Cultura e società

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[Supplemento culturale del Sole 24 ore, 29 gennaio 2012]

Qualche giorno fa a Radio Deejay Nicola Savino ha detto qualcosa come «Senza Elio e le Storie Tese la vita sarebbe un po’ meno bella». Radio Deejay non è campo neutro, dato che gli EelST ci fanno un programma ogni lunedì sera da quasi vent’anni (già solo il titolo del programma, Cordialmente, richiederebbe righe e righe di spiegazioni, perché per quello slittamento linguistico che coinvolge molte delle parole usate dagli EelST – e i loro stessi nomi: Elio non si chiama Elio, Rocco Tanica non si chiama Rocco Tanica – al titolo si sono aggiunte, negli anni, infinite irrazionali sconce appendici, impossibili da registrare qui, e il risultato è che oggi il programma si chiama Cardialmente [con la a] gigioneggiamo, ma domani cambierà ancora). Radio Deejay non è campo neutro, ma la verità, detta molto in breve, è questa: la vita sarebbe un po’ meno bella senza gli EelST.

Naturalmente questo si può dire di un mucchio di cose e di un mucchio di persone, e ognuno ha il suo elenco: «il secondo movimento della sinfonia Juppiter, Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues, i film svedesi naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert […], quelle incredibili mele e pere di Cézanne…» (Woody Allen, Manhattan). Sono tutti grandi piaceri: ma sono piaceri per iniziati, che per essere davvero apprezzati richiedono tempo, educazione, applicazione. Le vite medie non sono illuminate da Flaubert o da Cézanne, e anche nelle vite degli intellettuali sospetto che Flaubert e Cézanne contino un po’ meno di quanto agli intellettuali piace raccontare. E poi alla grande arte si collega quasi sempre un po’ d’amarezza: uno può godere dell’Educazione sentimentale, può ringraziare dio che Flaubert l’abbia scritta, ma il finale del romanzo non spinge veramente a pensare che la vita sia bella (qualche suo frammento lontano, semmai, ma ora non più): chiudiamo il libro affascinati, commossi, ma non con il sorriso sulle labbra. E insomma, tra ciò che rende la vita degna di essere vissuta e ciò che la rende «più bella» la sovrapposizione non è perfetta. Kafka, per dire, sta nel primo cesto, non nel secondo; e anche i film svedesi, direi.

Invece le parole «temporeggio bevendo spuma» (Tapparella, degli EelST) sono, per me, una riserva di pura gioia. E anche la rima «E canto please don’t let me be misunderstood / mentre parcheggio nel parcheggio l’Alfasud» (Discomusic). E anche la canzone anti-Forza Italia del 1994: «Siamo piccoli ma in fondo al cuor / c’è un istinto come di elettor / che ci guida ad una nuova speranza / di agio / e di imprenditorialità» (Voglia di Biscione). E anche Gli amori di Toto Cutugno che diventa Grazie Ameri, quello di Tutto il calcio minuto per minuto. E anche tutte le canzoni di Natale scritte per Radio Deejay, in particolare quella che contiene i versi «sta scendendo anche l’effetto / delle benzodiazepine / che il dottore mi ha prescritto» (Presepio imminente). Potrei continuare per pagine. Pura gioia, senza l’ombra di un’ombra.

Per i distratti, o per chi non c’era. Il primo nucleo degli EelST si forma nel 1980 (Elio ha diciannove anni), ma il loro primo disco esce nel 1989: per quasi un decennio si limitano a fare concerti a Milano e in Lombardia e il successo (che è già però un successo interregionale: nella mia cameretta di Torino arrivano verso il 1983-84) cresce attraverso il passaparola e – i lettori sotto i trent’anni si facciano spiegare da un anziano – attraverso le cassettine doppiate da un amico di un amico di un amico, registrazioni dal vivo che di copia in copia finivano per essere praticamente inudibili, un unico lunghissimo effetto neve sonoro: capire il testo di Cara ti amo, che è recitata non cantata, era già una fatica; per i doppi o tripli sensi osceni di Nella vecchia azienda agricola («c’è la cozza tattu piane di sbarro») non c’era speranza: avremmo dovuto aspettare i dischi, la consulenza di amici più informati, internet. Nel 1989 esce «Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu» (che vuol dire qualcosa di atroce, in cingalese), che vende più di centomila copie. Seguono altri otto album, più varie raccolte live. Nel 1996 vincono, arrivando secondi (la contraddizione è solo apparente), il Festival di Sanremo. Nel 1997 girano un film porno con Rocco Siffredi. Negli anni Zero, da soli o in formazione completa, fanno concerti, teatro, televisione, libri, e tra i libri una splendida autobiografia di gruppo, Vite bruciacchiate (Bompiani 2006). E oggi sono forse gli unici in Italia, insieme a Vasco Rossi, ad avere un vero successo intergenerazionale, dai teen-agers ai giovani nonni, diciamo.

Le due cose che si dicono più spesso a proposito degli EelST sono: (a) sanno anche suonare; (b) sono geniali. Anche in Vite bruciacchiate geni/geniali è la parola che quasi tutti gli amici-testimoni adoperano per dire la loro ammirazione. Geniali è molto (e, per una volta, è giusto), ma è anche vago. Se proviamo a scomporre questa genialità, che cosa troviamo? Direi soprattutto tre elementi.

Il primo è la capacità di vedere le cose. È la dote che hanno i poeti, è la ragione per cui leggiamo poesie: Seeing Things è il titolo di un libro di Seamus Heaney. Chi ha letto La pantera di Rilke non guarda più con gli stessi occhi l’animale in gabbia allo zoo. E chi ha letto i versi centrali del canto XXIII del Paradiso («Come a raggio di sol, che puro mei…») se li ricorda ogni volta che gli capita di vedere in lontananza, mentre il cielo sopra di lui è coperto, un prato illuminato dal sole. Naturalmente i poeti trasfigurano il loro quotidiano, non il nostro, e si chinano più volentieri sul sublime che sulle piccole avventure dell’uomo medio sensuale. Ebbene, gli EelST hanno preso in carico questo spicchio importantissimo di realtà. La festa delle medie non esisteva veramente, non era ancora stata veramente vista, prima che gli EelST la vedessero e la descrivessero in Tapparella. E il lato umiliante degli amori adolescenziali aspettava ancora i suoi cronisti: Servi della gleba è questa cronaca.

Il secondo elemento è il talento creativo, l’inventiva che li mette in grado di fabbricare mondi e personaggi fantastici. Gaber è riuscito a scrivere una canzone sullo shampoo; ma gli EelST sono riusciti a scrivere canzoni su figure da mitologia metropolitana come Supergiovane, o Shpalman, o l’Uomo del Giappone, che sembra preso da un film di Lynch, o l’indecifrabile Vitello dai piedi di balsa. Una variante di questa vocazione fantastica è la fizionalizzazione di un dato reale, cioè il ricamare con l’immaginazione attorno a una cosa o a una persona che esistono realmente. «A volte lui se ne va via, non mi sta neanche ad aspettare / mi lascia con Bitossi, mi sembra di impazzire». Questo è il ciclista Felice Gimondi che parla di Merckx, anzi canta del suo rapporto di odio-amore con Merckx in un assurdo crescendo alla Massimo Ranieri (Sono Felice).

Il terzo elemento è il modo in cui gli EelST manipolano la lingua italiana. In Vite bruciacchiate, Elio racconta di com’è nata la sua prima canzone: «A casa sua composi Giorgio légnami, canzone sul problema dell’incomunicabilità, leggendo un bigliettino della ditta San Giorgio Legnami» (p. 18). Qui c’è già in nuce molto di quello che si troverà nelle canzoni future: l’ironia sulle paturnie degli intellettuali (l’incomunicabilità è uno strascico di Antonioni), la caratterizzazione non proprio politically correct del rapporto uomo-donna (uno mena e l’altra incassa, e non le dispiace) e, soprattutto, l’uso delle parole più per il loro suono che per il loro senso, un talento surrealista che porterà a delizie come «Catoblepa catoblepa, io ti dono le mie Tepa». E in realtà la manipolazione non si ferma all’italiano, dato che gli EelST hanno dedicato una canzone in simil-milanese allo Zelig, e sono riusciti a convincere James Taylor (James Taylor, quello di Mexico!) a cantare una canzone in finto-inglese che dice tra l’altro «How you call you? / How many years you have? / From where come? / How stay?».

Per tutto questo, e molto altro, gli EelST si sono meritati le loro due pagine nel bel libro Modernità letteraria a cura di Andrea Afribo e Emanuele Zinato (Carocci 2011), nel capitolo Canzone scritto da Paolo Giovannetti. Il libro fa il punto sulla cultura italiana degli ultimi quarant’anni, e brulica di poeti suicidi o aspiranti suicidi o tenuti su dagli ansiolitici, e da professori di filosofia che aspettano la fine dei tempi o la fine del Capitalismo chiosando Heidegger. Poi uno arriva a pagina 275 e c’è il Pippero, e la sensazione di sollievo è tale da far rimpiangere il fatto che un simile distacco, una simile autoironia e un simile humour non siano stati più presenti nella letteratura e nella saggistica ‘serie’ degli anni 1970-2010. Non tanto per i lettori quanto per gli autori, poverini.

Sarà interessante vederli invecchiare. È sempre interessante vedere come la gente invecchia, ma nel caso dei divi del pop lo è ancora di più, perché i capelli bianchi sono un po’ in contraddizione con la parte che si sono assegnati, o che il mondo gli ha assegnato a vent’anni: e non tutti sono Mick Jagger. Quanto agli EelST, poi, c’è da tenere conto del fatto che questi instancabili sabotatori della retorica giovanilista hanno, per trent’anni, parlato in continuazione di giovani: i tredicenni in Tapparella, i ventenni in Cara ti amo e in Servi della gleba, gli ex-giovani che non si rassegnano in Storia di un bellimbusto. Mi pare che Elio abbia detto una volta che la prossima frontiera sarà la morte: ridere della morte, questo accidente così sopravvalutato (lo stimolo gli veniva dai Monty Python, i fratelli in spirito degli EelST, che durante un’intervista avevano imbastito una gag facendo cadere a terra l’urna contenente le ceneri di uno di loro, morto qualche mese prima). Riuscire a far ridere – ma ridere davvero, non ridere amaro – della morte: li aspetto a questa prova, ardua e degna di loro.

(È cominciato il nuovo tour degli EelST. S’intitola Enlarge Your Penis. Interessa tutti).

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