Gentile Professor Canfora,
il suo intervento sul «Corriere della Sera» del 16 agosto, in cui ha definito «antieducativi» i test di accesso al TFA, è stato condiviso su Facebook da un centinaio di persone: sufficienti a far sì che mi sia capitato di leggerlo qui a Rio de Janeiro, dove sto trascorrendo un semestre di studio con una borsa dell’Università di Bologna, al cui corso di laura specialistica in Scienze Storiche mi sono iscritto dopo essermi laureato a Bari in Lettere Classiche.
Lei non immagina il piacere che, a me come a molti altri studenti, ha dato leggere le sue parole, che riporto: «La stramberia consiste nel non sottoporre a prove autenticamente culturali e scientifiche: come una composizione di italiano, una traduzione dal greco o dal latino. In tutto il mondo civile si fa così. Per vedere la maturità di una persona è necessario che componga un testo di senso compiuto, non che faccia queste prove irrilevanti dove un cretino che ha una buona memoria supera i quiz e una persona di cultura che non ricorda un dettaglio viene esclusa».
Vista la brillantezza con cui ha saputo rilevare l’ennesimo fattore di estraneità dell’Italia al mondo civile, ritengo urgente farle notare come la Facoltà di cui è illustre esponente conosca pratiche culturalmente mortificanti analoghe a quelle che lei denuncia. Come sa, da due anni la Facoltà organizza un ‘test di livello’ – ma chissà se presto o tardi non diventerà una prova di ingresso vera e propria – volto ad appurare la preparazione delle matricole, come previsto dalla legge: si tratta di un questionario a crocette in perfetto stile TFA – solo, oso sperare, redatto da persone più competenti di quelle incaricate dal Ministero. Quando in Commissione Didattica si discusse di questo test io ero rappresentante degli studenti per il fu Collettivo di Lettere e Filosofia: con argomenti – fatte le dovute proporzioni – analoghi ai suoi sostenni la sterilità della risposta multipla e proposi la classica composizione di italiano. «E poi i compiti chi li corregge?», mi fu risposto quasi all’unanimità: quasi, perché qualche professore mi confessò, ovviamente in privato, di ritenere che fosse più la voglia a mancare che le risorse organizzative.
Ma immagini per un momento che il Governo, a differenza della nostra Facoltà, decida di seguire i suoi suggerimenti e di mettere in piedi un serio concorso di accesso all’insegnamento, con prova di italiano e traduzione di latino e greco: in questo caso gli studenti dell’Università di Bari dovrebbero fare qualcosa che non gli è più stato chiesto di fare dai tempi della maturità. Provo un po’ di vergogna nell’ammettere di aver ottenuto una laurea triennale in Lettere Classiche, con 110 e lode, senza aver mai dovuto fare una versione per un esame. Quanto agli elaborati di italiano, fatto salvo uno scarno componimento richiesto, neanche in tutti i curricula, per superare il laboratorio di scrittura, i nostri studenti mettono per la prima volta la penna sul foglio al momento della stesura della tesi – con risultati ben noti, visto che lamentarsi della qualità delle tesi di laurea è l’attività preferita di moltissimi suoi colleghi.
Per questo in tre anni non c’è quasi stato Consiglio di Facoltà in cui non abbia chiesto, insieme ai rappresentanti del Co.L.F., che almeno gli esami di italiano, latino e greco fossero accompagnati da prove scritte, e che l’ambiguo laboratorio di scrittura fosse trasformato in un laboratorio di scrittura scientifica finalizzato all’insegnamento degli elementi base necessari a scrivere un articolo o una tesi. Ma le voci che si sono levate negli organi collegiali a favore di queste proposte si contano sulle dita di una mano; innumerevoli, invece, le obiezioni, che andavano – e mi creda sto citando testualmente influenti membri del Consiglio – da «ci sarebbe il tempo di correggere gli elaborati solo se gli assistenti facessero veramente gli assistenti e non i professori» a «se mettessimo le prove scritte dovremmo bocciare tutti».
Benché io oggi sia iscritto a un altro Ateneo mi sento ancora un po’ parte della Facoltà di Lettere di Bari, e le confesso di aver provato una certa frustrazione nell’apprendere dai giornali che lei rivolge al Governo le stesse critiche che i miei colleghi e io abbiamo sempre rivolto alla nostra Facoltà senza mai ottenere pubblico sostegno da parte di nessuno (di sostegno privato, lo ripeto, ne ho ricevuto molto: ma quello a che serve?). Nel portare avanti la sua sacrosanta battaglia contro la mortificazione della cultura a livello governativo, dunque, mi piacerebbe che lei ogni tanto facesse sentire la sua voce autorevole tanto sui giornali quanto, a costo di urtare qualche collega, negli organi collegiali di Facoltà, dove sono certo potrebbe produrre importanti miglioramenti in tempi brevi.