Nella seconda metà dell’Ottocento – timidamente prima dell’Unità, con slancio dopo – l’università italiana si rinnova e si aggiorna. Il rinnovamento passa attraverso l’assunzione in ruolo di giovani studiosi che per merito o per censo hanno avuto l’opportunità di perfezionarsi nelle grandi università europee. L’aggiornamento passa attraverso lo studio e l’imitazione di ciò che veniva pensato e scritto in Francia, Gran Bretagna e, soprattutto, Germania.
Questo fenomeno interessò tanto le scienze quanto le discipline umanistiche. In un libro molto importante uscito qualche anno fa, Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Lucio Russo e Emanuela Santoni hanno descritto, tra l’altro, il panorama della scienza italiana nell’età del Risorgimento, e hanno mostrato come il rinsaldarsi, in quel periodo, dei rapporti con gli scienziati francesi e tedeschi abbia contribuito in maniera decisiva ai futuri successi italiani nella matematica e nelle scienze della vita. Sono contatti personali che seguono i viaggi d’istruzione che i giovani accademici compiono all’estero, o i soggiorni di grandi scienziati stranieri in Italia (Riemann è alla Normale di Pisa nel biennio 1863-65); ma diventano presto rapporti di scuola, rapporti tra istituzioni, perché al di là delle iniziative dei singoli le università italiane cominciano a trasformarsi in poli di ricerca visibili, se non ancora attrattivi, nel quadro internazionale.
A questo progresso nella scienza corrisponde – come documentano Russo e Santoni – un progresso nell’impegno civile e politico degli scienziati, che diventano senatori, ministri, direttori generali nei ministeri: «L’impegno politico degli scienziati, prima nelle lotte risorgimentali e poi nel lavoro legislativo e amministrativo necessario sia per la costruzione delle strutture didattiche e scientifiche nazionali sia per contribuire al progresso civile del paese, è un aspetto essenziale della loro azione (che gli accademici di oggi hanno spesso difficoltà ad apprezzare)».
L’ultimo libro di Alfredo Stussi, Filologia e linguistica dell’Italia unita, esplora il versante umanistico di questo processo. È un’esplorazione cominciata molto tempo fa, perché Stussi ha sempre diviso il suo tempo tra la pratica della linguistica e della filologia e la ricostruzione e la riflessione sulla storia di queste discipline. Ora, dopo una raccolta dedicata a studiosi del pieno Novecento (Amici e maestri, Il Mulino 2011), torna all’epoca che forse predilige, l’epoca che si può chiamare di fondazione degli studi filologico-linguistici in Italia, cioè il cinquantennio che va dall’Unità alla prima guerra mondiale.
I padri fondatori, nonché gli eroi della storia raccontata da Stussi, sono uomini (no, niente donne, neanche l’ombra: uno non può fare a meno di ripensare con una stretta al cuore al saggio di Fortini su La sorella Paolina) come il dialettologo Carlo Salvioni, lo storico della letteratura Alessandro D’Ancona, il filologo romanzo Ugo Angelo Canello, il linguista Adolfo Mussafia, il filologo e bibliotecario Salomone Morpurgo; ma su tutti svetta Graziadio Isaia Ascoli, «il più grande linguista italiano di tutti i tempi», nonché «uno dei pochi intellettuali di livello europeo di cui disponesse il neonato Regno d’Italia» (giudizio superlativo, da parte di uno studioso che non ama i superlativi).
Non sono sicuro che questo breve elenco di nomi invogli alla lettura il non filologo o il non linguista. Si tratta di studiosi sommi, ma che (Ascoli incluso, temo) dicono poco o niente a chi non è del ramo. Perché dunque chi non è del ramo dovrebbe volerne approfondire la conoscenza? Perché questo, come gli altri libri di Stussi, oltre ad essere un libro di storia disciplinare è un libro di storia tout court. Vale a dire che ci sono i ritratti degli eroi, ma le loro vicende personali e le loro opere sono studiate su uno sfondo di eventi e mutamenti e idee molto più grandi: come il farsi dell’Italia, e dell’università italiana, dopo l’Unità, o come l’impegno politico e poi bellico dei letterati irredenti. E càpita anche che l’ordine s’inverta e lo sfondo balzi in primo piano, come accade nei due saggi più impegnativi della raccolta: il primo, che alla raccolta dà il titolo, e il nono, Nazionalismo e irredentismo degli intellettuali nelle Venezie. Quanto ai ritratti, la luce largamente prevale, ma non mancano le ombre: niente agiografia, insomma.
E tra i tanti passaggi che si potrebbero citare a questo proposito eccone uno molto bello, e che fa molto pensare, sulla transizione dallo (semplifico) studioso-intellettuale allo studioso e basta, che è il prezzo che si paga per l’affinarsi della disciplina, o per il mutare dei tempi, o per chissà quale altra ragione: «I tempi erano cambiati: con Salvioni è definitivamente tramontata quella figura di studioso che, si chiamasse D’Ancona, Ascoli o Carducci, presentava, con diversi dosaggi, una felice e inscindibile commistione di dedizione agli studi e di impegno civile, di ricerca minuziosa, e di sintesi storica non neutrale, ma improntata sempre a un superiore equilibrio. In D’Ancona quanto è tecnicamente imperfetto, è riscattato da un progetto magnanimo, dove l’esperienza risorgimentale è ancora lievito stimolante. Diverso il caso di Ascoli, che è scienziato di livello europeo; ma da lui a Salvioni si avverte lo stesso impoverimento che porta da D’Ancona a Rajna, che porta insomma a studiosi di grande, ma spesso esclusivo specialismo».
Poche righe, ma sufficienti a mostrare come la descrizione delle personalità diventi descrizione di rapporti, e i rapporti a loro volta illuminino la storia delle idee, che a sua volta rappresenta un aspetto capitale della storia italiana ed europea. Capacità di sintesi, complessità di visione, qualità di scrittura (si rilegga anche solo il brano citato): sono virtù che permettono a questi saggi di reggere il paragone con quelli che grandi studiosi del passato come Sebastiano Timpanaro o come Arnaldo Momigliano hanno dedicato alle loro discipline.
C’è infine un piacere nascosto tra le pagine di questo libro non facile, ed è il piacere di scoprire, o di ricordare, in che modo corrispondevano, come suonava la prosa epistolare dei dotti di fine Ottocento. Detta così, può sembrare una cosa non particolarmente tentante, ma facciamo la prova. Questo è Ascoli che, in una lettera fluviale, fa a pezzettini un saggio di Oddone Zenatti: «Ora, come si comporta Lei dinanzi a questa ricostruzione storiale? Chiude gli occhi per modo di non vedere se non sola l’ultima serie; e contro l’eloquenza della verità, che, pure in questa sola, è tanto gagliarda, Ella si dibatte con quella disperazione che è il giusto castigo della verità trascurata od offesa». E questo è Carlo Salvioni che risponde a una richiesta d’informazioni venutagli da Adolfo Mussafia: «Illustrissimo Signore, Io non so come renderle degnamente grazie delle di Lei troppo buone parole le quali io non accetto che come prova della squisitezza dell’animo Suo e come incoraggiamento a far qualche cosa in quel campo di studî ch’Ella ci ha aperto e nel quale ha impresso orme sì profonde. Colla dimanda ch’Ella mi muove Ella mi fa un po’ l’effetto del ricco che chiede al povero; sennonché nel rispondere io Le arrecherò il parere d’un altro ricco che è il Flechia; il quale adunque crede che il dialetto dell’iscrizioncella…».
Di fronte a paragrafi come questi vengono in mente idee che non hanno niente a che vedere con la filologia o con la linguistica, e più che idee domande: era soltanto un altro uso del linguaggio, un’altra retorica? O questi estremi di severità e di gentilezza dicono anche qualcosa di significativo sui caratteri? E la totale assenza d’ironia che rintocca in ogni loro frase, questa mancanza di distacco, nella loro severa dedizione alla linguistica storica (ma come in qualsiasi altra severa dedizione?), questa serietà terribile – tutto ciò non ha a che fare in qualche modo con l’essere? Col che, naturalmente, si lascia il piano della ricostruzione storica (l’unico lecito) e si entra nel regno del romanzesco: materiale buono per le biografie immaginarie di Nabokov, di Sebald.
Ma è solo per dire che leggendo le lettere di Ascoli o di D’Ancona, o la biografia dell’umbratile Carlo Salvioni, che passati i cinquant’anni si scopre interventista e manda due figli a morire al fronte, o quella del villain Francesco Corazzini, arruffone e antisemita, che per tutta la vita bussa invano alle porte di un Accademia che, giustamente, lo tiene a distanza, leggendo tutto questo si avvertono risonanze più profonde di quelle che restituisce, di solito, la storia dell’erudizione. Profonde, e anche leggermente sinistre.