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Sul “Purgatorio” di Dante a cura di Saverio Bellomo e Stefano Carrai

Un famoso saggio dello storico dell’architettura Joseph Connors s’intitola Sant’Ivo alla Sapienza. I primi tre minuti, e parla del momento in cui Borromini si mise a riflettere su quale forma avrebbe potuto assumere la chiesa e a tracciare una prima bozza del progetto. Borromini non era libero: la chiesa doveva sorgere in uno spazio già intensamente costruito; e come la gran parte dei progetti, anche quello borrominiano non si mantenne invariato nel tempo ma cambiò in corso d’opera, assorbendo, scrive Connors, «discontinuità e modifiche».

È un bell’esercizio, immaginare i pensieri di Borromini, un esercizio anche generalizzabile, perché ogni grande opera umana è cominciata con «i primi tre minuti»: anche la Cappella Sistina, la scrittura dei Vangeli, la traversata di Colombo, la Commedia di Dante. Sempre un progetto, lo scontro con la realtà, e poi – passati i tre minuti – lo sviluppo di quel progetto, tra fedeltà all’idea primigenia e correzioni, ripensamenti.

Messosi a lavorare all’opera che conosciamo sotto il titolo di Commedia, nei suoi primi tre minuti Dante dovette prendere molte decisioni: non prosa ma poesia, non latino ma volgare, non settenari (come quelli che aveva usato il suo maestro Brunetto Latini nel Tesoretto, uno dei rari modelli in volgare italiano che Dante poteva tenere presenti per il suo viaggio-visione) ma endecasillabi, non distici baciati (sempre Brunetto) ma quella nuova, duttile forma metrica che è la terzina incatenata, non il viaggio nell’aldilà di «un uomo» qualsiasi ma il proprio viaggio… Ebbene, tra le decisioni non scontate che Dante ha preso in quei primi tre minuti c’è stata anche quella di dedicare un’intera cantica al purgatorio. Non scontata: perché il purgatorio aveva una storia teologica recente e un’identità ancora relativamente fluida (vedi L’invenzione del purgatorio di Le Goff, dove si documenta tra l’altro – attraverso i verbali di un inquisitore – lo scetticismo di alcuni fedeli anche in epoca post-dantesca, 1335: «Nell’altra vita ci sono soltanto il Paradiso e l’Inferno, e il Purgatorio esiste solo in questo mondo»); e perché il purgatorio era meno facile da rappresentare dell’inferno (sofferenze e martiri) e del paradiso (gioia e beatitudine), e di fatto nella letteratura pre-dantesca era stato rappresentato più di rado e, se si può dire così, più imperfettamente degli altri due regni ultraterreni, e quasi solo sotto figura di simbolo, non tanto come luogo autonomo quanto come fuoco che purifica. Dante prende un’altra strada: e certo la sua fantasia sarà stata sollecitata anche dal giubileo bandito nell’anno 1300 da Bonifacio VIII, che attraverso la pratica dell’indulgenza plenaria estesa anche alle anime dei defunti non solo dava al purgatorio un inedito rilievo dottrinale ma lo metteva al centro dei pensieri di ogni cristiano.

Saverio Bellomo ha pubblicato il suo commento all’Inferno per Einaudi nel 2013 (cfr. il Domenicale del 20 maggio di quell’anno). Ora esce il Purgatorio, secondo il modello già collaudato: un commento ai versi relativamente asciutto (relativamente, s’intende, alla media dei commenti danteschi, che sono in genere piuttosto effusi, e mescolano la parafrasi a osservazioni di tipo erudito e stilistico: Bellomo limita queste ultime al necessario), un’ampia premessa a ciascun canto che dà al lettore tutte le informazioni necessarie per metterlo nelle condizioni di comprenderne il disegno e informa sull’identità di tutti i personaggi che vi compaiono, e una nota conclusiva, sempre a ciascun canto, che ne approfondisce soprattutto lo stile (nel senso più ampio: stile è anche il modo in cui si articola la visione), affronta nodi esegetici appena sfiorati nel commento ad versum, dialoga con gli altri commentatori.

Ora, molte cose sono successe negli studi danteschi degli ultimi decenni, ma in relazione alla Commedia due cose soprattutto: un riesame critico del testo fissato più di mezzo secolo fa da Giorgio Petrocchi, grazie al lavoro di studiosi come Sanguineti, Lanza, Trovato, Tonello, Inglese, e un recupero, una valorizzazione della testimonianza dei commentatori antichi. Bellomo è forse lo studioso che meglio di ogni altro poteva mettere a frutto questi risultati. Da un lato ha sempre avuto una forte sensibilità per l’ecdotica e la storia della tradizione (il suo volume Filologia e critica dantesca è forse il migliore, tra i moderni companion a Dante), dall’altro si è formato come dantista proprio studiando ed editando le chiose di commentatori trecenteschi come Jacopo Alighieri, Guglielmo Maramauro e Filippo Villani. Ovvio quindi che il commento dia ampio spazio, nelle note, alla discussione delle varianti al testo critico, che resta tuttavia quello fermato da Petrocchi: «Anche per una questione (più morale che giuridica) di diritto – avvertiva molto assennatamente nella premessa all’Inferno – non mi pare corretto modificare il lavoro altrui senza una coerente presa di posizione generale che proponga una nuova ipotesi». E ovvio che Bellomo valorizzi meglio di ogni suo predecessore il contributo dei primi commentatori: sia per la mole di notizie che essi trasmettono sui personaggi e sulle vicende storiche cui Dante allude, sia perché la loro concezione del mondo si avvicina più della nostra a quella dantesca (bisogna, ha scritto Michele Barbi nella premessa al primo numero degli «Studi danteschi», «rifarci, a forza di studio, contemporanei del poeta, rivedere l’opera sua con gli occhi di lui», e in tale impresa è chiaro l’aiuto che può dare lo sguardo di chi gli fu contemporaneo), sia – ed è un’indicazione di metodo preziosa – perché essi rappresentano una pietra di paragone e un freno a certi eccessi interpretativi, a certe troppo brillanti trouvaille dei lettori moderni: come Bellomo scrive in Filologia e critica dantesca, «è sensato attenersi a un principio di carattere metodologico che suoni così: un’interpretazione che non trovi il conforto dell’esegesi antica, o che magari vi si opponga, ha l’onere della prova, deve cioè dare ragione del perché non compaia nei primi commentatori». A questa prudenza e a questo equilibrio s’ispira tutto il lavoro esegetico di Bellomo: e sono virtù che possono sembrare scontate a chi non sa quanto sia forte la tentazione di azzardare, di cedere al fascino di ipotesi inedite e seducenti, soprattutto quando si lavora su un testo così studiato come la Commedia.

Nell’insieme, è uno splendido commento. È scritto con un nitore e un’eleganza rari: niente manierismi, niente continismi, terminologia filologica ridotta all’essenziale, e di solito ben spiegata. È onesto, nel senso che non mette la polvere sotto il tappeto, e dice quando l’interpretazione è dubbia, o quando più di un’interpretazione è plausibile: dice tutto, con novità degne di nota anche rispetto agli ottimi commenti usciti negli ultimi anni; e in particolare le «note conclusive» che chiudono i canti sono dei mini-saggi nei quali non si sa se lodare di più la capacità di sintesi (commentare Dante vuol dire decidere che cosa dire ma soprattutto che cosa non dire) o la sicurezza e l’autonomia di giudizio (commentare Dante vuol dire farsi largo in una selva di problemi aperti, e pronunciarsi su quei problemi).

Se devo fare una critica, una critica che non riguardi singoli punti del commento ma la sua impostazione generale, sarei stato ancora più cauto nella ricerca (e nel reperimento) di nessi intertestuali. È una vecchia questione. Ogni volta che Dante incontra un poeta nell’aldilà, e succede con sospetta frequenza, si scatena la caccia alle citazioni, alle allusioni, alle palinodie: con parole che ritornano in posizioni ‘strategiche’, serie rimiche che rimbalzano da testo a testo… Mi pare che da questo punto di vista un saggio influente come Dante come personaggio-poeta di Contini abbia fatto soprattutto danni: e mi pare per esempio che non ci sia bisogno di convocare il sonetto inviato da Guinizelli a Guittone (O caro padre meo) quando Dante parla di questi due poeti, né di pensare che nell’incontro con Forese tra i golosi vada letto in filigrana il pentimento per gli insulti (da non prendere sul serio) della tenzone, né di vedere nell’ammonimento di Beatrice sulla «pargoletta» che gli ha fatto «gravar le penne in giuso» il – cito Bellomo – «rifiuto di tutta la produzione lirica non incentrata su Beatrice ma su altre donne», eccetera. Ma sono cose di poco conto.

Ho parlato del curatore di questo volume al presente, ma Saverio Bellomo è morto improvvisamente nell’aprile del 2018, quando il commento al Purgatorio era in dirittura d’arrivo. Lo ha completato il collega e amico Stefano Carrai, che ha scritto anche l’ottima introduzione alla cantica. Oltre che una persona di rara umanità e simpatia, Bellomo è stato uno dei più insigni dantisti degli ultimi decenni: ascoltare un’ultima volta la sua voce attraverso queste pagine è bello e commovente, specie per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, ma sapere che ormai non potremo avere il suo commento al Paradiso rende l’idea di averlo perduto ancora più straziante.

Dante Alighieri, Purgatorio, a cura di Saverio Bellomo e Stefano Carrai, Einaudi 2019.

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