Istruzione

Lavorare in perdita nella scuola

Che cosa resta del lavoro dell’insegnante? Che cosa resta delle ore che un docente passa in classe con i suoi allievi, delle parole che dice, dei discorsi che ascolta, dei rapporti che intesse con i ragazzi? Molti insegnanti, se interrogati, direbbero “poco”, al massimo il ricordo nel tempo, da parte di un ex allievo incontrato dopo anni, di un maestro che “ti ha dato qualcosa”. La nostra cultura, nel rapporto con il lavoro, sembra privilegiare il modello dell’artigiano: resta di un lavoro il prodotto che si fa, il manufatto. Sotto il primato del pensiero rappresentativo e della cultura astratta, che ha dominato la nostra civiltà, il modello dell’artigiano si incarna nelle opere intellettuali: quando si pensa a un’attività non manuale, il suo compimento viene sempre individuato nel prodotto finito, nel libro, nell’opera d’arte, nella composizione musicale, ecc. L’attività non è in perdita se resta qualcosa di oggettivato.

Nel caso in cui il tipo di attività sociale non sia finalizzata principalmente alla produzione di “oggetti”, il modello dominante è quello delle “posizioni”: una attività lavorativa trova il suo compimento se si ottengono titoli e posizioni, quindi se si costruisce una carriera. Quello che viene oggettivato qui è il ruolo sociale, irrigidito nella certificazione del titolo. Il valore sociale dell’attività e della persona, tramite il medium del mercato, è definito dall’altezza della retribuzione.

Il problema di questo tipo di oggettivazioni è che si lasciano sfuggire una parte enorme dell’agire sociale, in cui gli individui spendono la loro vita, energie, entusiasmo, senza che tutto questo abbia un riconoscimento. Come deve essere pensato il valore sociale di attività che si esauriscono quasi totalmente nei rapporti, nella costruzione di un mondo di relazioni sociali, e non devono necessariamente avere un compimento in un manufatto, in un curriculum brillante e in alte retribuzioni?

Questo è uno dei problemi fondamentali dell’insegnamento. Il mondo della scuola è un mondo di relazioni. È forse l’ambiente di lavoro in cui si incontrano più persone in una giornata, quello in cui la frequenza di parole dette e ascoltate, di discussioni, di persone avvicinate, cui si fanno domande, da cui si ricevono risposte, è più alta rispetto a qualsiasi altro lavoro. Pensate a una giornata media. Supponiamo un insegnante che, come me, ha poche classi, solo tre; se le vede tutte e tre in una mattinata, cosa normale, vede dalle sessanta alle ottanta persone, a seconda dei casi; se ha l’abitudine di parlare con gli studenti, oltre a rivolgersi a loro per le sue lezioni, almeno una ventina di loro, tra tutti, si rivolgeranno a lei o lui, con domande, critiche, commenti, battute, ecc. Nella sala insegnanti, in una scuola di circa cento docenti, come niente incontra venti-trenta colleghi, e in condizioni normali gli può capitare di avere a che fare attivamente (discutere alcuni problemi, chiedere qualcosa, essere interpellato, ecc.) almeno con una decina. Questa è una situazione abbastanza ordinaria. Moltiplicatela per cinque giorni alla settimana, per le trentatré settimane di insegnamento all’anno; più i collegi, i consigli, le assemblee, ecc.

La scuola è una rete sterminata di relazioni. Che tipo di agire sociale è questo? Che tipo di mondo costruisce, visto che non è un agire produttivo in senso stretto? E soprattutto, nel nucleo di questo agire, il rapporto con gli allievi nell’insegnamento, che mondo si costruisce e che cosa deve restarne perché l’attività non sia in perdita? Che riconoscimento deve essere dato perché questo agire si compia naturalmente, in modo non distorto né represso?

1. In primo luogo, bisogna rivedere il quadro categoriale. Il modello dell’agire produttivo, artigianale, ha dominato a lungo proprio in quella teoria che voleva denunciare l’alienazione del soggetto nell’agire sociale di una società fondata sul dominio. Quel modello ha quindi una grande potenzialità critica. Il processo di umanizzazione della natura e naturalizzazione dell’uomo, lo scambio organico tra l’uomo e la natura come compimento dell’essenza umana sono il punto più alto, nei Manoscritti di Marx, di questo pensiero critico. Ci permettono di vedere una forma di oggettivazione e la sua alienazione. Ma l’unilateralità di questa concezione dell’agire si paga sia sul lato della percezione dell’alienazione, sia su quello positivo del riconoscimento dell’agire stesso. Per uscire da questa unilateralità bisogna pensare l’agire non solo nel senso del rapporto uomo-natura, ma nel senso dell’intersoggettività. Mi servirò qui dell’analisi di Hannah Arendt in Vita activa (1958).

Hannah Arendt distingue l’agire in labour, work e action. Il primo è il lavoro legato alla riproduzione organica dell’individuo e della società. Un esempio di labour è il lavoro casalingo: non produce un oggetto che resta, ma serve solo a mantenere l’equilibrio con l’ambiente. È ripetitivo e si perde senza lasciare traccia, richiede sempre di essere ricominciato. È la pura ciclicità della vita, come nella riproduzione biologica. Queste caratteristiche ci fanno riflettere su alcuni aspetti dell’insegnamento, se questo non trova la sua forma di stabilizzazione e di riconoscimento. L’insegnamento può essere ripetitivo, e perdersi completamente in una attività che ricomincia sempre da capo, se non si oggettiva in qualche modo. Questa tendenza forse va collegata al fatto che l’insegnamento prolunga, nei diversi gradi di socializzazione, il ciclo biologico della vita, perché si colloca ancora in parte nel processo di formazione dell’organismo, passando dal piano strettamente biologico a quello socio-linguistico. D’altra parte, l’oggettivazione non può essere quella dell’attività produttiva, come abbiamo visto.

Il work è appunto l’agire produttivo, artigianale, che trova il suo compimento nel manufatto, negli oggetti che restano, permangono ben oltre il ciclo della vita e creano il mondo in cui viviamo. La action è invece l’agire sociale fondato sull’interazione tra le persone, sulla costituzione e preservazione dei significati. Qui il “mondo” non è più quello degli oggetti esterni al soggetto, ma è quello dei significati tramandati e delle norme che strutturano il mondo sociale sensato in cui viviamo. È il mondo sociale di cui sempre già facciamo parte, tramite il linguaggio e l’interazione. È la dimensione in cui l’individuo esce dal privato ed entra in uno spazio pubblico.

La scuola si colloca in questo terzo ambito di azione. Ciò che il rapporto educativo produce non è un mondo di oggetti ma un mondo di relazioni, quindi di significati. Tale attività non è perduta se questi significati non si perdono, ma si inseriscono nella struttura delle relazioni sociali, e la prolungano, preservandosi in essa. Come punto di passaggio della socializzazione, questo è piuttosto ovvio. L’educazione e l’istruzione mediano l’inserimento dell’individuo nella società e la sua appropriazione della società; e ciò rende possibile il cambiamento sociale, tramite la capacità innovativa dell’individuo stesso. Ma perché ciò avvenga, la scuola deve svolgere il suo ruolo di mediazione in continuità con le altre forze di socializzazione. In questo momento è tale equilibrio che sembra essere saltato.

Non c’è più continuità tra la scuola da una parte e la famiglia, i media e i gruppi sociali dei pari in cui gli studenti sono immersi. La famiglia vive una ormai indefinita crisi dell’autorità genitoriale, e tende a scaricare le sue difficoltà sulla scuola, o in un conflitto rivendicativo che mina a sua volta l’autorità dei docenti, o richiedendo a questi una funzione di supplenza. I media sono l’ambiente (in)formativo in cui sono immersi gli adolescenti, in modi però che sfuggono spesso agli adulti. I media trasformano però la percezione della conoscenza: la dimensione discorsiva, lineare e narrativa della cultura scientifica consapevole, i tempi lenti della riflessione, sono indigesti per una mente abituata alla simultaneità delle immagini, alla rapidità e alla brevità dell’informazione. Per i gruppi sociali più deboli, che dispongono di meno capitale culturale, la “cultura” dei media rende incomprensibile i tempi lunghi e le forme di autodisciplina che richiede lo studio; il naturale egocentrismo di adolescenti cresciuti spesso al centro dell’attenzione familiare, pieni di risorse, si trova allo stretto nelle forme della didattica (che vedremo tra un attimo) caratteristiche della scuola italiana. I ragazzi dividono così il mondo in maniera manichea tra il fuori e il dentro: la vita è fuori (dalla scuola), la scuola va solo attraversata più o meno in apnea. Di qui l’importanza dei “gruppi dei pari”, i gruppi di cui il ragazzo fa parte come membro alla pari (amici, compagni di scuola), e da cui ottiene il riconoscimento sociale. Questi gruppi sono quelli che determinano la dinamica dei rapporti in classe. Se i gruppi, e i loro leader, sono ostili agli insegnanti, è finita, non è possibile ottenere la collaborazione della classe. Ma lo scollamento tra cultura sociale diffusa, mediata dalla comunicazione di massa, e cultura scolastica, a sua volta irrigidita e carica di limiti, come vedremo, nella maggior parte dei casi rende difficile l’alleanza tra i docenti e i ragazzi.

La rottura dell’equilibrio va vista anche dal lato della scuola. Se si vuole disinnescare la spirale per cui le famiglie si lamentano dei docenti e questi delle famiglie, la scuola deve fare una dura autocritica. In sintesi, accenno solo a due problemi: l’autoreferenzialità del sapere scolastico, e i limiti delle attuali forme della didattica nella scuola italiana. Per entrambi mi limito a parlare delle scuole superiori – e probabilmente dei licei, vista la mia posizione – e soprattutto della cultura umanistica.

Il sapere scolastico, attualmente, stanca anche chi lo trasmette, cioè gli insegnanti. Quale altra prova vogliamo del fatto che c’è qualcosa che non va? Nell’ambito umanistico l’impianto fortemente centrato su programmi rigidi e impostati storicamente, per ogni disciplina, rende tutto ormai pesante e ingestibile. La progressiva specializzazione disciplinare rende impossibile fare la storia della letteratura o la storia delle filosofia con la disinvoltura di quando venivano ridotte a schemi semplici, radicati in forti impostazioni ideologiche, o filosofiche, o legate all’identità nazionale. Nessuno accetta più queste ingenuità. E allora queste “storie” (della filosofia, della letteratura, dell’arte) diventano enormi, impossibili da amministrare, proprio come i manuali che le reificano. Sul lato scientifico non ho le competenze per parlare; noto solo che la cultura scientifica continua a essere maltrattata nei licei e nelle scuole italiane, perché è l’ambito in cui i nostri studenti hanno più difficoltà.

Sul terreno delle forme della didattica si possono dire alcune cose più precise che, per quanto ne so, valgono per buona parte delle scuole superiori. La struttura fondamentale che domina quasi incontrastata è sempre quella fondata sull’abbinamento spiegazione-verifica: il docente spiega degli argomenti, con la lezione “frontale” (come viene chiamata in gergo), e poi verifica cosa gli studenti hanno appreso con interrogazioni e compiti in classe. Questa struttura sembra fatta apposta proprio per “lavorare in perdita”. Tutto passa via, in questo tipo di lavoro, tutto si perde senza fermarsi né in oggetti né in rapporti sociali. La spiegazione rischia di trasformarsi in un monologo che per i migliori dei ragazzi è solo funzionale alla verifica, mentre per gli altri passa e basta. Anche nel primo caso non resta qualcosa di stabile nel mondo. Le verifiche, orali e scritte, non sono in nessun modo forme di oggettivazione (nel senso del “modello dell’artigiano”) delle capacità degli studenti, perché sono uguali, anonime, frammentarie, e per le identità dei ragazzi assolutamente irrilevanti: per molti studenti andare male a una interrogazione non ha niente a che fare con la propria autostima, al massimo è un problema per la media scolastica.

2. Da queste difficoltà bisogna partire per pensare in modo diverso il compimento del lavoro dell’insegnante e degli allievi. Il primo terreno su cui muoversi, per arrestare questo dissanguamento, è quello delle forme della didattica. Bisogna pensare a nuove forme, in cui si trovi una stabilizzazione del lavoro che si fa, stabilizzazione che permetta di rendere permanente il frutto di questo lavoro, di trasmetterlo nel tempo e di collocarlo in una sfera pubblica accessibile a tutti.

Un primo terreno è quello delle “oggettivazioni” nel senso classico del “modello dell’artigiano”. Vediamo la cosa dal lato degli studenti. Le interrogazioni e le verifiche per gli studenti sono anonime. Inoltre in esse il loro rapporto con la materia da studiare è superficiale: si tratta solo di ricordare quello che il professore vuole sapere. Bisognerebbe invece fare in modo che gli studenti producano qualcosa in cui è in gioco la loro personalità. Già il solo fatto di presentare di fronte alla classe una relazione frutto di un lavoro di elaborazione personale, magari accompagnata da un documento visivo (powerpoint o altro), già questo permette allo studente di dire “questa è una cosa mia”. Si tratta del modello più accessibile in questo senso: un testo con il proprio nome. Inoltre la presentazione pubblica mette in gioco la personalità dello studente molto più dell’interrogazione: perché deve “metterci la faccia”, parlando di fronte alla classe, e perché deve tenere l’attenzione, spiegare, rispondere alle domande, ecc. In questa direzione altre oggettivazioni possono essere testi scritti: bisognerebbe abituarsi alla pratica di dare piccoli saggi da redigere, sulla base dello studio di testi.

Un secondo modo di salvare il lavoro dell’insegnante potrebbe essere riassunto dalla formula “portare in pubblico”. Se il risultato del nostro lavoro sono relazioni sociali, queste possono esistere nella realtà solo se condivise in uno spazio pubblico. Paradossalmente, nonostante la sua natura di lavoro fondato su rapporti intersoggettivi, l’insegnamento oggi in Italia ha degli aspetti di esasperata privatizzazione. Tutto si conclude nel rapporto tra il docente e gli allievi; questo rapporto, che in sé sarebbe pubblico, dopo un po’ diventa privato, perché la costanza del rapporto crea una familiarità per cui, in un certo senso, “tutto è permesso”. Nessuno oltre agli studenti sa cosa diciamo a lezione; nessuno oltre noi conosce le vere capacità dei nostri studenti. Invece tanto i contenuti delle lezioni quanto quelli delle performance degli studenti potrebbero diventare pubblici. Per esempio promuovendo iniziative che abbiamo come obbiettivo una uscita pubblica degli studenti stessi, come organizzare un dibattito pubblico, o delle loro lezioni, o altro. Questa “pubblicizzazione” dell’insegnamento dovrebbe assumere anche altri aspetti, come poter lavorare in classe con altri colleghi, e far lavorare i nostri studenti anche con altri colleghi.

Questi sono solo alcuni spunti. In generale bisogna pensare a forme della didattica che spingano tanto i docenti quanto gli studenti a sentire il processo educativo come qualcosa che gli appartiene, in cui entrambe le parti stanno costruendo un mondo comune. Per muoversi in questo senso è importante allentare la presa dei programmi ministeriali e i forti vincoli imposti dai manuali. Si dovrebbe invece avere la possibilità di costruire insieme degli argomenti, degni di essere approfonditi, a partire anche dagli interessi propri del docente, e con una adesione libera da parte degli studenti. Da questo ultimo punto di vista, anche l’omogeneità del gruppo classe deve essere abbandonata; a certe iniziative non importa che tutti aderiscano, perché vincolati in quanto appartenenti alla classe, è sufficiente che partecipino quelli che sono interessati all’argomento. L’iniziativa può poi concludersi con una uscita pubblica, con un dossier, con documenti informatici e perché no anche con un libro. Tutto questo salva il tempo e le energie spese.

Guardando la cosa non dal punto di vista didattico, ma dal punto di vista professionale, il problema centrale è il riconoscimento sociale del lavoro degli insegnanti. Bisognerebbe muoversi in due direzioni. La prima è quella del curriculum e della carriera nel senso consueto. Il lavoro dell’insegnante deve essere anche appetibile, non è possibile pensare che venga svolto solo da chi “si sente la missione”, o da chi semplicemente ama stare con i giovani. Deve essere una professione con una prospettiva di avanzamento, tale per cui i migliori non si sentano portati a cercare qualcos’altro dopo un certo periodo di insegnamento. Per questo è necessario pensare a una carriera per gli insegnanti, sulla base delle loro competenze. Questa carriere deve essere legata a un curriculum in cui conta il lavoro effettivamente svolto, cioè proprio il lavoro con gli studenti. Va evitata la tendenza a riconoscere solo quello che è facilmente oggettivabile dall’esterno (incarichi assunti nella scuola, ruoli di gestione, partecipazione a iniziative ministeriali, distacchi, ecc.), trascurando così il cuore della professione. Non avanzo qui nessuna proposta specifica, perché è un terreno particolarmente scivoloso, ma è evidente che una qualche forma di valutazione del lavoro di insegnamento deve essere trovata.

Sul piano della carriera, ovviamente c’è anche il problema delle retribuzioni. L’insegnamento, se svolto bene, richiede delle competenze di altissimo livello, molto complesse. Queste competenze non sono adeguatamente riconosciute dai livelli delle retribuzioni, e soprattutto dal fatto che queste crescono poco nel tempo, solo sulla base dell’anzianità di servizio e dei rinnovi contrattuali. La riflessione sul curriculum deve servire ad agganciare l’aumento delle retribuzioni al miglioramento del proprio lavoro, come opportunità aperta a tutti. Il consenso su questo punto tra gli insegnanti adesso è molto diffuso; il problema è solo trovare un sistema di valutazione e di carriera equo, senza cadere nella sterile contrapposizione tra merito e eguaglianza, come è accaduto spesso su questo tema. Una cosa molto importante è che ci siano dei meccanismi di carriera “ufficiali”, pubblici, che eliminino gli effetti perversi delle “carriere informali” che comunque esistono, anche nella scuola. Sulla base di meccanismi informali, infatti, succede che insegnanti con più anni di insegnamento e con migliori capacità riescano a ottenere le sedi migliori, abbandonando le sedi più disagiate (per ragioni di estrazione sociale degli studenti o di collocazione urbana). Queste ultime, quindi, hanno sempre un personale più instabile e meno qualificato, mentre le sedi migliori (quelle che hanno già gli studenti migliori) hanno un personale più stabile e più qualificato. Se si pensa a una carriera formalmente riconosciuta, si può pensare anche, per esempio, di farla dipendere dal contributo che si dà al miglioramento di scuole con situazioni disagiate: con incentivi per chi decide di insegnare in quelle scuole e di risiederci più a lungo, con una accelerazione della carriera, ecc. Se non si interviene in questo senso rimarremo sempre nella situazione attuale: gli studenti peggiori hanno i professori peggiori o meno motivati o di passaggio, e gli studenti migliori continuano a godere del privilegio di avere l’élite del corpo docente italiano.

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