Teatro

Fratto X



[In una versione più breve sul Domenicale del Sole 24 ore, 23 dicembre 2012]

Vorrei portarmi avanti e anticipare almeno un po’ degli elogi postumi che verranno resi ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella, “due dei massimi artisti italiani tra XX e XXI secolo” (Arte in Italia 1950-2050, edizioni Libridicarta 2055).

La prima volta che incontro Rezza, su un muretto fuori del teatro dell’Antella, Firenze, gli domando quali sono i loro modelli, che cosa leggono, e lui mi dà la risposta che merito: “Non so, io non leggo niente, con Flavia [che non va in scena ma è la co-autrice degli spettacoli di Rezza, e la creatrice degli ambienti nei quali Rezza si muove] ci siamo divisi i compiti, quella che legge è lei”. Più tardi trovo la conferma in un video su YouTube dal titolo Antonio Rezza incontra Antonin Artaud: “Antonin Artaud è stato un grandissimo pensatore… Io ho tutti i libri di Artaud, non ne leggo nessuno… Ho iniziato a leggerne qualcuno, ma lo trovo così incomprensibile, così distante… Questo mi ha portato a collezionare tutti i libri senza sfogliarne neanche uno, ma io so che la grandezza è in quello scaffale”. E il discorso potrebbe finire qui, dovrebbe finire qui, sennonché la deformazione professionale mi porta a balbettare più o meno la stessa domanda al nostro secondo incontro, alla prova generale di Fratto X: “… no, perché è davvero difficile darvi un contesto, situarvi…”. Risposta: “Vabbè, e meno male”, e discorso davvero chiuso, a situare Antonio Rezza e Flavia Mastrella nella storia del teatro ci penseranno gli esperti – viventi ancora gli interessati, mi auguro. Ma è probabile che la conclusione sarà semplicemente questa: che il loro teatro non è paragonabile a niente.

Rezza e Mastrella lavorano insieme da più di vent’anni. Una piccola percentuale di italiani ha visto le loro opere a teatro: cinque in un quindicennio, e chi le conosce sa perché tra l’una e l’altra devono correre tre anni: perché Rezza e Mastrella fanno tutto da soli, partendo da zero ogni volta, e non si ripetono. Una percentuale anche più piccola ha visto i loro film (Escoriandoli, che si trova per intero su YouTube, Delitto sul Po). Una percentuale un po’ più alta ha intravisto Rezza in TV, o lo ha intrasentito in radio: è stato ospite di Linus a Radio Deejay, di Daria Bignardi alla Sette – interviste venute male, anche quella con Linus, che pure è un virtuoso del genere, perché Rezza è un timido aggressivo e, vinto dall’imbarazzo, perde tutta l’ironia e si mette a pontificare. Ma non gli hanno mai dato una striscia serale su Rai 3, o la conduzione di Domenica In. Uno si domanda come il pensionato in poltrona accoglierebbe, al posto delle pillole di saggezza di Giletti, certe massime lapidarie come (da Escoriandoli) “Dei vivi restano solo le cazzate” o “La speranza la lascerei agli stronzi”, o lo sketch sui due genitori che si drogano di nascosto dal figlio reazionario. Le accoglierebbe bene, probabilmente: il pubblico non è maturo ma matura, se gli si dà un po’ di corda, e di solito l’intelligenza, sgomitando, trova la sua strada.

Di fuori, il tempo non li ha cambiati molto. Rezza è rimasto magro, così magro da sembrare alto (non è alto): e all’impressione collabora la testa lunga e scavata da affamato, i lineamenti da zingaro. Di dentro, la maturità ha portato una specie di rasserenamento. Chi ha visto i loro primi ‘corti’, e anche Escoriandoli, ha conservato soprattutto una sensazione d’angoscia. Erano pieni di figure atroci, di mutilati psichici e fisici lasciati a marcire in un deserto (“Amici zero, genitori due. Genitori batte amici due a zero. Risultato secco. Tra una cinquantina d’anni, quando non ci saranno più i genitori, porterò a casa un pareggio per zero a zero”). Quel pessimismo non è scomparso, perché si è come si è, ma cogli anni è arrivata anche la saggezza, e quello che faceva soffrire o indignare a trent’anni fa soprattutto ridere a quaranta: si scopre che sotto il sole non c’è, oltre che niente di nuovo, niente di serio. Vale il motto di Beckett, “en face le pire / jusqu’à ce qu’il fasse rire”, salvo il fatto che, a differenza di Beckett, Rezza e Mastrella ridono veramente, e fanno ridere, e non sono mai noiosi.

Il metodo di questi grandi derisori combina insieme tre ingredienti: scrittura, voce, corpo. La scrittura è scorciata, aforistica, zeppa di parallelismi e di giochi di parole. Ma non c’entra niente con, diciamo, la scrittura di Bergonzoni, perché più che giocare sui significanti gioca sull’idiozia dei clichés della comunicazione corrente: il brano che ho citato sopra continua: “Interessi zero. Interessi e amici zero a zero. In un ipotetico triangolare, gli unici che vanno a punti so’ i genitori … Genitori zero; genitori e amici zero a zero. S’è chiuso un ciclo”. Ipotetico triangolare, andare a punti, ciclo che si chiude: è tutto formulario del calcio televisivo. I giochi di parole abbondano semmai nei racconti che Rezza ha pubblicato per Bompiani: che anche per questo funzionano molto meno bene dei testi recitati a teatro o nei filmati. Ma naturalmente non solo per questo: il fatto è che a teatro e nei filmati le parole escono deformate dalla voce, e la voce esce dal corpo deformato di Rezza, e questo sinolo di parole-voce-corpo si trova fasciato (quarto ingrediente, ma primo per importanza) dalle perfette scenografie di Flavia Mastrella, e il prodotto finito è un Gesamtkunstwerk in cui, anziché la Cavalcata delle Valchirie, risuonano frasi come “E pure ’sta giornata la semo quasi tramortita”.

Di cosa parlano Rezza e Mastrella? Cioè: di chi? Perché Rezza e Mastrella sono dei ritrattisti, non dei narratori (Mastrella: “i contenuti si addensano e lo spettatore vive in una macchia di Rorschach. Le performances durano tra gli ottanta e i novanta minuti, il tempo giusto per non scadere nell’approfondimento”: dall’intervista che apre La noia incarnita, a cura di Rossella Bonito Oliva, Barbès Editore 2012). Volendo generalizzare, isolare un tratto comune, si tratta quasi sempre di esseri umani in difficoltà, dove la difficoltà è data, più che dalla miseria privata (che pure c’è, in forme accoranti), dalla miseria circostante, cioè dalla frizione tra l’essere umano nudo (in scena, Rezza è quasi sempre a torso nudo) e il mondo, la società e le sue leggi, i suoi mandanti: parenti ossessivi, datori di lavoro prevaricanti, conoscenti molesti. Di fatto, il teatro di Rezza e Mastrella è un teatro di monologhi: quelli che vediamo sono i riflessi, le conseguenze che le angherie del mondo provocano sul corpo e sullo spirito del pover’uomo che le subisce. Ma nessuno più di loro è lontano dal cattivo gusto della denuncia e del moralismo (Rezza: “Nei temi disdegniamo tutto ciò che richiami il contingente. I nostri eroi non mangiano, non lavorano, non hanno posizione sociale. Sono lì per sbaglio”). Sono mali dell’esistenza più che mali della società, perciò immedicabili: anche se non lo direbbero mai in un modo così magniloquente, più della condizione umana oggi, a Rezza e Mastrella interessa la condizione umana tout court. L’unico rimedio è la passività, l’inazione, ammazzare il tempo non facendo niente. Per questo i personaggi di Rezza e Mastrella stanno così spesso in orizzontale, su un letto o per terra, e per muoversi da un posto all’altro, piuttosto che camminare, strisciano. E stanno da soli. Alla fine, l’unica cosa che si salva, e che salva, nel mondo di Rezza e Mastrella, è la solitudine, starsene per conto proprio: gli altri non saranno l’inferno – loro non ripeterebbero senza ridere queste frasi storiche – ma un po’ stronzi sì.

Filmati e brani teatrali di Rezza e Mastrella si trovano su YouTube. E fino all’inizio di gennaio il loro nuovo spettacolo, Fratto X (splendido), è in scena a Roma, al Teatro del Vascello, poi in giro per l’Italia. L’alternativa è aspettare gli elogi postumi.

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