È stupefacente quanto siano importanti per quasi tutti noi le canzoni e quanto poco siano studiate, quanto poco se ne parli seriamente, la serietà con cui si parla non solo dei romanzi e delle poesie ma ormai anche dei film. Questa asimmetria è dovuta, mi pare, principalmente a due ragioni. La prima è che in Italia – molto meno negli Stati Uniti – le canzoni sono ancora percepite come oggetti culturalmente subalterni, indegni dell’attenzione degli studiosi; la seconda è che parlare con competenza di canzoni non è facile, perché occorre intendersene un po’ sia delle parole sia della musica, e di parole e musica che spesso sono molto diverse da quelle che s’imparano ad apprezzare a scuola o al conservatorio.
Quanto al primo problema, è ben vero che di canzoni indegne ce ne sono tante. Ma da un lato: forse che tutti i romanzi, tutte le poesie, tutti i film sono memorabili? No, certo; ma è come se la canzone fosse per statuto un genere meno eletto, come se, a causa del ruolo preponderante che vi svolge la musica, la gamma delle sue possibilità espressive fosse costitutivamente più ristretta. Dall’altro: non è forse vero che sono spesso proprio le canzoni meno riuscite dal punto di vista estetico quelle che hanno maggiore risonanza, quelle che incidono più in profondità nel costume? E così come si studia con rigore la Trivialliteratur per ciò che essa dice sullo spirito dei tempi, non è opportuno fare lo stesso esercizio sulle tante canzoni triviali che ci riempiono (felicemente) la vita?
Quanto al secondo problema, cioè il necessario incrocio di competenze letterarie e musicali, ecco un libro che indica la strada come meglio non si potrebbe. Luca Zuliani aveva già pubblicato nel 2009 un volume importante dal titolo Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani (Il Mulino), in cui si occupava soprattutto del Medioevo (Dante, Petrarca) e dell’età moderna (Chiabrera); sui contemporanei, solo qualche pagina, ma molto intelligente, nell’introduzione al volume. In L’italiano delle canzoni Zuliani riprende quegli spunti e li usa per costruire non un sistema, perché la materia non si presta, ma un eccellente lavoro di sintesi sul rapporto tra parole e musica nelle canzoni italiane degli ultimi decenni.
Ora, per apprezzare a dovere questa sintesi conviene avere presente, almeno a grandi linee, l’evoluzione storica del genere. La canzone moderna ha, si può dire, mezzo secolo di vita: vale a dire che sono ancora su questa terra alcuni dei pionieri che l’hanno creata, come Bob Dylan e Paul McCartney. Dire ‘creazione’ non è dire troppo. Che cosa sono state infatti le canzoni fino alla fine degli anni Cinquanta? Che cosa era possibile dire, che cos’è stato detto nelle canzoni fino a quella data? Da una parte, esse conservavano un legame autentico, tanto nel linguaggio quanto nell’esecuzione, con la tradizione popolare della romanza e del belcanto; dall’altra, parlavano (per lo più) d’amore in termini talmente elementari e generici da rendere vana qualsiasi speculazione intorno allo stile personale dell’interprete o, men che meno, alla sua personale visione del mondo. Naturalmente, questo filone ‘ingenuo’ della canzone pop non si è affatto esaurito: al contrario, occupa ancora grandissima parte dei palinsesti radiofonici, spopola ancora nelle playlist; ma a cominciare dagli anni Sessanta è diventato possibile adoperare la canzone per dire cose autenticamente – e non più solo retoricamente – personali sul proprio conto. Quando la Rock and Roll Hall of Fame elogia Leonard Cohen per avere, in mezzo secolo di carriera, «raised the songwriting bar», è a questa iniezione di verità e profondità che intende rendere omaggio; e qualcosa di simile fa l’Accademia di Svezia quando assegna a Bob Dylan il premio Nobel per la letteratura. Del resto, non è una rivoluzione che i rivoluzionari abbiano compiuto in maniera inconsapevole, al contrario. Nella celebre intervista del 1971 a Jann Wenner di «Rolling Stone», John Lennon riesce a situare questa transizione dall’ingenuo – diciamo – al sentimentale all’interno della sua stessa carriera di songwriter, alla metà degli anni Sessanta: «Ho cominciato a pensare alle mie emozioni, non so esattamente se la cosa è iniziata con I’m a Loser o con Hide Your Love Away, o giù di lì. Invece di proiettarmi in una situazione ho cercato di esprimere quello che provavo su me stesso […]. Credo sia stato Dylan ad aiutarmi a capire, non con una discussione o altro, ma solo ascoltando il suo lavoro [… Prima] non pensavo che le canzoni, le loro parole o altro, avessero alcuna profondità. Erano solo uno scherzo. Poi ho cominciato a essere me stesso nelle canzoni, scrivendole non oggettivamente ma soggettivamente».
Dal contenuto, questa soggettività si è trasmessa alla forma, cioè alla costruzione del discorso, alla figuralità, alla forma dell’espressione, ed ecco che queste emozioni autenticamente personali hanno anche cominciato a poter essere espresse in un linguaggio non meno idiosincratico di quello delle liriche post-simboliste; ecco che anche i testi delle canzoni hanno potuto diventare seducentemente opachi, e aperti a quella integrazione di senso da parte dell’ascoltatore che è lo stigma della ‘difficile’ poesia moderna. Basta vedere la ridda di interpretazioni e misinterpretazioni che si affollano in siti di ‘ermeneutica delle canzoni’ come songmeanings.com.
Ebbene, come si pone, in questo quadro così mosso, il rapporto tra le parole e la musica? Com’è noto, il problema più assillante per il paroliere moderno è trovare delle parole tronche ad usare come rimanti in una lingua che è molto più ricca di parole piane: «Scrivere canzoni in italiano – ha osservato De André – è difficile tecnicamente, perché le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano, a questo punto ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare addirittura il senso di quello che vuoi dire». I parolieri antichi, prima della svolta di metà Novecento, non si davano troppa pena, e infarcivano le loro canzoni di cuor e di amor. Oggi licenze simili sono possibili solo in testi giocosi-parodici («di noi ti puoi fidar», nel Gatto e la volpe di Bennato) oppure come «consapevoli arcaismi» (Zuliani), in autori come Conte o Capossela. E si preferisce invece aggirare il problema adoperando parole tronche straniere, anche a costo di torturare il testo (foulard, gay, es in rima nella meraviglia che è Stella stai di Tozzi-Bigazzi con tanti saluti al senso), o accentando monosillabi su cui generalmente non cade l’accento («guardavo il mondo che / girava intorno a me»), o riaccentando come tronche le sdrucciole (883: «Lasciati toccare, fa sentire cosa c’è, / lasciati slacciare, sei una libídiné»).
Questo allontanamento, spesso artificioso, dal registro del cuor e dell’amor, si accompagna a innovazioni linguistiche magari meno vistose, ma sostanziali: si diradano le voci di tradizione letteraria aulica (s’intende: salvo ritornare in certi cantautori come allusione erudita), le anastrofi, «le espressioni troppo enfatiche e convenzionali» (che tuttavia lasciano traccia, e più d’una traccia, ai piani bassi della produzione canzonettistica, perché per ogni canzone originale e ironica che arriva a Sanremo ce ne sono almeno cinque fabbricate con materiali di risulta, e insomma idealmente non contemporanee). Sino a quella sorta di divorzio tra parole e musica, o meglio di rinuncia alla melodicità, che Zuliani illustra nel paragrafo intitolato Quando vince la lingua: «un accompagnamento musicale elementare tiene il tempo e i versi sono cantati in una specie di recitativo che può essere urlato o sussurrato, ma solo raramente mostra elementi melodici marcati, anche se adatta il suo ritmo a quello degli accenti di battuta». Insomma, quanto all’esecuzione una sorta di salmodia (si pensa a certi pezzi di Vasco Brondi o di Moltheni); quanto alla struttura verbale, un testo che ha la libertà di sviluppo, quindi la complessità, della poesia non musicata, la poesia dei poeti. Col che si apre l’altra questione, del rapporto tra le canzoni contemporanee e la poesia: questione che Zuliani sfiora appena, ma con osservazioni molto precise – in genere in queste cose si è un po’ impressionistici – che chi è interessato all’argomento farà bene a leggere.
Luca Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, Roma, euro 12.