«La filologia […] è un abito mentale, lo stesso per il quale ciò che ci viene detto o che ci viene fatto leggere ci domandiamo o dovremmo domandarci come l’abbia saputo chi ce lo dice (davvero i due ministri chiusi in una stanza si sono detti le parole riferite dal giornale fra virgolette?); una specie di igiene mentale contro il pressapochismo e l’indifferenza per i fatti […] e la degenerazione delle informazioni […]».[Pietro Beltrami, A che serve un’edizione critica? Leggere i testi della letteratura romanza medievale, Bologna, il Mulino, 2010, p. 12).
Sono parole incoraggianti, per una categoria, quella dei filologi – romanzi, italiani, mediolatini, … –, che, pur indispensabili a parole, risultano di fatto sempre più isolati (anche per loro colpa, certo) nell’Università, nella società civile e nei media di massa (mai visto un filologo in tv?). Eppure c’è anche il rischio che questo richiamo resti vox clamantis in deserto, una pillola consolatoria per addetti ai lavori. E sarà proprio vero che abbiamo ancora bisogno, oggi, di un “occhio filologico”? Come si concilia, all’atto pratico, la prospettiva di chi svolge ricerche su fatti, oggetti e persone lontani almeno sette secoli con quella di chi si occupa di problemi recentissimi (distanti, in media, qualche ora)? Che cosa può insegnare, poniamo, uno specialista della lirica galego-portoghese del XIII sec. ad un giornalista costantemente “sulla notizia”?
Vorrei fare un esempio – ed impostarvi qualche riflessione (procedendo in senso bottom-up) – a partire da un caso di cronaca politica di bruciante attualità (mentre scrivo sono ancora in corso discussioni, movimenti, analisi): parlo del “D-day” di Berlusconi a Montecitorio. Riassumo i fatti ben noti: nel pomeriggio dell’8 novembre scorso ha avuto luogo, presso la Camera dei Deputati, la votazione sul Rendiconto dello Stato; le opposizioni si sono astenute, evitando, da un lato, di ostacolare ulteriormente questo necessario passo della burocrazia parlamentare e verificando, dall’altro lato, gli effettivi numeri del governo. Il voto (308 favorevoli) ha dimostrato l’assenza della maggioranza assoluta alla Camera (corrispondente alla soglia dei 316 voti), aprendo una fase di pre-crisi governativa. In serata, il Presidente del Consiglio, dopo un colloquio con il Presidente della Repubblica, ha dato (con una formula quantomeno singolare) una “promessa di dimissioni”, da concretizzare subito dopo l’approvazione delle norme anti-crisi richieste dall’Europa.
Il risvolto filologico di questa vicenda coinvolge un documento manoscritto: si tratta di un biglietto (celebre per qualche ora) che Berlusconi ha vergato di suo pugno subito dopo la votazione (intorno alle ore 16.10). Un fotografo – Alessandro di Meo dell’agenzia ANSA – è riuscito, con un teleobiettivo, ad inquadrare il foglio, le cui immagini sono state immediatamente diffuse dal sito dell’agenzia (ansa.it) e quindi rilanciate dai principali media (telegiornali e quotidiani online).
Diamo, innanzi tutto, una trascrizione diplomatica del “manoscritto”:
[logo ed intestazione a stampa: Camera dei Deputati]
308 -8 traditori
– ribaltone
– voto
– prenda atto {rassegni | le dimissioni
– Pres Repubblica
– una soluzione
Il foglietto ha subito, comprensibilmente, destato enorme curiosità. Che ha in mente Berlusconi? Quale sarà la prossima mossa? Soprattutto i commentatori hanno concentrato gli interrogativi sulla quarta e quinta riga (le “dimissioni” e la “soluzione”).
Quel che ha da subito colpito il mio (non molto esperto) “occhio filologico” riguarda l’immediata ricezione di questo documento e l’interpretazione allegata dai vari giornalisti. Il sito ANSA, per come ho potuto verificare, ha fornito, oltre alla foto del biglietto, una trascrizione piuttosto fedele, con un unico errore (4° r. «prende atto»).
Sarebbe ragionevole pensare, come ho detto, che tutti i media aggiornati in tempo reale (per i quotidiani a stampa si è dovuto aspettare, naturalmente, il giorno successivo) abbiano indipendentemente attinto la notizia dal sito ANSA. Eppure il quarto rigo del testo – quello più cruciale e drammatico, l’unico a contenere verbi (per il resto si tratta di “frasi nominali”) – è stato del tutto stravolto dai vari “copisti”. Ho raccolto una piccola antologia di errori ed innovazioni (che segnalo col corsivo):
«prendo atto, rassegno le dimissioni»
(liveblogging de ilpost.it, 8/11/11, )
«prendo atto (rassegno le dimissioni)»
(A. Scanzi, “Gli appunti di Mister B.”, ilfattoquotidiano.it, 9/11/11)
«prendo atto (rassegni le dimissioni)»
(sez. foto di repubblica.it, 8/11/11)
«prendo atto, rassegno le dimissioni»
(liveblogging di unita.it, 8/11/11)
«prendo atto (parentesi graffa) – rassegno le dimissioni»
(A. Salmaso, “Giustina destro: Ora Napolitano apra una fase nuova”, mattinopadova.gelocal.it, 9/11/11)
«prendo atto: rassegno le dimissioni»
(liveblogging de ilfattoquotidiano.it, 8/11/11, ore 17.23)
«prendo atto e rassegno le dimissioni»
(Nanopress.it, 8/11/11)
«prendo atto, rassegno le dimissioni»
(TM News, 8/11/11)
«prendo atto (rassegno le dimissioni)»
(Newnotizie, 8/11/11)
Con poche variazioni, la lettura erronea è stata ripetuta nei principali telegiornali e speciali di approfondimento (ma i servizi interni ai tg hanno offerto generalmente una lettura corretta). Così è avvenuto, in modo bipartisan, per Bianca Berlinguer (Tg3), Enrico Mentana (TgLa7), Bruno Vespa (“Porta a Porta”).
Partendo dal medesimo errore (ma è difficile dire chi è l'”archetipo della tradizione” se l’ANSA forniva un testo quasi corretto, corredato da foto dell’originale), i vari giornalisti hanno dato un’interpretazione pressoché unanime del testo di Berlusconi: il biglietto – hanno spiegato – sembra essere una sorta di agenda, una lista delle cose da fare nell’immediato. In aula, quindi, il premier pensa alla possibilità di rassegnare subito le dimissioni e riflette su una soluzione concreta alla crisi di governo che si è appena aperta. Il, peraltro ottimo, direttore del TgLa7, Enrico Mentana, ha addirittura mandato in video un ingrandimento del biglietto («la lente del filologo»), ripetendo l’errata lettura ad alta voce («prendo atto: rassegno le dimissioni»), nonostante l’originale fosse ben visibile in gigantografia.
Interpretando in questo modo il documento, esce (uscirebbe) di Berlusconi un’immagine davvero preoccupante (o più preoccupante di prima): un grave caso clinico da sottoporre d’urgenza ad un neurologo o ad uno psicologo d’indirizzo cognitivista. È davvero ragionevole pensare che, in un momento del genere, il Presidente del Consiglio debba annotarsi le cose da fare? Corre il rischio di dimenticarsi di dare le dimissioni o di cercare una soluzione?
Partendo dalla falsa lettura («prendo atto: rassegno le dimissioni»), non è mancata, infatti, l’ironia. Così Andrea Scanzi, nell’articolo citato (“Gli appunti di Mister B.”): «Il bigliettino di appunti, visto con lo sguardo di Freud, ma pure di Jung, ma pure di Crepet, è una elencazione psicotica di banalità. Sarebbe come se una persona, da poco svegliatasi, cercasse un foglio e ci scrivesse: “Respirare”, “Minzionare” [sic], “Bere”, “Mangiare”, “Dormire”. (Manca “macho clacson campana” e poi facciamo il Gioca Jouer)».
Ma allora qual è il senso del foglietto? La risposta, credo, viene dal contesto in cui si è svolto l'”atto di scrittura”, verificabile nelle riprese della giornata parlamentare (cfr. ad es. il video di Francesco Cocco: <http://video.repubblica.it/dossier/crisi-italia-2011/bersani-parla-berlusconi-scrive-il-foglietto-sui-traditori/80277?video>). Fini ha appena letto a voce alta l’esito della votazione; Berlusconi è seduto ai banchi del governo; sono le ore 16.13 quando Bersani prende la parola per una comunicazione (di 5 minuti circa) sul voto concluso. Ora, è evidente (ed alcuni giornalisti attenti lo hanno sottolineato) che Berlusconi scrive il biglietto proprio mentre Bersani sta parlando. Trascrivo (e corredo di corsivi) un estratto del dicorso:
«Io le chiedo, signor Presidente del Consiglio, con ogni forza, che lei prenda atto finalmente della situazione, che compia un atto, che rassegni le dimissioni, che affidi al Presidente della Repubblica la ricerca di una soluzione che metta in grado il nostro grande paese di affrontare questa emergenza».
Se confrontiamo il testo dell’intervento di Bersani, è chiarissimo che il biglietto (almeno nella seconda parte: rr. 4-6) è una appunto del discorso dell’avversario (il che spiega anche l’uso dei verbi alla 3a p.s.). Non gli intenti segreti del premier, quindi, ma le parole e gli inviti dell’avversario politico. Nelle prime righe del biglietto Berlusconi ha preso nota, a quanto pare, dei numeri (308 votanti, quindi 8 “traditori” che lo separano dalla maggioranza assoluta) e delle opzioni che si aprono in questa fase: voto immediato oppure “ribaltone” (ovvero governo allargato non legittimato dal voto).
Che poi Berlusconi abbia effettivamente, in prima persona, “preso atto” e “rassegnato le dimissioni” è stato l’effetto – come hanno sottolineato alcuni cronisti all’uscita del comunicato della Presidenza della Repubblica – dell’ostinata moral suasion di Napolitano e non della spontanea scelta del premier. Insomma, un bel pasticcio, che i quotidiani a stampa usciti all’indomani non possono che emendare in ritardo (il 9/11/11 Repubblica, il Corriere della Sera, La Stampa, ecc. riportano correttamente: «prenda atto: rassegni le dimissioni): la notizia del biglietto, una volta consegnata la promessa di dimissioni, è già vecchia, superata.
Stiamo ancora al documento: nella nostra interpretazione abbiamo restituito un po’ di equilibrio mentale al premier. Ma perché Berlusconi ha sentito l’esigenza di annotare le parole di Bersani? Parole quasi ovvie e, in un certo senso, ridondanti? «Berlusconi, si deve dimettere» è, tra l’altro, una delle frasi che pronuncia la marionetta bersaniana de Gli Sgommati, equivalente italiota de Les Guignols de l’Info del francese CanalPlus.
Lascio la risposta definitiva ai “berluscologhi” più esperti. Per parte mia rilevo che questo ultimo atto di scrittura “fa sistema” con altri simili atti del premier. In situazioni di stress emotivo (soprattutto durante i confronti tv delle passate campagne elettorali) Berlusconi è solito presentarsi munito di foglietti su cui scribacchiare (o fare schemi geometrici) durante gli interventi dell’avversario o anche nel corso della propria replica. È ormai un cult lo spot elettorale in cui la mano del Cavaliere è inquadrata nell’atto di scrivere una lettera agli italiani («Cara amica, caro amico…»). E sulla mano berlusconiana che firma il celebre “Contratto con gli Italiani” indugiarono ad arte le telecamere di Vespa. Se, anche per il nostro documento, vale la connessione “scrittura” – “apertura di campagna elettorale”, abbiamo qualche indizio per interpretare le reali intenzioni del premier, che tutto è tranne che un dimissionario per vocazione.
Il ruolo del filologo, dicevamo all’inizio, è sempre più marginale nell’Università italiana, anche (in qualche caso) per colpa di studiosi avulsi dalla realtà, eruditi simili allo strampalato don Ferrante di manzoniana memoria (la crisi è la nostra peste bubbonica). Tornando alla questione iniziale: c’è ancora bisogno di filologia? Sì, della filologia c’è molto bisogno. Sia di quella di profilo accademico in senso stretto – per l’ambito romanzo, che conosco più da vicino, è ancora moltissimo il lavoro da fare, tanti i testi (non solo minori) da riscoprire, “restaurare”, valorizzare – sia della filologia in senso lato, «scienza dell’accertamento della fondatezza dei dati».
E che cosa può insegnare il nostro specialista di lirica galego-portoghese ad un blogger o ad un giornalista? Niente, forse. Nel senso che non si tratta di dare lezioni non richieste (e neppure avrebbe senso tra persone che fanno bene il proprio mestiere: il buon giornalista conosce già l’importanza di verificare le fonti). Ma il primo professionista, probabilmente – abituato a lavorare sui testi con la cura del biologo che manipola un campione microscopico di materia – può ricordare al secondo (costretto a gestire fiumi di testi che escono a getto continuo) l’importanza del dettaglio: la prima o la terza persona singolare di un verbo possono condizionare l’interpretazione di un documento, di un fatto, di un intero carattere. Ancora, da un punto di vista più materialistico: con le borse che s’impennano e sprofondano ad ogni sussulto di una politica traballante (si dimette? Non si dimette? …Ma si dimetterà davvero?), possiamo ancora permetterci di essere poco precisi? Non ora. Non oggi.
Piazzato sul mercato il counseling filosofico (e quanto sono bravi gli eterei filosofi a macinar soldi!) arriverà l’ora del counseling filologico da proporre alle Scuole di Giornalismo (e Master collegati) che, negli ultimi anni, hanno avuto grandissima fioritura?