Uno non si aspetterebbe di trovare in rete un documentario sulla Mongolia in cui a un bel momento Julia Roberts, allora un po’ più che trentenne, si mette a fare i suoi bisogni a dieci metri da una yurta (o gher, come la chiamano loro), la tipica casa-tenda dei pastori mongoli, e invece… In realtà non proprio l’attimo dell’accovacciamento o squatting, ma quello subito precedente:
«Uhm, ho dimenticato di chiedere dov’è il bagno», dice pensierosa mentre esce dal gher nel quale i suoi ospiti l’hanno appena accompagnata. La camera inquadra un ragazzino di spalle, in piedi, che fa la pipì. Il sole sta per tramontare, il vento soffia forte. «Ah, capisco».
Dice il sito della PBS – il canale pubblico americano che ha commissionato il documentario – che nel 2000 Julia Roberts ha trascorso «several weeks with a nomadic family, living exactly as the family does, in a one-room transportable ger, with no bathroom, no running water, and no heat». È tutto vero: il gher smontabile e trasportabile, l’assenza di gabinetti, acqua corrente, riscaldamento (a parte la stufa che si usa per cucinare, e che la notte resta spenta). L’unica bugia evidente è quella relativa alle «several weeks». Perché nessuno può vivere, nessuno può voler vivere «several weeks» insieme ai pastori mongoli, men che meno l’attrice che nell’arco di ventiquattro mesi ha inanellato (1) la commedia sentimentale che chiude gli anni Novanta, Notting Hill (sempre lei aveva aperto il decennio con Pretty Woman), (2) il non abbastanza apprezzato Runaway Bride (comunque: 150 milioni di dollari al botteghino USA, più di Notting Hill), nonché (3) la commedia-inchiesta Erin Brockovich, con cui vincerà un Oscar come migliore attrice protagonista.
No, «several weeks» di gher, e cagare nei prati, è impossibile. La mattina di quello che dev’essere il secondo o il terzo giorno, Julia Roberts è già mezza disfatta. Sempre bella, si capisce; ma ha gli occhi gonfi per il sonno intermittente, uno strato di polvere addosso, il freddo nelle ossa («quel tipo di freddo che non avrai mai più caldo nella tua vita»), i capelli come Pampurio. «Non sono abbastanza forte. Mi piace il mio bagno, mi piace la privacy: credo che non esista neppure una parola mongola per privacy!». Per quello che doveva fare – andare a cavallo, mungere i cavalli, domarli, cioè guardare gli allevatori mongoli che li domano, riprendere i suoi ospiti e sé stessa nel gher e fuori – sarà bastata una settimana. A me e alla mia piccola squadra di compagni di viaggio sono bastati sei giorni, spostamenti compresi.
Il secondo Grande Americano che è stato in Mongolia e ha lasciato testimonianza, anzi primo cronologicamente (e anche per importanza, almeno per me) è Gore Vidal, che va in Mongolia a spese di «Vanity Fair» insieme all’amico-compagno Howard Austen e a un fotografo (foto di lui elegantissimo in completo blé e cravatta regimental anche nel deserto, sul sito di Alamy). Il reportage Our Man in Mongolia esce nel marzo del 1983 e parla molto di lui, Vidal, perché l’uomo era troppo egocentrico per eclissarsi dalla scena, ma anche di Mongolia, e ha soprattutto un inizio delizioso. Vidal si trova per un paio di giorni a Mosca in stopover, sta chiacchierando con un critico letterario sovietico, quello gli chiede dove andrà, dopo Mosca, e Vidal risponde «Ulan Bator». L’altro si mette a ridere, Vidal gli chiede perché: «Mi era parso che avesse detto che sta per andare a Ulan Bator». Tanto era esotico, evidentemente, o persino assurdo, un viaggio in quella città nell’anno 1983.
Quarant’anni dopo, trentatré dopo la pacifica transizione del 1990 con cui la Mongolia è passata dai soviet alla democrazia di tipo occidentale («Siamo un’isola democratica tra Russia e Cina», mi dirà ironica una collega: «that’s the narrative»), noi – noi è un gruppetto di docenti universitari invitati a Ulan Bator per una conferenza alla National University – a Mosca non possiamo né passare né tantomeno fermarci, la guerra in Ucraina ha tolto dalle mappe dei voli europei l’aeroporto di Šeremet’evo. Scartiamo l’opzione Francoforte-UlanBator con la compagnia di bandiera MIAT, a cui le malelingue hanno appiccicato una cattiva fama («Sai cosa vuol dire MIAT? Maybe It’ll Arrive Tomorrow»), non per la cattiva fama ma per gli orari impossibili, e optiamo per Turkish Airlines, con comodissimo cambio a Istanbul. Ci avvertono di prepararci, di portare pazienza, perché Ulan Bator è spesso spazzata dai tempestosi «venti della steppa», sicché può capitare che gli aerei siano costretti a dirigersi leggermente a sud-est, un migliaio di chilometri, un niente per gli spazi asiatici. In questo caso si atterra a Pechino e si aspetta che i venti mongoli si plachino e si ri-decolla. Oppure si prende il torpedone, o il treno, il pittoresco Trans-Mongolian Express. Insomma non bisogna avere fretta, non bisogna recalcitrare davanti alle bizzarrie del destino.
Così c’imbarchiamo a Venezia molto filosofici, pronti a infinite durezze e ritardi, invece tutto fila liscio. È maggio, il vento della steppa soffia moderato, l’atterraggio all’aeroporto Chinggis Khaan, una quarantina di chilometri a sud-ovest della capitale, va liscissimo, preceduto da un moto di stupore perché una volta che l’aereo è uscito dalle nuvole e si è potuto guardare a terra non si è visto assolutamente niente per minuti e minuti, se non confuse tracce di torrenti e qualche gher bianco sparso qua e là nell’altipiano deserto.
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No, non si può dire proprio che Ulan Bator sia bella. Sta in mezzo a una chiostra di montagne basse anche piacevoli, poteva venir fuori una Firenze centrasiatica, e invece… Niente di gradevole alla vista, nessun edificio o strada o piazza o chiesa, nessun oggetto costruito dall’uomo che valga veramente la pena di essere visitato o fotografato. C’è del pittoresco: qualche vecchio, anche se non veramente antico, tempio buddista, perché quelli antichi li hanno distrutti quasi tutti i sovietici; gli interni fané della Biblioteca Nazionale. Alla Biblioteca Nazionale sono pittoreschi anche gli impiegati, ovvero le impiegate, nessuna delle quali conosce l’inglese (il che non deve poi indignare, in un paese pinzato tra Russia e Cina): nei primi minuti ci si capisce, male, a gesti, poi la più sveglia (non io) estrae il cellulare e apre Google Translate. Scrivo: «Cerco manoscritti o antichi libri italiani» (è una cosa che bisogna fare sempre quando si va in un posto esotico, c’è sempre la possibilità di qualche scoperta interessante: di qui sono passati i francescani, i gesuiti, non si sa mai), vengo accompagnato allo schedario, che però è fatto di schede manoscritte, come usava una volta, e soprattutto è scritto in mongolo. Sto lì a sfogliare a caso per un paio di minuti, giusto per non frustrare tanta gentilezza, poi scrivo su Google Translate che tornerò presto, e me ne vado.
Oltre al pittoresco c’è anche del grandioso: il museo di storia mongola intitolato a Gengis Khan, da poco aperto nella nuova sede dietro il palazzo del parlamento; un’altissima statua dorata di Budda nel monastero di Gandan, a due passi dal centrocittà, all’interno della quale si trovano, dicono le guide, «2285 pietre preziose, 27 tonnellate di piante medicinali, 334 sutre e 2 milioni di mantra». Nella parte meridionale della città, lo Zaisan Memorial, costruito per onorare i soldati mongoli e sovietici caduti durante la Seconda guerra mondiale, offre – dopo un’ascesa di circa seicento gradini non ergonomici – un set di affreschi commemorativi in stile bizantino-sovietico e un’ampia vista sulla città, e tra l’altro, nella piazza sottostante, su un altro grosso Budda dorato, fatto di uno speciale materiale coreano, spiega la guida, «resistente all’acqua e al vento per cinquecento anni». Sempre nel ramo grandioso, a qualche decina di chilometri a est della città c’è questa cosa sesquipedale che è il monumento equestre a Gengis Khan, il più grande monumento equestre di cui noi e la nostra guida abbiamo notizia (a Bombay è da tempo in costruzione una statua quasi comicamente gigantesca, duecento metri d’altezza, dedicata al fondatore dell’impero Maratha, ma i lavori sono fermi perché mancano i soldi). Scollinando, lo si vede dal torpedone da quattro o cinque chilometri di distanza, piantato in mezzo al niente, luccicante nei suoi quaranta metri di acciaio tirato a lucido. Si resta perplessi di fronte a questo campione di kitsch monumentale, ma perché non si è ancora visto, nell’ingresso-atrio che porta nella pancia del cavallo, lo «stivale più grande del mondo», uno stivalone di foggia tipica (gutal) in cuoio e feltro alto una decina di metri, ovvero, informa il pieghevole che raccogliamo all’ingresso, «195 volte più grande di una scarpa europea numero 39».
Poi si sale in cima alla statua e, come capita, il kitsch si converte in sublime, perché all’ultimo piano si apre una passerella che porta dritto sulla testa del cavallo, con di fronte la faccia gigantesca di Gengis Khan, e tutto l’insieme – la testa di Gengis, la pianura che si estende a perdita d’occhio, punteggiata dai gher, i lunghissimi raggi del sole al tramonto – trasmette davvero un senso di grandeur. (Tra parentesi, questa devozione a Gengis Khan – gli hanno intitolato l’aeroporto, il museo nazionale, dedicato statue, piazze, film, fumetti e chissà che altro – è una cosa insieme nuova e antica. Nuova perché, finché la Mongolia era nell’orbita sovietica, dell’antico conquistatore dell’Asia era meglio non parlare, sicché il suo nome e la sua figura sono stati a lungo rimossi, censurati; e antica, perché ovviamente Gengis Khan è sempre stato il mito unificante per questo popolo di clan nomadi. Era un violento, un sanguinario, un massacratore? Ma certo. C’entra qualcosa con questo popolo mite, cortese, pacificissimo, che non ha mai dato problemi a nessuno, contento nei suoi gher? Niente).
Ulan Bator si chiamava Urga, fino al 1911, ed era un villaggio di gher con una manciata di palazzotti e di templi, tra cui quello del Bogdo-Gegen, l’autorità suprema del buddismo tibetano. Nel 1911 Urga viene ribattezzata Niislei Khuree (‘Capitale della Mongolia’). Nel 1921 la occupa l’Armata Rossa e nel 1924 la città cambia di nuovo nome e diventa Ulaan Baatar (‘Eroe rosso’). Così si può dire che Ulan Bator riposi su due strati: un primo strato in cemento armato di non-gusto sovietico più un secondo strato di purissimo cattivo gusto asiatico. Il risultato è abbastanza miserevole a maggio, quando splende il sole e la temperatura è sui quindici-venti gradi, figuriamoci a gennaio, quando fa buio alle tre del pomeriggio e di notte la temperatura scende a -40, e l’aria è di un bel colore grigio-nero a causa dello smog. Ulan Bator è in testa alla classifica delle città più inquinate del mondo, la seconda «dopo Ahvaz, in Iran, secondo le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» (Ian Manook, Yeruldelgger. Tempi selvaggi, Roma, Fazi 2017, p. 70). Non sono tanto le ciminiere enormi che accolgono il viaggiatore che arriva in città dall’aeroporto; il vero problema, da settembre a maggio, è il riscaldamento degli alloggi, perché buona parte delle case si riscalda col carbone, e i gher si riscaldano con carbone di scarsa qualità, legna di recupero, escrementi bovini o equini, copertoni usati. Il risultato è che per due terzi dell’anno nell’aria di Ulan Bator aleggia una nebbia nera che si appiccica ai vestiti, ai capelli, entra nei polmoni generando bronchiti, cancri.
Se anziché guardarla la si attraversa in macchina, l’impatto è anche più traumatico, perché a UB (anche i locali la chiamano UB) c’è il traffico peggiore che ci si possa immaginare: peggio di Dacca, di Hanoi. Traffico peggiore, non veramente caotico, perché si tratta in effetti di un traffico semplice nella sua terribilità, riflesso di una storia urbanistica recente finita fuori controllo. «Quattrocentomila persone – scrive Vidal – vivono sotto una confortevole cappa di smog: oltre alle solite yurte recintate, ci sono condomini multipiano, un teatro dell’opera, un palazzo del cinema, lampioni funzionanti e un po’ più di neon di quelli che si vedono, diciamo, a Roma»: ed è il 1983. Il fatto è che UB era nata per ospitare un po’ più di mezzo milione di persone. Adesso gli abitanti sono un milione e mezzo, in costante crescita, un po’ perché i mongoli si trasferiscono in città, molti portandosi dietro i loro gher, e un po’ perché fanno figli in numero cospicuo. Le automobili costano cifre ragionevoli, specie le giapponesi e le coreane (modelli mai visti da noi: s’immaginano, a Seul e a Nagoya, catene di montaggio dedicate), la benzina costa poco; le distanze sono immense, il freddo atroce, muoversi a piedi non è praticamente mai un’opzione, e non lo è neppure lo scooter, in inverno (anzi, quando la temperatura va sottozero lo scooter è proibito perché le strade ghiacciano e si cade), così chi può va in macchina e chi non può prende i mezzi, che hanno spesso una loro corsia preferenziale altrettanto spesso ignorata dagli altri automobilisti. All’ora di punta, che va dalle sette del mattino alle nove di sera, girare in automobile significa combattere una guerra al centimetro, al millimetro, farsi largo ad astuti colpetti di parafango. Non sorprende che ci sia un’officina a ogni isolato, non è concepibile che una frizione duri più di sei mesi, un anno al massimo.
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L’argomento del congresso non è importante, il congresso non è importante. Uno va in questi posti e spera sempre segretamente di scopare, poi la sera si trova da solo in camera a guardare Euronews, o a pranzo con una collega portoghese con la dentiera che gli parla del marito defunto, che di professione faceva lo schermidore (probabile che facesse tutt’altro, ma io ho capito questo, fencer, e non ho avuto cuore di farmi ripetere). E nessuna esperienza esotica (la Mongolia!) compensa la noia atroce di certe riunioni tra professori che si vedono una volta sola nella vita e poi mai più. Però i colleghi mongoli sono deliziosi: cortesi, intelligenti, incredibilmente anglofoni (l’incredibilità sta nel fatto che il mongolo è proprio tutta un’altra cosa rispetto a qualsiasi lingua occidentale, e uno straniero può vivere in Mongolia per trent’anni senza mai arrivare a spiccicare parola: invece loro parlano bene o benissimo l’inglese, specie i più giovani. L’arretramento culturale della Russia, che consegue all’arretramento politico, alla diminuita influenza, si vede anche da questo: solo i vecchi si ricordano un po’ di russo, i giovani studiano tutti l’inglese, idolatrano l’America, i più abbienti ci vanno per fare l’università. Lingua a parte, l’invasione dell’Ucraina ha dato un’altra scossa alla reputazione russa, sia perché hanno attaccato briga a torto sia perché non riescono a vincere. Il governo mongolo, mi spiegherà un collega, deve barcamenarsi, perché dalla Russia arrivano il petrolio, l’elettricità, i mezzi pesanti, le minacce; ma la gente comune è tutta per l’Ucraina.
Economia. Alle medie, il mio compagno Marco Puccio era celebre in tutta la scuola sotto lo pseudonimo di Pastorizia («Oh, è arrivato Pastorizia!». «Minchia ma sta’ zitto, Pastorizia di mmerda!») a causa di una memorabile interrogazione sulle attività economiche delle regioni italiane. Puccio non aveva studiato, così aveva provato a cavarsela con una risposta fissa, anzi due. «Qual è l’attività produttiva prevalente in Liguria, Puccio?». «La pesca». «E qual è l’attività produttiva prevalente della Valle d’Aosta?». «La pastorizia». Pesca per le regioni costiere, pastorizia per le regioni montane. Capita l’antifona, l’insegnante aveva indicato sulla cartina tutte le regioni montane in sequenza: «Umbria?». «Pastorizia». «Piemonte?». «Pastorizia». «Lombardia?». «Pastorizia». «Trentino Alto-Adige?». «Pastorizia». Al termine di questo rosario Marco Puccio era diventato Pastorizia.
Oh, Puccio, come ti troveresti bene qui in Mongolia, quanta ragione avresti! La pesca non esiste, perché la Mongolia non affaccia sul mare, ma quanta pastorizia. Anche questa a strati, come la città. In pianura le mucche, a mezza costa i cavalli, in montagna le pecore e gli yak. Da questi animali si ricavano: il latte, con cui si fanno yogurt, biscotti e torte, la carne, la pelle, le ossa, tutto. Le capre sono una voce a parte, in quanto animali problematici. Una speciale razza di capra, la capra hircus, qui ben diffusa, dà il cachemire, la lana dei benestanti, perciò il governo sovvenziona gli allevatori perché continuino ad allevarle; d’altra parte, però, brucando, le pecore strappano l’erba sino alla radice e desertificano il territorio. Più deserto di così onestamente si fatica a immaginarlo, ma tant’è. Finita la tosatura, la pregiata lana di capra finisce in gran parte all’estero; il non molto che resta in loco viene lavorato nei filatoi mongoli e venduto nei grandi magazzini di UB come lo Shangri-La, il più lussuoso della capitale; o nell’altrettanto lussuoso negozio monomarca «Gobi» che ha sede davanti alla piazza del parlamento ed è probabilmente l’attrazione turistica più visitata del Paese. Io ci compro un maglioncino con la zip e il cappuccio, una di quelle cose da festa invernale sulla spiaggia che chiaramente non indosserò mai e finirà mangiato dalle tarme; e guanti, una valanga di guanti per le signore rimaste in Italia. Prezzi bassi, forse un terzo rispetto all’Italia, filati ottimi, mentre per quanto riguarda i modelli non c’è molta scelta a parte il tintaunita a V e il tintaunita girocollo, e insomma si sente la mancanza di un fashion designer dotato di fantasia e uso di mondo.
Altre attività economiche, a parte la pastorizia e il cachemire? Coltivare qualcosa, con questo freddo e questo vento, è quasi impossibile: al massimo carote, patate e altre radici che crescono sottoterra. La Mongolia è il paradiso del carnivoro, se è di bocca buona. Invece il vegetariano non sa bene che fare, perché la scelta – in un ristorante del centro preso a caso – è tra il vitello con tofu, il vitello in brodo, la zampa di vitello arrosto, lo stinco di vitello in brodo, i ravioli ripieni di vitello asciutti o in brodo.
È raro che la carne venga frollata, si consuma subito, senza neanche un giro di congelatore. In linea con i dettami della dieta paleo? Può darsi, ma ne derivano piatti non esattamente gradevoli al palato di un europeo di mezza età che già ha problemi etico-psicologici nel consumo della carne, senza dire del problema – che l’europeo ha rimosso dalla nascita – del veder uccidere. «Mentre mi preparavo per un nuovo giorno d’avventura – racconta Vidal – c’è stato un grido terribile, poi un singhiozzo, un rantolo: silenzio. La nostra amica della sera prima, la capra, stava per essere la nostra cena». A me capiterà una cosa simile, ma più sinistra, durante la mia gita nella Mongolia profonda. Ci troviamo in un villaggio dell’interno, uno dei miei accompagnatori è sparito, chiedo dov’è, mi dicono che è andato a prendere una pecora. Io penso al latte per la colazione di domani, poi mi spiegano che no, la pecora sarà il pasto di tutta la comitiva nei giorni a venire. La legano con una specie di cappio proprio fuori dal mio gher, passa la notte al freddo senza un belato, e la mattina la ritrovo lì col suo viso semita che si gode gli ultimi minuti di vita sulla terra. Più tardi arriverà «una persona esperta» che proprio lì, in quello spiazzo (noto soltanto adesso le pozzanghere di sangue rappreso, memoria di altre macellazioni), farà quello che si deve fare («alle pecore – mi spiegano – si fa un piccolo taglio sulla pancia, poi s’insinua la mano dentro e si spezza l’aorta; alle capre si dà un colpo in testa con un martellone; ai cavalli si taglia una vena dietro la testa». E gli yak? «Gli yak no, sono grossi, cattivi. Agli yak gli spari»).
Ulteriori attività economiche? L’altra risposta-standard di Puccio-Pastorizia era «attività mineraria», e anche in questo caso ci avrebbe preso. Anzi: fiorente attività mineraria. Il sottosuolo mongolo trabocca di minerali essenziali per la moderna produzione industriale: non solo rame, carbone e oro ma anche uranio, e le famose terre rare che si usano nell’elettronica. Proprio per l’uranio, pare, Macron ha fatto scalo a Ulan Bator a fine maggio (Macron «ha espresso il suo interesse ad aiutare la Mongolia nella sua strategia di de-carbonizzazione in una conferenza stampa a Ulaanbaatar, dopo aver partecipato al vertice del G7 in Giappone. La Francia spera di acquisire uranio dal Paese»: Euractiv.it, 22 maggio 2023). Perciò, da paese in via di sviluppo che è, la Mongolia potrebbe anche diventare in poco tempo la Norvegia dell’Asia. Certo, ci vorrebbe un governo di rigore e integrità norvegese, e il know-how che permetta di sfruttare le miniere senza appaltarle ai russi o agli australiani o ai canadesi. Condizioni che, almeno per il momento, non sembrano darsi.
Infine, il turismo. «La Mongolia si sta aprendo al mondo», mi dicono. Ma il fatto è che tutti i paesi del mondo si stanno aprendo al mondo, persino la Corea del Nord: è il modo più spiccio e indolore per fare qualche soldo. Ora, UB non è veramente un’attrazione turistica, a meno che non siate, come me, degli appassionati di architettura brutalista in decomposizione. E l’infinita steppa che si apre fuori da UB è roba per viaggiatori veri, non per gitanti da cartolina, quelli possono andare a Phuket. Così le agenzie si sono messe a studiare programmi di viaggio su misura: per giovani avventurosi che cercano l’autentica Mongolian experience, e per meno giovani che non rinuncerebbero volentieri a un letto ben fatto, alla doccia, al water. Non è facile, perché le distanze sono infinite, la copertura di rete piena di buchi, le strutture d’accoglienza, necessariamente, rare e di standard non-occidentale, la stagione utile per il turismo breve, in certe zone brevissima. Ma dato che all’Islanda ormai possono avvicinarsi soltanto i ricchi, non potrebbe diventare questo il nuovo viaggio ‘fuori dal mondo’, anche a prezzi ragionevolissimi? (La magia della Mongolia, tour operator «Da Vinci International» di UB, con guida italofona: 12 giorni tra i 2500 e i 3000 euro in gruppi di 10-12 persone).
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«Avete suggerimenti per un piccolo viaggio fuori Ulan Bator, cinque o sei giorni, però una cosa non turistica?», ho chiesto dall’Italia ai miei colleghi mongoli. La città, mi hanno detto, è piena di piccole compagnie che vendono viaggi organizzati, personalizzati o di gruppo, in auto e/o in aereo (il treno quasi non c’è: ci sono solo i due binari della Transiberiana, l’ultimo tratto che porta a Pechino). «Però… Però per caso ci sono due dei nostri studenti che vorrebbero tornare dalle loro famiglie per l’estate, potrebbe andare con loro»: la cosa poteva interessarmi? Mi sarebbe piaciuto viaggiare insieme a loro e usarli come guide, pagando le spese?
Ma si capisce.
Così la mattina del sabato partiamo: io davanti, i due studenti-accompagnatori dietro (lui si chiama Bolorsukh, lei si chiama Buyanbileg, Buya per facilitarmi: e, come avrò il piacere di scoprire, sono due delle creature più angeliche che abbiano mai vissuto sulla Terra); dietro anche la sorella di Buyanbileg, che approfitta dello strappo per tornare a casa; davanti, alla guida, il fidanzato della sorella, che approfitta per fare un week-end campestre.
Alla periferia di UB, sosta al supermercato Nomin per fare scorta di cibo e altre cose necessarie per l’escursione. Obietto che potremmo anche comprare tutto una volta arrivati al villaggio, ma Buya mi risponde che è meglio fare rifornimento qui: capirò più tardi. Compriamo frutta fresca carissima impacchettata nel cellophane, frutta disidratata, acqua in bottiglioni di plastica, biscotti, cartucce di gas per cucinare, dolcetti come regalo per i bambini: anche nel posto in cui andiamo, la steppa mongola, ci sono bambini che adorano le schifezze, ecco finalmente qualcosa di familiare che mi riempie di sollievo. È sabato mattina, il mall è affollato, non tanto la zona degli alimentari – la gente normale compra nei mercati all’aperto, almeno in primavera-estate – quanto nella zona del bricolage, degli arredi, degli elettrodomestici. Come un’Ikea europea, solo più grande e meno rifinita. Stipiamo il 4×4 e ripartiamo.
Il cognato-autista ha il piede pesante; le strade sono piene di buche, e del resto non potrebbero non esserlo, con un’escursione termica di settanta gradi tra estate e inverno (con 35 gradi d’estate e -40 d’inverno si capiscono le strade dissestate, l’usura degli infissi, il cemento screpolato, persino una certa indolenza nel carattere degli abitanti, si capisce tutto). Combinate insieme, le due cose – la guida allegra del cognato-autista e il manto stradale non esattamente a bolla – rendono il viaggio non spiacevole ma, diciamo, impegnativo.
Distrarsi col panorama? Non proprio. La strada è dritta, infinita, a destra e sinistra una distesa sabbiosa senza l’ombra non solo di un albero ma di un cespuglio, un po’ di macchia. Qua e là piccoli branchi di cavalli e di yak, recinzioni di fil di ferro contro le quali il vento ha schiacciato festoni di plastica sudicia. Nel niente, anche qualche attrazione per i turisti: cammelli spelacchiati per una gita in un piccolo deserto che si chiama Elsen Tasarkhai; aquile tristemente legate a un trespolo. All’orizzonte, ogni tanto, qualche collinetta sassosa, ma in cima alla collinetta nessun paesino tipico, nessun avanzo di castello, niente. Tabula rasa elettrificata. Quelli della mia generazione si ricordano di quando questo album dei CSI arrivò incredibilmente primo nella classifica dei dischi più venduti. Era questa, esattamente questa, la tabula rasa.
Dalla radio, musica mongola. Ora, il pop è in assoluto l’ultima cosa che s’impara, e s’impara ad apprezzare, in un paese straniero: ci vuole una vita per capire perché mai quando alla radio mettono quella particolare canzone, che non sembra neanche bella, tutti i madrelingua alzano il volume per sentire meglio. Il mio corso di pop mongolo dura poche ore, e prevede l’ascolto forzato di alcuni CD e una spiegazione in inglese smozzicato, al termine della quale mi sembra di capire che anche qui la scena della popular music è funestata da un lato da un rap mongolo particolarmente gutturale e dall’altro dai neomelodici con il sitar. Artisti da segnalare, comunque, tra i neomelodici: gli Herd; tra gli sperimentali, «pionieri del folk-rock mongolo», gli Altan Urag.
Il ristorante Khaan buuz, situato «a metà strada» tra UB e il villaggio dove dormiremo, cioè a circa 270 km da UB, è un prefabbricato con bar, minimarket e self-service. Al bancone del self-service si può optare per la carne di pollo o la carne di bovino, con riso bianco o senza. I vegetariani hanno le uova, con riso bianco o senza. I vegani possono andare affanculo, com’è giusto. C’è anche un’ampia toilette che si annuncia da lontano con due silhouette enormi, maschio e femmina con le mani sul grembo a coprire le vergogne. È un sabato di primavera, è l’ora di pranzo, questo è l’unico posto per la sosta e il ristoro nel raggio di cento chilometri, sembra di stare allo stadio. Ci incolonniamo per la toilette. Borborigmi, scaracchi, l’inserviente ci offre un rotolo di carta igienica abbastanza ciancicato. Ringraziamo, ma no.
Al villaggio di Bat-Ulzii, nella provincia di Uvurkhangai, arriviamo dopo altri duecento chilometri di asfalto sconnesso e una cinquantina di chilometri di sterrato che sembrano trecento, perché ha piovuto da poco e la strada è una melma. In due ore di fuoristrada vediamo all’orizzonte forse altre cinque macchine. Si guadano torrenti, si cerca di seguire la traccia delle ruote segnata dagli autocarri, ma per i, diciamo, nove decimi del percorso è come camminare su una serie ininterrotta di dossi. Uno ripensa alla Historia Mongalorum di Giovanni da Pian del Carpine, all’avventura di questo frate francescano del primo Duecento in queste plaghe, e capisce che la parola viaggio non può proprio designare insieme esperienze così diverse come la mia, in jeep, e la sua, a dorso di mulo o a piedi.
Il villaggio si annuncia con qualche tozzo edificio in cemento: la scuola, l’ospedale, una specie di minimarket il cui tetro aspetto mi fa capire come mai abbiamo fatto rifornimento di cibo e altri beni necessari a UB. Poi altro sterrato, altre pozzanghere, e cominciano i lotti cinti da steccati, ciascuno con il suo gher, qualcuno anche con accanto una casetta in muratura, in realtà più garage che casa. Nel gher si cucina, si lavora, si dorme in quei due-tre giorni dell’anno in cui fa caldo, mentre nella casetta si dorme e si mangia durante i nove-dieci mesi d’inverno. Pipì e popò fuori, in uno stanzino di legno con due buchi per terra, e sotto i buchi il vuoto, e dal vuoto esalazioni non proprio gradevoli, nonostante il freddo. Accucciandosi nella posizione di squat, il defecatore cólto pensa subito alla novella di Andreuccio da Perugia di Boccaccio, quella in cui Andreuccio poverino finisce in casa di una truffatrice napoletana, va a «diporre il superfluo peso del ventre» in un gabbiotto sospeso tra le case ma il pavimento di legno cede e lui atterra vari metri più in basso in una pozza di merda e piscio. Uno spera ardentemente che le cose non vadano così, la struttura sembra solida, ma è lo stesso inibito, teme che arrivi qualcuno con in mano il suo bravo rotolo di carta igienica (il gabbiotto non ha porte, figuriamoci luci rosse che avvisino che c’è qualcuno dentro), e insomma alla fine esce dal gabbiotto e si dirige verso la collina, i prati, un avvallamento nel terreno, tra la cacca dei cavalli e gli avanzi dei loro scheletri, la natura genuina e non questa puzzolente simulazione di civiltà. E via di salviettine umidificate (si era comprato il pacchetto-famiglia da 72 pezzi, e ci si era subito pentiti pensando che fossero troppe, invece per una settimana nella steppa mongola ne servono esattamente 72).
Nel gher dove dormirò, la madre di Buya tiene il suo piccolo laboratorio di sarta con macchina da cucire Pfaff. Cuce un po’ di tutto, ma specialmente stivali, i resistentissimi gutal che qui si usano per andare a cavallo. Me ne mostra un paio di dozzine tutti fatti a mano, dalla suola al fregio che corre intorno alla tomaia. Li guardo con un po’ di fretta, li tocco annuendo, non sono competente. Solo dopo, cercando in rete, vedo che i gutal mongoli su Amazon li mettono a 250 euro, e certamente non sono belli come quelli fatti dalla mamma di Buya. Importare i gutal mongoli in Italia, perché no? Hanno attecchito mode più imbecilli.
In mezzo al gher c’è la stufa a legna, sopra la stufa c’è una grossa zuppiera di metallo piena di minestra in cui galleggiano pezzi di bovino o pollo o pecora. Il tetto del gher è bucato all’incrocio delle stecche, per il ricambio d’aria: il buco si può chiudere quando piove, tirando un apposito cordone, ma il cordone dev’essere rotto, o non si sa bene come tirarlo così la pioggia sgocciola dal soffitto e cade giù allungando la minestra.
Cena a base di tsuivan, cioè pasta fredda condita con verdura e carne di qualche animale, acqua calda come bibita (non c’è acqua corrente, prima di cena scarpiniamo con le taniche fino al fiume); come dolce, pallette di formaggio di yak ricoperte da una glassa alla frutta. È tutto buono, nella sua scabra essenzialità, o forse è solo perché sono tra stranieri che sembrano istintivamente gentili, più di quanto saprei essere io anche sforzandomi, e il cielo è un tappeto di stelle. I letti sono panche di legno coperte da tappeti: letto morbido (tre tappeti), normale (due tappeti), duro (un tappeto). Sopra si mette il sacco a pelo. Fuori non si sente un rumore, dentro fa un caldo da rettilario a causa della stufa, i miei compagni di viaggio preparano qualcosa da mangiare per l’indomani. Sono passate da poco le nove. Entro nel sacco, metto i tappi di spugna nelle orecchie e – un po’ la fatica e lo scombussolamento del viaggio, un po’ un avanzo di jet lag, un po’ il calore stordente della stufa – più che addormentarmi svengo.
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La strada dissestata che abbiamo fatto per venire da UB al villaggio non era niente in confronto a quella che facciamo la mattina dopo su un camioncino sovietico grigio militare col pianale altissimo e un qualche miracoloso dispositivo che gli permette di superare anche le salite più ripide. Il cognato-autista non c’è più, adesso Buya, Bolorsukh ed io viaggiamo insieme a un altro amico-parente del villaggio che fa l’autista di mestiere. Dopo cento chilometri di buche e dossi, eccoci sull’altopiano dove vivono i parenti di Buya. Tserendory e Nansalmaa vivono qui da quasi mezzo secolo, allevano cavalli, pecore, capre e yak come hanno fatto i loro antenati, per generazioni e generazioni; hanno dieci figli, quattro maschi e sei femmine, metà dei quali vivono sull’altopiano con le loro famiglie, metà al villaggio o in città. Questa – la generazione dei trenta-quarantenni – è la prima che abbia abbandonato massicciamente l’altopiano, perché è la prima che avuto veramente scelta.
Entrando nel loro gher veniamo invitati a sedere, riceviamo una tazza di latte di yak o di tè al latte di yak, e un biscotto al gusto di yogurt di yak. Né dolci né veramente salati, il latte e lo yogurt sono aciduli. Qui comincerebbe il racconto degli sforzi fatti dall’ospite (io) per farsi piacere questi snack mongoli: altrimenti questi si offendono, uno pensa. Ma questi in realtà sono persone di mondo, capiscono benissimo che lo straniero possa non gradire, e non insistono. Che poi non è tanto il gusto acidulo del latte, a dissuadere dall’accettare, è il fatto che non c’è l’acqua corrente, e il sapone c’è e non c’è, e le tazze e i cucchiai vengono sciacquati in un secchio d’acqua tiepida, con un giro di dita a rimuovere il grasso. Si vorrebbe estrarre il pacco con le 72 salviettine umidificate, ma non sarebbe carino.
Nei giorni seguenti incontrerò un certo numero di parenti e affini di Buya, mangerò e dormirò insieme a loro, con varie interazioni fatte necessariamente più a gesti che a parole. Il giudizio sintetico su queste persone lo ha dato tanti anni fa Adam Smith, anche se parlava d’altro, e suona così: «Le cose stanno diversamente nelle cosiddette società barbare, di cacciatori, pastori e anche di agricoltori in quello stadio primitivo dell’agricoltura che precede il progresso delle manifatture e lo sviluppo del commercio estero. In quelle società le occupazioni varie di ogni uomo obbligano tutti a esercitare la propria capacità e a escogitare espedienti per superare le difficoltà che continuamente si presentano. L’inventiva è mantenuta viva, la mente non può cadere in quella torpida stupidità che in una società civile sembra ottenebrare l’intelletto di quasi tutte le categorie inferiori del popolo». Vuol dire che qui è tutto così difficile e faticoso – anche il semplice restare vivi – che non si può stare con le mani in mano, che tutti sanno fare più o meno tutto, da castrare un cavallo a rattoppare un paio di stivali, e che il lamento, più che essere proibito, è percepito come irrazionale (naturalmente questo giudizio si fonda sul niente, sul quasi niente, dato che sono un turista di passaggio e non so una parola di mongolo: ma, come diceva proprio Vidal da qualche parte, o forse era Naipaul, bisogna sempre generalizzare).
Molte cose sono cambiate, mi dicono, negli ultimi cinque-dieci anni. Adesso nel gher dei nostri ospiti c’è la TV, i bambini hanno un piccolo ipad per guardare i cartoni animati, da un paio d’anni c’è anche una discreta copertura di rete. La vita è più facile. Ma le persone con cui parlo, sempre attraverso Buya e Bolorsukh, sanno anche che questi cambiamenti così repentini possono essere un pericolo per la loro esistenza. Ci troviamo all’inizio della regione degli otto laghi. Per ora, i turisti arrivano – poche decine l’anno, concentrati tra giugno e agosto – a cavallo o in camioncino, e sono turisti che cercano soprattutto il brivido della scomodità, perciò qui non vorrebbero trovare niente che gli ricordi casa loro; ma che cosa succederebbe se costruissero una strada, un Best Western? E i più giovani? I ragazzini, gli adolescenti che vedono in TV e in rete quanto può essere diverso e interessante il mondo, rispetto a quello che hanno sotto gli occhi ogni giorno, perché dovrebbero voler rinunciare? E una volta partiti, come Buya, perché dovrebbero voler tornare a questa tabula rasa se non per le vacanze estive o la festa della primavera?
Ma intanto il sole sta per tramontare, è ora di legare i cuccioli di yak. La notte, i lupi scendono dalle montagne e, lasciati liberi, gli animali più giovani potrebbero allontanarsi dal branco e perdersi o farsi sbranare. Ci sono dei lunghi bastoni di legno ancorati a terra. Ogni paio di metri c’è un cappio, e a quel cappio va legato un piccolo yak. La mia tecnica è la seguente: mi accovaccio in uno squat e tendo il braccio destro strofinando tra loro il pollice e l’indice, e con la bocca faccio tztztz. Coi cani funziona, coi cuccioli di yak non tanto. Il segreto – mi spiega Buya – è grabbing. Afferrare che cosa? Qualsiasi parte del corpo dell’animale: collo, zampe, genitali. Poi, una volta immobilizzato, lo si solleva e lo si lega al bastone con quello che al corso di vela di Caprera, un quarto di secolo fa, ho imparato a chiamare ‘un nodo a gassa d’amante’. Ecco: la prima cosa che sono in grado di fare decentemente in tutta la giornata.
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Per la più parte del tempo non si fa niente: si guarda il paesaggio, si cammina senza una meta, si sta sul letto. Un giorno andiamo a cavallo allo Shireet Nuur, il più grande degli otto laghi, ancora semigelato nonostante sia quasi estate. Quanto al clan di Tserendory e Nansalmaa, non è che non facciano niente, è chiaro che gli animali danno un sacco di lavoro, ma non hanno orari, e questa libertà, unita ad altri atout della campagna (assenza di traffico, di smog, di cellulari che squillano, di e-mail ansiogene), sembra renderli, se non felici (chi conosce davvero il cuore dell’uomo?), almeno esteriormente sereni. Accendono la stufa, ci mettono a cuocere sopra la minestra con la carne, bevono il tè, parlano. «Di che cosa parlano sempre, che qui non succede niente?», domando a Buya. «Oh, il solito: la famiglia, i cavalli, il tempo, cose così». What is a weekend? chiede Maggie Smith, la contessa madre, quando il giovane Matthew dice che potrà prendersi cura della tenuta di Downton Abbey «durante i weekend». Immagino che se lo chiederebbero anche loro, qui sull’altopiano. What is a weekend?, dato che ogni giorno è più o meno uguale all’altro, e non ci sono funzioni religiose, prediche, riti comunitari a ricordare a tutti che oggi è il giorno del Signore.
E a proposito: i morti? «Dove li mettete i morti?». Buya non è sicura. «Per esempio, i tuoi nonni?». Ma i nonni sono Tserendory e Nansalmaa, e sono qui, vivi. Buya ride: nel caos delle genealogie mi ero perso il dettaglio più importante. I bisnonni, allora. Chissà. Buya vive a UB da troppi anni per aver conservato i ricordi del villaggio. Chiediamo ai nostri ospiti qui sull’altopiano, e loro fanno un gesto in direzione delle montagne. Dato che per molti mesi all’anno il terreno è gelato, e non si riesce a scavare, i morti si portano lassù, e si lasciano ai lupi e agli avvoltoi. Nel nostro Medioevo si considerava un segno di speciale elezione se un cadavere restava a lungo intatto: era certamente il cadavere di un sant’uomo. Qui pare di capire che sia il contrario: eletto è colui il cui corpo viene divorato più rapidamente degli altri dagli animali.
Dalle 19 alle 20.30 si guarda il tramonto bevendo tè con l’inesorabile latte di yak. Alle 20.30 ci si mette a tavola, i carnivori con la loro carne e io con la mia dieta di ananas liofilizzato, germogli di soia, crackers di riso e girelle. Alle 21.30, lavati i piatti nell’acqua pulita che io sono andato a prendere al lago, ci si trova un po’ in imbarazzo perché il mio mongolo è nullo e l’inglese dei miei ospiti non è sufficiente a una vera conversazione. Così Buya esce per «just a second» e torna dopo mezz’ora con un sacchetto preso in prestito dal gher degli amici-parenti. «Giochiamo a shagai», dice versando il contenuto del sacchetto sul mio letto. E con lo shagai andiamo indietro non di un quarto di secolo ma di 35 anni, all’ora di greco del ginnasio, perché dello shagai parla addirittura Erodoto nelle Storie, libro primo capitolo 94. Dire Shagai è come dire astràgali: un osso della caviglia della pecora o della capra sagomato in modo tale che il pezzo ottenuto abbia quattro facce simboleggianti quattro animali: cammello, cavallo, pecora, capra. E dire astràgali è come dire aliossi, sin dall’antica Roma (aleae ossum, forse – mi dice l’amico linguista Alessandro Parenti – da *aleae ossi ‘dadi d’osso’, con un poco classico genitivo di materia): un tempo erano un gioco da pastori diffuso anche sulle montagne del Piemonte che mi hanno visto bambino. Erodoto attribuisce l’invenzione del gioco ai Lidi: ricordavo il passo dai tempi della scuola perché nello stesso paragrafo dice anche che i Lidi facevano prostituire le figlie. Dai Lidi alle Alpi agli altopiani mongoli: le figure sono le stesse e anche la dinamica del gioco, bisogna accoppiare le figure, accumulare astràgali o aliossi o shagai, sottrarli con varie malizie agli altri giocatori. Sarà perché mi trovo in una tenda in mezzo alla Mongolia, insieme a sconosciuti, e fuori fischia il vento nell’oscurità, ma è come se il dio della World History si fosse seduto qui accanto a me per accompagnarmi dentro gli abissi del tempo. Chi è stato? Chi ha insegnato il gioco degli astràgali ai mongoli? Soldati di Alessandro Magno che dopo la morte del loro comandante, invece di tornare a casa, hanno preferito marciare ancora verso est fino alla Cina, all’oceano Pacifico? Gli eserciti della Roma imperiale? I frati cristiani in missione per conto di Dio? O è successo il contrario, e dalla Mongolia o dalla Cina un antichissimo mercante, sulla Ur-Via della Seta, con il suo sacchetto di shagai…?
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Quali sono le ragioni per cui vale la pena di vivere? Tanti anni fa il supplemento dell’«Unità», Cuore, aveva fatto una classifica interrogando i lettori (ricordo male o aveva vinto «L’amore»? O «Leccare la fica»?); una celebre scena di Manhattan è dedicata a questo: «il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues, i film svedesi naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert, quelle incredibili mele e pere di Cézanne…». Oh sì, chi può negarlo, le mele di Cézanne… Ma questi sono tutti piaceri da assaporare in quiete, stesi sul divano, mentre è chiaro che gli stati d’eccezione sollecitano desideri più carnali: il sommo dei piaceri, per chi ha attraversato il deserto, è una bottiglia d’acqua minerale.
La seconda notte di gher capisco che è meglio se vado a letto vestito, pantaloni della tuta e maglioncino, perché dai trenta gradi a stufa accesa si scende ai dieci a stufa spenta, e sudare è comunque meglio di avere freddo. Ci sarebbe la coperta-caffettano in pelle di yak con cui si riparano i miei compagni di viaggio. Ne offrono una anche a me, ma a parte essere veramente pesante, quante generazioni di mongoli degli altopiani l’hanno adoperata? E quanti anni sono passati dall’ultimo lavaggio? Con l’età si diventa schizzinosi, una volta dormivo anche per terra nei vagoni di seconda classe Torino-Villa San Giovanni, adesso mi dà fastidio sfiorare il copriletto in una stanza d’albergo. O forse non è l’età, è l’assuefazione agli agi. Rifiuto la polverosa coperta di yak, mi addormento subito. Verso le due però mi sveglia di colpo un rumore acuto, continuo, forse gli zoccoli di un cavallo che passeggia intorno al gher. I famosi lupi che scendono dalle montagne, congetturo nel dormiveglia: qualcuno dovrebbe andare a vedere, consolare questo cavallo spaventato, legarlo… Solo che non è un cavallo, sono i miei denti che battono. Per il caldo, mi sono tolto tuta e maglione, sono rimasto in maglietta, e adesso nel gher si gela. Vorrei fare qualcosa, alzarmi a riprendere il maglione, ma il sonno mi pesa sulle palpebre, e l’idea di patire anche solo per un minuto ancora più freddo mi tiene inchiodato al letto. È allora che due mani leggerissime mi coprono fino al collo con la coperta-caffettano; apro gli occhi quel tanto che basta per intravedere il sorriso mongolo di Buya: «It’s cold», dice, mentre risprofondo nel sonno.
Era questa, questa scena, la ragione o una delle ragioni per cui vale la pena di vivere? Ma no, questo è solo un aneddoto commovente nonché vero, anche se stranamente simile al finale di Rubè di Borgese («Eugenia gli si accostò e, messegli senza forza le mani sugli omeri, lo aiutò lentamente a ricadere. “Dormi. Dormi” gli mormorò, con la fronte sulla fronte»). No, la ragione per cui vale la pena di vivere è la fine di questo viaggio memorabile, il rientro in città col camioncino sovietico. Dopo cinque giorni di letti di legno, salviettine umidificate e cacca in mezzo ai prati, nessun piacere umano potrebbe competere con la doppia uso singola del Novotel di Ulan Bator, 170 euro spesi benissimo. Niente, né il denaro né il sesso né il piacere dell’arte eguaglia la gioia di potersi spogliare nudi, sedersi su un water, bere San Pellegrino dalla bottiglia di vetro, poi entrare nella doccia, far scorrere l’acqua (non troppo: si è imparato nel frattempo che è preziosa), insaponarsi, restare lì fermi tutti pieni di schiuma, sciacquarsi, asciugarsi con l’asciugamano per non bagnare l’accappatoio, indossare l’accappatoio, buttarsi sul letto. La douceur du foyer, ecco cosa intendeva il poeta: tuffarsi nella natura selvaggia e violenta dei grandi altopiani mongoli ma poi, una volta finite le 72 salviettine umidificate, riemergere nel lusso.