamente. L’insegnamento della storia alle medie parte, in seguito alla riforma Moratti, dal Medioevo, mentre alle superiori si comincia dalla preistoria. Benché io ritenga che un docente abilitato per le superiori abbia le competenze e i requisiti necessari per svolgere il suo lavoro anche alle medie, (cosa peraltro prevista dalla vecchia SISS), nel momento in cui ora il MIUR nega la possibilità di abilitarsi contemporaneamente nelle due classi d’insegnamento e quindi, di fatto, limita di molto le possibilità lavorative di ogni docente, sarebbe stato doveroso e corretto fare due test differenti, o almeno non far pagare due tasse diverse per un unico esame.
Lasciando perdere questo non trascurabile dettaglio, altra cosa che non ha facilitato la preparazione all’esame è stata la totale assenza di una bibliografia comune; il ministero ha solamente informato che nei test sarebbero state verificate le conoscenze relative alle materie oggetto di insegnamento di ciascuna classe di abilitazione e le competenze linguistiche di lingua italiana. Il che è molto vago, dato che in definitiva si trattava di studiare tutto lo scibile di letteratura, storia e geografia, non dimenticando la grammatica, la linguistica, l’educazione civica, ripassando, per maggior sicurezza, argomenti che rientrano nella cultura generale come la storia dell’arte e il cinema. Per questo, mesi prima dell’esame mi sono rifornita di testi dell’università, delle superiori, delle medie e, non lo nego, di qualche pratico Bignami, per affrontare l’immensa mole di sapere che questo esame richiedeva di padroneggiare.
Inizio quindi a leggere il mio test, ma è una sgradita sorpresa trovarmi davanti molte, troppe domande esageratamente puntigliose. Alla fine della prima lettura penso a uno scherzo di pessimo gusto, mi sembra di partecipare a una sorta di quiz televisivo dall’intento sadico di non far vincere nessuno, tranne i pochi fortunati che riescono ad azzeccare le risposte giuste. Per poter superare positivamente il test vengono infatti richieste un’erudizione pedantesca, un nozionismo esasperato, una capacità mnemonica fenomenale; cose che ben poco hanno a che fare con la scuola reale: preparate, vien da pensare, da chi in una scuola non ha messo mai piede. Non c’è nemmeno una domanda di grammatica, mentre si sprecano le richieste di date precise: battaglia di Ulm, morte di Caio Gracco, Charte octroyée (nessuna domanda verte sulla storia italiana contemporanea) e poi le date: l’anno di pubblicazione del dannunziano Forse che sì forse che no e quello della Gerusalemme conquistata del Tasso. Tra le risposte possibili ci sono date vicinissime l’una all’altra, ad esempio: l’anno della Charte octroyée, A) 1814, B) 1813, C) 1815, D) 1816.
Ma se le domande di storia non sono impossibili, a mio avviso molto più inutilmente ottuse sono le domande di italiano e geografia. Geografia: quali sono i confini dello Zambia? Qual è la capitale dell’Uganda? Italiano: chi ha scritto «La nemica»? (Dario Niccodemi). Oppure: dato un frammento di qualche testo poetico indovinare l’autore; sì, indovinare è il verbo giusto, a meno che qualcuno non si sia preso la briga di memorizzare tutta la lirica italiana dal 1200 ad oggi. I brani citati non sono né celebri né frequentemente antologizzati, e tutte le opzioni di risposta, con nomi di autori tra loro contemporanei, sembrano plausibili. Chi ha scritto: «La speranza è nell’opera. / Io sono un cinico a cui rimane / per la sua fede questo al di là. / Io sono un cinico che ha fede in quel che fa». Possibili risposte: A) Vincenzo Cardarelli, B) Arturo Onofri, C) Clemente Rebora, D) Dino Campana.
Infine, alcune domande del test sono risultate mal poste o ambigue, con addirittura la possibilità di due risposte esatte. Ad esempio, la domanda di geografia che chiedeva la collocazione del lago Eyre aveva, tra le risposte plausibili, sia il Canada sia l’Australia. Ora, poiché entrambi i paesi hanno un lago Eyre sul loro territorio, le rispose corrette erano due. Non è ammissibile che il Ministero dell’Istruzione proponga un test così rigidamente selettivo e poi non sia in grado di formulare correttamente tutti i quesiti.
Dopo l’esame esco dall’aula piuttosto amareggiata e mi confronto con i miei colleghi: tutti quanti abbiamo le stesse impressioni negative. Posso ammettere che alcune domande non fossero così difficili; posso ammettere di aver fatto degli errori stupidi. È anche probabile che la mia preparazione non fosse effettivamente sufficiente; forse l’università che ho frequentato, anche se mi ha laureata col massimo dei voti, non mi ha dato una preparazione adeguata allo svolgimento della mia professione. Tuttavia, è davvero questo il metodo giusto per reclutare gli insegnanti? Uno stupido test con domande molto specifiche che non fanno nemmeno i professori universitari negli esami di specialità? Una serie di nozioni inutili che dicono poco o nulla sulla reale preparazione di un aspirante professore? Si capisce l’esigenza di scremare: ma è questo il modo? Scoraggiare, deludere, avvilire migliaia di persone che hanno dedicato anni della loro vita a studiare materie per le quali, per altro, sono stati già ampiamente valutati, proponendo loro domande che prevedono uno studio mnemonico di tutte le battaglie della storia e delle date di pubblicazione di tutte le opere di tutti gli autori italiani? Non direi: anche perché ricordo che questi test dovevano fungere da preselezione per altri due esami più specifici, quindi non trovo il senso, se non quello puramente utilitaristico decimare i candidati allo scopo di evitare il sovraffollamento.
Personalmente avevo un’idea piuttosto diversa di quello che avrei dovuto dimostrare di sapere: la seria e solida preparazione che in questi anni ho cercato di maturare attraverso lo studio non ha nulla a che vedere con l’enciclopedismo richiesto dal ministero. So bene che le ‘abilità’ di un buon professore non si potevano verificare in un test di preselezione: la capacità di aiutare a sviluppare senso critico, di far cogliere la bellezza e di coltivarla, di far comprendere le cose del mondo partendo da lontano, dalla storia, dai testi, sono cose che non si possono valutare, non all’inizio perlomeno. So bene che i candidati erano migliaia, che una rigida selezione andava fatta. Capisco tutto, ma fino a un certo punto.
Per l’idea che mi sono fatta, l’abilitazione non dovrebbe essere legata alla presenza di posti di lavoro sul territorio, dovrebbe essere la logica conclusione di un percorso di studi che durante tutta l’università dovrebbe mirare a far raggiungere questo scopo; un’università, questa sì fatta seriamente, con criteri di selezione rigidi e con esami che fermano chi non è in grado di andare avanti. Troppe volte in Università ho assistito ad esami in cui il professore di turno elargiva voti o promozioni immeritate, oppure ho notato il divario tra l’impegno richiesto per lo studio della bibliografia proposta e la banalità delle domande in sede di esame per la verifica della stessa. Così facendo, negli anni, il numero dei laureati con voti eccellenti è aumentato a dismisura, con il solo risultato di veder abbassato il prestigio delle laurea in materie umanistiche, di non veder riconosciuto il vero merito e infine, cosa che qui preme, di veder aumentata la massa di aspiranti docenti, tanto che poi il ministero si trova costretto a utilizzare degli espedienti, come questa selezione cinicamente rigida post laurea, per ovviare alla sovrabbondanza dei laureati che, giustamente, si aspettano un lavoro nel loro settore.
Il numero dei posti disponibili per i corsi offerti per ciascuna classe di abilitazione è stato determinato dal fabbisogno di personale docente nelle scuole secondarie di primo e secondo grado nelle varie province d’Italia. In Trentino sono stati previsti 15 posti per le superiori e 23 per le medie. Tuttavia, molte delle persone presenti al test lavorano già nella scuola. Anche non considerando i posti da supplire per maternità o malattia, si suppone non conteggiati dal ministero, non si spiega comunque l’esiguità del numero di posti messi a disposizione. Solamente nelle ultime due scuole per le quali ho lavorato, ad esempio, i docenti di italiano senza abilitazione, ma con anni di insegnamento alle spalle erano cinque, me esclusa. E si parla solo di due scuole.
La maggior parte delle persone che ha superato questo test lo avrà fatto grazie ad una buona dose di fortuna, oltre che grazie ad un’ottima preparazione. Non credo sia giusto dare la possibilità di accedere all’insegnamento solo a chi ha avuto la fortuna dalla sua parte in un test come quello sopra descritto. Tanto più che, in realtà, la strada per raggiungere quello che all’insegnante precario appare un miraggio, il contratto di lavoro indeterminato, è ardua e costellata di altre tappe intermedie. Dopo la preselezione c’è l’esame scritto, seguito da quello orale, poi si frequenta, al costo di circa 3 mila euro, un anno di tirocinio formativo, pare piuttosto impegnativo, nel senso che non si sa ancora se possa prevedere o meno la possibilità di continuare a lavorare a tempo pieno (l’età media dei candidati si aggira intorno ai trent’anni…). Alla fine del tirocinio è previsto un esame finale e solo dopo di allora si potrà finalmente sostenere l’esame di stato (l’ultimo risale al 1999), il quale tuttavia non dà la certezza di un posto a tempo indeterminato, ma solo la possibilità di aspirare, prima o poi, a porre fine alla propria pluriennale precarietà.
Ora le preselezioni sono terminate. È triste vedere come ci sia stato un differente grado di difficoltà, anche notevole, tra gli esami proposti per le varie classi d’insegnamento: è stata questione di fortuna anche sostenere l’esame per questa o per quella materia. Ad esempio, a Trento la classe di filosofia 036 non ha visto nemmeno un ammesso, mentre per altre classi i respinti sono stati molti meno: che i filosofi fossero tutti somari rispetto ai colleghi di altre materie in concorso? Non mi sembra probabile.
L.’8 agosto una commissione ministeriale si riunisce per aggiornare i risultati dei test, ammettendo così gli errori commessi. Ben 11 domande del test per la classe A050 vengono ritenute corrette per tutti. Anche se alcune di queste non contenevano apparentemente errori. Ad esempio è stata considerata corretta per tutti la domanda: Diocleziano diede vita alla A) Tetrarchia B) Diarchia C) Triarchia D) Pentarchia. Non si capisce proprio secondo quale criterio questa, che era una domanda facile e posta correttamente, sia stata data giusta a tutti. Così facendo, anche coloro che effettivamente non sapevano rispondere a queste domande, si trovano ad avere un punteggio anche molto più alto rispetto a prima. All’opposto chi aveva già risposto correttamente alle domande, ora si vede scavalcato in graduatoria da altri che hanno avuto la fortuna di sbagliare le rispose considerate in ogni caso corrette. Nonostante ciò, il numero degli ammessi, pur aumentato rispetto ai primi risultai, rimane basso. A Trento, su circa 350 persone che hanno provato il test per le classi A050-A043 solo 33 candidati lo hanno passato, meno dei posti disponibili, che già erano pochi. Inoltre, sempre a Trento ci sono state polemiche sul fatto che in una delle due aule dove si svolgeva il test, alcuni candidati hanno utilizzato cellulari o hanno fatto il test insieme al vicino di banco. Non poteva essere altrimenti perché, anche volendo fare il proprio test in completa autonomia, era impossibile non vedere il test della persona davanti e di quella di fianco, tanto poco era lo spazio a disposizione di ciascuno. Questa situazione si sarà verificata, immagino, anche in altre università.
Non credo ci sia molto altro da aggiungere. Ora auspico solamente che, visti i disartrosi risultati (si parla infatti di meno del 10% di ammessi per le classi A050 e A043 in tutta Italia), al MIUR decidano per il futuro una selezione meno rigida e più sensata. Tanto più che lo stesso ministro Profumo, nell’intervista al Corriere della Sera citata sopra, aveva detto che «essere preparatissimi nella propria disciplina non significa essere bravi insegnanti: abbiamo bisogno di docenti moderni, capaci di stimolare i ragazzi, di gestire le loro aspettative, anche attraverso modalità nuove, la tecnologia per esempio», e poi aveva aggiunto che «bisognerà avere grande attenzione al docente, a come sta in aula, alla sua attitudine all’insegnamento, gli studenti hanno bisogno di questo. La lezione come si faceva una volta non è più sufficiente». Speriamo capisca che, se si riproporrà una preselezione simile a quella effettuata in queste settimane, le sue parole suoneranno come una presa in giro.