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Su “Fabbricare e trasmettere la storia nel Medioevo” di Armando Antonelli

Domenicale del Sole 24 ore2 Gennaio 2022

Nei Poeti del Duecento di Contini – tuttora, a distanza di sessant’anni, l’antologia che fa testo per gli studi sulla poesia del primo secolo – c’è un lungo testo adespoto e anepigrafo che gli studiosi hanno battezzato Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, perché si tratta appunto metricamente di un serventese (strofette di tre endecasillabi in rima tra loro più un quinario che rima con gli endecasillabi della strofetta successiva) e perché racconta vicende che riguardano la lotta tra queste due insigni famiglie bolognesi, ghibellina l’una guelfa l’altra, tra il 1274 e il 1280; in particolare, un episodio di questa lotta diventato celebre soprattutto perché vi allude Dante nel canto XXXII dell’Inferno (siamo nel Cocito, fra i traditori di chi si fida, parla Bocca degli Abati): «Se fossi domandato «Altri chi v’era? […]? / Gianni de’ Soldanier credo che sia / più là con Ganellone e Tebaldello, / ch’aprì Faenza quando si dormia». In compagnia, qui, di traditori celebri presi dalla cronaca fiorentina (Gianni dei Soldanieri) e dalla letteratura (Gano di Maganza, che tradì Orlando), Tebaldello Zambrasi è l’uomo che nel novembre del 1280 fece entrare i guelfi bolognesi, i Geremei appunto, dentro le mura di Faenza: e ne seguirono vendette e stragi, e la cacciata dei ghibellini dalla città. Il casus belli – dicono le fonti – fu un maiale: o forse un paio «pulcerrimos porcos» (a dirlo è il tardo trecentesco commento alla Commedia di Benvenuto da Imola) che i Lambertazzi rubarono a Tebaldello, il quale per vendicarsi vendette Faenza ai Geremei. Verità o leggenda? Difficile dirlo: ma le pagine in cui Antonelli discute del rapporto tra questo bizzarro aition e la bolognese festa della porchetta (che potrebbe aver ispirato l’autore del poemetto) sono tra le più istruttive del libro.

Sino ad oggi si credeva che il Serventese fosse stato scritto a ridosso dei fatti narrati, ultimi anni del Duecento, da un guelfo impegnato a gettare discredito sulla parte avversa. Le ricerche di Armando Antonelli sembrano portare in una direzione diversa. Il Serventese non è, secondo la sua ricostruzione, la cronaca di eventi quasi contemporanei bensì un racconto retrospettivo frutto di un’intenzione politica più raffinata: un racconto che è possibile datare agli ultimi anni del Trecento, quando a Bologna si trattava di salvare la res publica mostrando ai cittadini i danni («debolezza militare, reggimenti iniqui e lacerazioni nel tessuto politico-sociale») che nella storia della città avevano causato le divisioni intestine e la lotta tra le parti. La storia si ripeteva, o rischiava di ripetersi a distanza di un secolo, e il recupero di quell’antico episodio, tradotto in versi, poteva valere come ammonimento.

Per dare spessore al racconto, l’autore del poemetto mette a partito fonti diverse: l’Inferno di Dante, il Chronicon primo-trecentesco di Francesco Pipino ma soprattutto le carte d’archivio, tra le quali egli mostra di muoversi con agio e competenza: «traspaiono nel testo alcune competenze dello scrittore riconducibili, verosimilmente, alla sua condizione professionale, probabilmente quella di notaio, sia al suo ruolo pubblico, sia agli incarichi burocratici svolti all’interno degli uffici cittadini, che gli permettono di venire a stretto contatto con la documentazione duecentesca». Tali indizi portano, se non a una vera e propria proposta di attribuzione, a un’indicazione di pertinenza, cioè all’individuazione di un nucleo di notai che poterono avere un ruolo – autori, co-autori, consulenti – nella redazione del Serventese, primo fra tutti quel Giacomo Bianchetti, grand commis del comune bolognese che sullo scorcio del Trecento fu sovrastante della Camera degli atti, ovvero dell’archivio cittadino.

Lui o uno dei suoi colleghi rilesse le antiche lotte tra Lambertazzi e Geremei senza parteggiare per gli uni o per gli altri ma cercando di restare super partes, e semmai difendendo la causa del popolo bolognese contro i magnati di entrambe le fazioni: «la ripresa e l’attualizzazione di un episodio […] presente alla memoria, perché aveva trovato spazio nell’Inferno dantesco, poteva prestarsi facilmente a un suo rimodellamento in previsione dell’elaborazione di un serventese politico che offrisse la rilettura dei fatti salienti, ormai mitizzati, della storia comunale bolognese nella prospettiva di chi (il populus) aveva raggiunto o si candidava ad ottenere la guida della res publica».

Tutto questo è, diciamo così, localmente interessante, nel senso che permette di rettificare di un secolo la datazione della «più antica poesia volgare propriamente storica della letteratura italiana fuori dall’àmbito lirico» (Contini), che a questo punto non sarebbe la più antica. Non è poco. Ma il lavoro di Antonelli ha un interesse più ampio che viene dalla sua lezione di metodo. La lezione, a compendiarla in una frase, è che gli studiosi di poesia premoderna farebbero bene a impratichirsi anche nella ricerca d’archivio. La parte più interessante del libro non è infatti quella in cui si vagliano le cronache di Bologna e i commenti alla Commedia, tutti noti, ma quella in cui lo studioso accompagna il lettore in una visita guidata tra i registri dei notai bolognesi a cavallo tra Tre e Quattrocento: fonti nuove, non viste o non valorizzate da nessun altro, che restituiscono in modo molto vivido il probabile ambiente di produzione del Serventese.

Come ha osservato Isabella Lazzerini, la storia della letteratura e quella della pratica cancelleresca e notarile hanno collaborato soprattutto negli studi su Firenze: «qui, la doppia vita di uomini come Coluccio Salutati, Leonardo Bruni o Niccolò Machiavelli ha permesso un’analisi incrociata della loro esperienza in quanto umanisti, storici e teorici della politica, e della loro quotidiana attività di professionisti della scrittura pratica». A un livello che non può essere quello di Coluccio o del Bruni, anche a Bologna – stando a quanto Antonelli documenta in questo libro – sembra che abbia avuto luogo un analogo incrocio d’esperienze. Se è lecita una piccola critica, una storia così interessante avrebbe forse potuto essere raccontata con, diciamo, uno stile da libro più che con uno stile da saggio accademico, anzi in più punti super-accademico perché irto di date, dati, nomi, segnature, rinvii bibliografici non sempre indispensabili (nessun bisogno di citare Genette o simili quando si parla di ipo- o intertesti). Dalla storiografia francese e anglosassone ci giungono saggi a volte anche troppo romanzati; da noi vige di solito un rigore calvinista un po’ punitivo. Forse si potrebbe trovare una virtuosa via di mezzo.

Armando Antonelli, Fabbricare e trasmettere la storia nel Medioevo, Fabrizio Serra Editore 2021.

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