[In parte sul supplemento culturale del Sole 24 ore, 18 marzo 2012]
Nello studio di un mio collega all’università c’è un foglio appeso al muro che dice «C’è qualcosa nella filologia che fa appello agli istinti peggiori degli esseri umani». La frase è di George Steiner e la potremmo riscrivere, in maniera un po’ meno perentoria, in forma di domanda. Con tante cose da fare e da dire, che senso ha passare la vita a sfogliare manoscritti o stampe antiche, a ricostruire la tradizione di opere che il più delle volte non vale nemmeno la pena di leggere, a pubblicare edizioni che spesso richiedono anni e anni di lavoro e che altrettanto spesso non differiscono dalle edizioni precedenti se non per qualche dettaglio insignificante, e comunque non portano nessun reale contributo all’interpretazione di un’opera o di un autore? Di quale timidezza è segno un atteggiamento simile? O peggio, di quale viltà?
A queste ragionevoli critiche si può rispondere in molti modi, e alcune buone risposte si trovano (insieme a molte altre cose) nella Prima lezione di filologia di Alberto Varvaro appena pubblicata da Laterza. Vediamo, dunque.
A un primo livello, la filologia è una forma elementare di positivismo: accerta i dati (dati che possono essere la datazione di un manoscritto, la corretta lettura di un documento, la storia della tradizione di un testo), fissa i termini della questione, apparecchia la tavola alla quale altri, se vorranno, potranno sedere. Non crede affatto di poter dire l’ultima parola su un problema. Ma crede di dover dire la prima. Ora, questa prima parola, questo chiarimento preliminare è sempre opportuno. È bene sapere quale redazione dei Promessi sposi si sta leggendo, ed è bene sapere perché. È bene sapere dove Verga pubblicò i suoi primi racconti veristi (in rivista non in volume, al nord non al sud), perché in questo modo vediamo più chiaramente quale fosse il suo pubblico e ci possiamo fare un’idea più precisa delle sue intenzioni e dalle risposte che si aspettava dai suoi lettori. Ma questo chiarimento preliminare è assolutamente necessario quando quelli che leggiamo sono testi premoderni, che ci giungono attraverso manoscritti o stampe antiche, e secondo modalità di trasmissione molto diverse da quelle che interessano i libri a stampa, o gli odierni files. Il campo d’interessi del filologo, in questo senso, è la tradizione delle opere, e il prodotto dei suoi studi sono le edizioni critiche.
Una seconda accezione di filologia, più comprensiva della prima, fa centro non sulla ricostruzione materiale dei testi ma sulla loro lettura: chiamiamo così ‘lettura filologica’ una lettura particolarmente scrupolosa di un testo, una lettura capace di far parlare il testo senza sovrapporgli idee, problemi, valori che gli sono estranei. Gli studi di grandi filologi italiani come Contini, o Roncaglia, o lo stesso Varvaro, sono esemplari di questo metodo.
Tuttavia (terza accezione), il metodo filologico non deve chiudersi per forza entro il perimetro del testo: può anche estendersi alle circostanze dell’opera e ragionare della personalità dell’autore, dei suoi primi lettori, dell’ambiente nel quale quell’opera è stata creata; può insomma situare storicamente l’opera, restituirla al suo contesto originario. Ciò non riguarda soltanto l’ambito degli studi letterari. Il saggio in cui Edgar Wind argomenta l’influenza che il pensiero di Hume ebbe sull’arte di Gainsborough è, a tutti gli effetti, un buon esempio di questa più larga applicazione del punto di vista filologico.
La filologia illustrata da Varvaro è queste tre cose insieme: l’edizione delle opere, la loro storia e la loro critica, ma anche la ricostruzione del contesto umano e artistico in cui quelle opere sono state create. Non è un programma particolarmente originale: è più o meno quello stesso programma che nel Trattato teologico-politico Spinoza proponeva allo studioso della Bibbia: «raccogliere le notizie relative a tutti i libri profetici di cui abbiamo memoria, e cioè la vita, i costumi e la cultura dell’autore di ciascun libro, chi egli sia stato, in che occasione, in che tempo, per chi e infine in che lingua abbia scritto. E poi [bisogna studiare] la fortuna di ciascun libro, cioè come sia stato accolto in principio, in quali mani sia caduto e quante siano state le sue varie lezioni, quale concilio ne abbia decretato l’ammissione tra i libri sacri, e infine come siano stati raccolti in un unico corpo tutti i libri già universalmente riconosciuti per sacri» (VII 3). Commentando questo passo, Pierre Bourdieu vi ha riconosciuto il fondamento «di un’autentica scienza delle opere culturali», diversa e migliore rispetto a quelle che lui definisce le letture liturgiche, destoricizzanti, che piacciono ai professori di filosofia (Meditazioni pascaliane, Milano 1998, p. 55). Ma «questo programma magnificamente sacrilego», come lo chiama Bourdieu, è precisamente il programma della filologia.
Da un ampio spettro di dati, uno spettro di dati simile a quello descritto da Spinoza, la filologia ricava informazioni che ci permettono di vedere più chiaro in un problema che fino a quel momento non riuscivamo a mettere bene a fuoco, o che addirittura neppure vedevamo. Il suo metodo è estensivo piuttosto che intensivo: ed è appunto a questo, a questo momento dell’accumulo e della descrizione scrupolosa, che pensa Steiner quando gli pare di vedere all’opera, qui, «i peggiori istinti degli esseri umani». Ma da un lato, specie se gli oggetti che studiamo sono molto lontani nel tempo o nello spazio, l’accumulo è necessario, perché si tratta di ricreare attorno agli oggetti il mondo in cui sono nati: e la quantità dell’informazione diventa qualità. Dall’altro, è senz’altro vero che ci sono persone che, spaventate dal mondo, si mettono a fare gli studiosi. E ci sono studiosi che, spaventati dalla sconfinata varietà degli studi, si mettono a fare i filologi, e se ne stanno vicini ai libri per poter stare lontani dalle cose. È un’aspirazione comprensibile, rispettabile forse, ma che non riguarda tutti i filologi, e neppure la maggior parte di loro. Non sono tutti Casaubon, il pedante di Middlemarch. Inoltre, c’è qualcosa che «fa appello agli istinti peggiori degli esseri umani» in tante altre discipline e in tanti altri indirizzi di studio. C’è un mucchio di gente che scambia il risentimento per vocazione, ma questo non fa sì, automaticamente, che tutti i cultori di gender studies o postcolonial studies siano dei dilettanti piena di rabbia, velleità e ignoranza. Bisogna avere la pazienza di distinguere.
Come ‘prima lezione’ il libro di Varvaro è, com’era da aspettarsi, ottimo: piacevole da leggere (ed è cosa rara e difficile), pieno d’informazioni e di osservazioni interessanti su testi d’epoca, lingua, genere disparati, da Dante a Froissart, da Jean Ruiz ai romanzi moderni. Ogni tanto è un po’ opaco: ogni tanto presuppone cioè un lettore che sappia già, per esempio, che cosa sono il lachmannismo, un archetipo, uno stemma. Nozioni correnti, in filologia, ma che – come qui non accade – andrebbero illustrate con calma, perché il nocciolo della disciplina è quello. Un piccolo glossario sarebbe stato utile. Ma non è grave. Il lettore interessato (l’unico a cui parlano libri come questo: i disinteressati non c’interessano) può reperire tutte le altre informazioni tecniche che gli servono in uno degli eccellenti manuali di filologia usciti in questi anni (Stussi, Ageno, Balduino, eccetera). E a questo stesso lettore si potrà ricordare che c’è, al di là della teoria filologica, una storia della filologia che è anche, più in grande, storia della cultura: e quale non piccola parte abbiano avuto gli studi filologici nella vita culturale italiana dall’Unità agli anni Trenta mostra ora un bel libro di Francesco Sberlati, Filologia e identità nazionale (Sellerio). E c’è infine, per i lettori ormai conquistati alla disciplina, la filologia in atto: ci sono i libri che mettono in pratica la teoria e che ci restituiscono i testi antichi in edizioni affidabili e ben commentate. I buoni esempi da citare non mancano, perché la filologia italiana ha dato anche di recente contributi di grandissimo valore agli studi umanistici. Qui mi limito a segnalare due veri gioielli, due libri per pochi che però resteranno, e che verranno letti e studiati anche tra molti anni, quando tanti altri libri oggi di moda saranno stati dimenticati: il saggio di Roberta Cella La documentazione Gallerani-Fini nell’Archivio di Stato di Gent, 1304-1309 (ed. SISMEL), che attraverso documenti d’archivio conservati a Gent racconta la storia affascinante della compagnia dei Gallerani, mercanti e banchieri senesi. E il saggio-antologia di Livio Petrucci Alle origini dell’epigrafia volgare (ed. Pisa University Press), che raccoglie e commenta, con uno splendido apparato iconografico, più di cinquanta iscrizioni volgari anteriori all’anno 1275. Libri per pochi, come ho detto: ma i molti non sanno che cosa si perdono.