Poco meno di un anno fa si erano esposte in questa e altre sedi e in le ragioni di un appello al ministro per i Beni culturali per favorire una liberalizzazione nelle riproduzioni di beni culturali a fini di ricerca e studio, rielaborato e fatto proprio anche dalle maggiori associazioni nazionali di storici e archeologi. Grazie al fattivo supporto dei presidenti del Consiglio superiore dei Beni culturali, prima Salvatore Settis e poi Giuliano Volpe, tale appello è stato pienamente recepito e trasformato in un comma del cosiddetto decreto art-bonus voluto dal ministro Franceschini (d.l. 83/2014), come modifica al codice dei Beni culturali. Così recita il testo (art. 12, comma 3):
Al fine di semplificare e razionalizzare le norme sulla riproduzione di beni culturali, al Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004 e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche:
a) al comma 3 dell’articolo 108 dopo la parola «pubblici» sono inserite le seguenti: «o privati» e dopo la parola «valorizzazione» sono inserite le seguenti: «, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto.»;
b) all’articolo 108, dopo il comma 3, è aggiunto il seguente: «3-bis. Sono in ogni caso libere, al fine dell’esecuzione dei dovuti controlli, le seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:
1) la riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, ne’ l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, ne’ l’uso di stativi o treppiedi;
2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte dall’utente se non, eventualmente, a bassa risoluzione digitale.».
Come illustra la relazione di presentazione del decreto alla Commissione cultura, le modifiche sono mirate a semplificare «un impianto normativo non più attuale, in particolare con riguardo alle esigenze derivanti dalla circolazione dei contenuti sulla rete internet». Inoltre, prosegue sempre la relazione, «l’imposizione di un rigido sistema di restrizioni alla circolazione delle immagini di beni culturali, ove effettuate per scopi non lucrativi (e, in particolare, per finalità di studio o di creazione artistica o letteraria), appare non pienamente rispondente al dettato costituzionale che, da un lato, pone a carico della Repubblica il compito di promuovere la cultura (articolo 9, primo comma, della Costituzione) e, dall’altro, sancisce il diritto alla libera manifestazione del pensiero. L’eccessiva rigidità e difficile applicabilità di tale normativa ha dato luogo di recente a dubbi e difficoltà applicative notevoli, che la proposta normativa mira a sciogliere». Di conseguenza, sempre a stare alla relazione, è necessario intervenire sul Codice dei beni culturali, «offrendo un’interpretazione costituzionalmente orientata del dato normativo vigente», che si attua con «la completa liberalizzazione – con esonero anche dall’obbligo di autorizzazione – di una serie di attività, a condizione che siano attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale. Tali attività consistono, in particolare, nella riproduzione di beni culturali che non comporti potenziali interferenze con le esigenze di tutela […], nonché la divulgazione dell’immagine del bene».
Dal punto di vista delle procedure amministrative la modifica comporta una notevole semplificazione burocratica (e dunque una riduzione di costi). La norma e i regolamenti prevedevano infatti un’autorizzazione per effettuare riprese e un decreto di concessione per la loro pubblicazione, anche se senza fini di lucro, mentre con la modifica contenuta nel decreto, sempre come illustra la relazione, «il potere di controllo ex post del Ministero sostituisce quindi, come detto, il potere di rilasciare le concessioni ex ante, previsto dagli articoli 106 e seguenti del codice».
I termini sono dunque molto chiari, tutti centrati sulla piena attuazione del dettato costituzionale in relazione alla promozione della cultura e ai criteri di efficienza della pubblica amministrazione. Una piccola “rivoluzione” che faceva dunque ben sperare, non solo per la portata diretta sull’attività di ricerca e studio, ma anche perché centrata sull’attuazione del dettato costituzionale che intende la valorizzazione dei beni culturali finalizzata allo sviluppo della ricerca e della cultura, non certo al loro sfruttamento sul piano economico.
Questa rivoluzione è stata, fin dai primi giorni di applicazione del decreto, mal accettata da diversi istituti di conservazione, che hanno accampato anche pretestuose ragioni per negare quanto chiaramente normato, sostenendo, per esempio, che l’azione di sfogliare un manoscritto implica un contatto fisico che porterebbe, secondo la loro interpretazione del decreto, a escluderne la possibilità di riproduzione. Oppure, che si trattava di materiali troppo delicati per essere fotografati: spiegazione poco credibile, o meglio tentativo di coprire con una motivazione ideale un puro esercizio di esclusività, dal momento che proprio la fotografia permette di non dover tornare più volte a maneggiare i documenti.
Ora si deve però, con tutta probabilità, passare a parlarne al tempo passato, come di un breve intervallo in cui il ripristino di una legalità da tanto e tanti attesa è stato immediatamente chiuso da un emendamento approvato alla Camera al momento della conversione in legge. Prima firmataria Flavia Nardelli Piccoli, segretaria della Commissione Cultura della Camera, ma sottoscritto da tutti i componenti del Partito Democratico di questa commissione e di quella delle Attività produttive (tra cui Pippo Civati e Matteo Orfini, a dire di un’accettazione trasversale alle diverse anime), questo emendamento ha tolto dal campo di applicazione della nuova norma i beni bibliografici e archivistici.
Le ragioni? Non è dato saperle. L’emendamento non risulta infatti discusso in sede di commissione (non sono però ancora disponibili i verbali stenografici) ma proposto direttamente in aula. Si possono però fare alcune ipotesi, basandosi sui dati a disposizione.
La prima è che biblioteche e archivi debbano intendersi al di fuori del campo di azione della Costituzione, forse come eredità di quei diritti di riservatezza ed esclusività che erano loro propri come strumento di governo del principe. La seconda è che qualcuno, dall’interno dell’amministrazione archivistica, abbia sottoposto ai deputati una modifica che loro si sono limitati a votare, senza sapere cosa facevano (come diceva un personaggio di Nanni Moretti: «di solito mi occupo di sport»). Altra ipotesi, ma che in fondo riassume tutte le precedenti, è che chi ha promosso questo emendamento abbia inteso assecondare una spinta reazionaria proveniente dalle direzioni ministeriali e dai funzionari del settore, che si vedevano ridotti gli ambiti di controllo, cioè di esercizio di un potere discrezionale. E a queste esigenze si può sottomettere la Costituzione, anche da parte di chi a parole dice di difenderla.
Un piccolo episodio, in fondo, sul quale si vorrebbe attirare l’attenzione, auspicando che nei prossimi giorni, nel passaggio al Senato, qualcuno si renda conto dell’errore commesso e abroghi questo emendamento. Altrimenti sarà l’ennesima dimostrazione di come le riforme siano impossibili non solo per inadeguatezza degli organi legiferanti, ma ancor più per l’incapacità e la mancanza di volontà di agire sulla pubblica amministrazione, ricordandole il suo scopo precipuo: servire la Repubblica e i suoi cittadini.