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Invito alla lettura del “Roman de la rose”

 

Questo intervento è stato scritto per l’occasione di una festa accademica, la presentazione, il 15 marzo scorso, di una miscellanea di studi dedicati ad una collega, Gabriella Ronchi, che ha recentemente terminato di insegnare all’Università di Parma («Or vos conterons d’autre matiere». Studi di filologia romanza offerti a Gabriella Ronchi, a cura di Luca Di Sabatino, Luca Gatti e Paolo Rinoldi, Roma, Viella, 2017). È stato pensato prima di tutto per gli studenti che erano presenti, ma più in generale per coloro che non hanno ancora letto il Roman de la Rose, per far loro considerare l’interesse di prenderlo in mano, approfittando di due traduzioni italiane recenti, senza farsi spaventare dalla sua mole e dalla sua complessità. Potrebbe essere il primo passo per un piccolo libro di presentazione del romanzo, che mi domando se non sia il caso di scrivere per il pubblico italiano.

Da poco, ed era ora, il Roman de la Rose si può leggere con la traduzione italiana, anzi con due, una del 2014, di Mariantonia Liborio con le note di Silvia De Laude, l’altra del 2015, di Roberta Manetti e Silvio Melani, così anche in Italia si può parlare di quest’opera straordinaria non soltanto fra specialisti. Il testo a fronte, da cui derivano le traduzioni, è quello di due edizioni molto diverse per metodo, per Manetti e Melani quella di Ernest Langlois, che adotto anch’io come edizione di riferimento, per Liborio quella di Félix Lecoy; per il mio tema, però, e non sembri un crimine di lesa filologia, le differenze di sostanza fra le edizioni non sono granché rilevanti, e non parlerò di problemi testuali[1]. Con Langlois e con la tradi­zione degli studi, prendo anch’io il Roman de la Rose per quello che secondo me è, la somma di due opere, cioè un romanzo incompiuto, di un autore che continuo a chiamare Guillaume de Lorris, sebbene il nome possa in astratto essere invenzione di Jean de Meun (è possibile, in altre parole, che il romanzo circolasse anonimo), e una lunga continuazione di Jean de Meun, personaggio relativamente noto[2]. Che Jean de Meun sia l’unico autore è stato sostenuto negli ultimi due decenni in nume­rosi saggi da Luciano Rossi, e da altri prima e dopo[3]: non lo credo e ne ho discusso nel libro che ho dedicato al dialogo di Ragione con l’Amante[4], e ne discuterò anco­ra, ma in un’altra occasione.

Chi deve ancora leggere il Roman de la Rose può chiedere di che cosa parli: domanda legittima, alla quale Contini rispose una volta in un paio di righe: «Il li­bretto della Rose è talmente elementare da essere quasi nullo; è il gesto erotico per­seguito dal suo inizio fino alla sua fisiologica conclusione»[5]; Lecoy risponde, al­l’opposto, con un dettagliato riassunto di 81 pagine che, se ho fatto bene i conti, per numero di caratteri è lungo quanto circa un quarto dell’intero romanzo. Natural­mente Contini sa bene che del contenuto della Rose c’è molto altro da dire, e Lecoy converrebbe che alcuni punti sono più importanti degli altri. Tenterò dunque (è que­sto il mio tema) una mia breve presentazione del romanzo, e pazienza se non sarò originale; per chi della Rose è uno studioso esperto, sarà una proposta di un modo di presentarla.

Come l’ha disegnato Guillaume de Lorris, il Roman de la Rose è una storia d’a­more vissuta in sogno da un protagonista maschile che narra in prima persona. Nella finzione del sogno, ma soprattutto grazie alle doti non comuni di affabulazione di un autore che narra con apparente semplicità e grande naturalezza, non ci si meravi­glia che i personaggi siano per lo più personificazioni, personaggi come Piacere, Cortesia, Ricchezza, Ragione e tanti altri; con loro agiscono figure mitologiche, il dio d’Amore e Venere, e ‘tipi’, si potrebbe dire maschere, l’Amico (che ‘si chiama Amico’) e la Vecchia (che Guillaume arriva appena a presentare), e il protagonista stesso, che è anche lui un tipo, un amante ideale, e Amante viene chiamato nelle rubriche dei manoscritti (non nel testo). Non è invece un personaggio la rosa, sim­bolo centrale del romanzo, che rappresenta l’oggetto del desiderio; per lei agiscono le personificazioni dei suoi sentimenti, Bel Acueil o Bellaccoglienza (figura un poco ambigua del consenso, dato che per via del genere grammaticale maschile è un bel giovinetto) e Rifiuto (che è un brutto villano), Vergogna e Paura.

La personificazione è nel Medioevo una delle forme principali dell’allegoria, e questo è il senso più evidente in cui il romanzo è allegorico (c’è dietro una tradizio­ne, naturalmente, sebbene piuttosto religiosa e morale che profana e amorosa). Un altro senso è quello in cui il discorso allegorico nasconde al di sotto del significato letterale altri significati, che l’interpretazione deve portare alla luce. In effetti Guil­laume annuncia più volte un’esposizione, ma la rimanda sempre; si può dubitare che l’avrebbe data se avesse terminato il romanzo, perché anche Jean de Meun la annuncia più di una volta, ma giunge al termine senza darla. Si è cercato perciò di risolvere il problema di questi annunci in sospeso interpretando come esposizione dell’allegoria alcuni passi di Jean de Meun (dato che Guillaume non fornisce ap­pigli), con risultati non convincenti[6]. Per me, si può proporre una soluzione diversa: gli autori non annunciano una parte del romanzo, che infatti non ci si trova, ma prefigurano se stessi in atto di leggerlo al pubblico esponendo il significato di ciò che leggono. In effetti, nel discorso del dio d’Amore (il passo della continuazione in cui sono dichiarati i nomi dei due autori) si dice che quando Jean de Meun avrà terminato il romanzo fleütera noz paroles, ‘farà risuonare le nostre parole (la dottri­na d’amore) per crocicchi e per scuole’, e ‘leggerà (lira) il libro così appropriata­mente’ che tutti dovranno chiamarlo Lo Specchio degli amanti[7]. Lira ‘leggerà’ è parola tecnica dell’insegnamento, della ‘lezione’, appunto; e va ricordato che, come ogni altro romanzo del Cento e Duecento, il Roman de la Rose è fatto per essere letto al pubblico ad alta voce (di ciò contiene anche segnali espliciti): letto, suggeri­scono gli autori, ed esposto. Non è rilevante che ciò possano farlo davvero loro, che però vogliono manifestare questo aspetto del romanzo come una ragione del suo valore.

È infatti chiaro che di ciò che di volta in volta è rappresentato si sottintende o si sollecita un’interpretazione, che in un minimo caso è esplicita: la sorquenie, cioè la veste aperta davanti, di Franchezza, ‘che era bianca’, dice Guillaume, ‘significava che colei che la indossava era dolce e nobile’[8]. E, per esempio, una delle frecce d’Amore, chiamata ‘Bel Sembiante’, può ferire gravemente, ma è unta da Amore con un unguento che risana la ferita, che vuol dire in modo trasparente che vedere la donna suscita il dolore d’amore, ma anche lo lenisce finché l’amante può veder­la[9]. Nella continuazione di Jean de Meun, Ragione, parlando con l’Amante che la biasima di avere usato la parola ‘coglioni’, dice di averla usata legittimamente, ma che parlava in senso figurato (parlava infatti della castrazione di Saturno, e si com­prende che con questa intendeva la fine dell’età dell’oro); quando ne ha discusso poi, dice ancora, l’ha usata invece in senso proprio, a proposito del mirabile intendi­mento di Dio di assicurare la perpetuazione della specie mediante la procreazione degli individui[10]. Di questi procedimenti di significazione il romanzo è pieno, e sollecita un esercizio d’interpretazione; si deve solo aver cura di fermarsi prima di andare oltre le intenzioni degli autori, che come si è appena visto parlano anche in senso proprio. Ma torniamo al romanzo di Guillaume.

L’Amante giunge in sogno ad un giardino recintato da un muro, sul quale sono rappresentate le figure allegoriche di dieci tra vizi e brutture che devono restarne fuori[11]. È il giardino di Piacere, di cui gli apre la porta la bellissima Oziosa (l’otium, cioè il tempo libero, diceva Ovidio, è indispensabile all’amore). Nel giardino, mira­bilmente ameno e fecondo, l’Amante incontra Piacere intento alla danza con Letizia e una compagnia di persone così belle che paiono angeli. C’è il dio d’Amore, con due archi e due serie di frecce, di effetto positivo e negativo; ci sono Bellezza, Ric­chezza, Larghezza (cioè liberalità), Franchezza (cioè nobiltà e generosità d’animo), Cortesia, Oziosa, Giovinezza. Tutta questa prima parte è gioiosamente descrittiva; fra varie digressioni, la più notevole è quella di morale cortese a proposito di Ric­chezza, a causa della quale le corti sono piene di intriganti. In effetti il punto di vista è tipicamente cortese (‘il cortese Guillaume’ è nel titolo di un bel saggio di Formisa­no)[12]: il correlativo negativo di cortese è villano, e non a caso del giardino si dice che non c’è mai entrato un pastore[13]; il dio d’Amore, quando offre all’Amante, co­me sigillo del vassallaggio, il bacio sulla bocca, dice che non la lascia baciare da villani né da beccai[14]; gli insegnamenti del dio d’Amore cominciano con la racco­mandazione di rifuggire da Villania, perché ‘il villano è malvagio e privo di buoni sentimenti, e non presta servizio agli amici’[15]; parlando di Larghezza, cioè della virtù centrale dell’ideologia cortese, Guillaume dice che chi vuole amici deve ac­quistarseli con bei doni, perché l’oro e l’argento attirano il cuore delle persone come il magnete attira a sé il ferro[16] (tutto al contrario, Jean de Meun farà pronunciare a Ragione una dura tirata contro l’amore di Fortuna, l’amicizia per profitto, che si dilegua insieme con i beni)[17].

Esplorando il giardino, l’Amante giunge alla fontana su cui morì Narciso, di cui racconta la storia; insensibile alle valenze profonde del mito, come non viene notato abbastanza, lo propone come esempio per le donne del male che possono fare ai loro innamorati rifiutandoli. In uno di due cristalli prodigiosi, in cui si vede rispec­chiato tutto il giardino, vede dei rosai in fiore, verso cui si dirige, rimanendo affa­scinato da un boccio. A questo punto il dio d’Amore gli trafigge il cuore con cinque frecce in successione. Entro il racconto di un sogno, questa scena è l’unico momen­to veramente onirico: l’Amante colpito si strappa ogni volta dal corpo l’asta, mentre la punta gli resta nel cuore, sviene più volte ed è sempre più vacillante e indebolito, ma continua a rialzarsi e a procedere verso la rosa. Alla fine s’arrende al dio d’Amo­re, diventa suo vassallo, e riceve da lui una serie di insegnamenti (quelli a cui ho già fatto cenno). Sparito il dio d’Amore, ecco Bellaccoglienza, che incoraggia l’A­mante, ma si ritrae tutto spaventato quando questi gli chiede la rosa; assalgono al­lora l’Amante Rifiuto, Malabocca, Vergogna e Paura. L’Amante fugge via e incon­tra Ragione, che vuole convincerlo a rinunciare a questa follia, ma la respinge in nome della fedeltà al dio d’Amore. Si reca quindi a confidarsi dal suo Amico, che gli consiglia di blandire Rifiuto; questi, ammansito, gli consente di restare in ado­razione della rosa, ma senza passare la siepe. All’Amante non basta, e soffre, ma gli vengono in soccorso prima Franchezza e Pietà, poi Venere: così ottiene di ba­ciare la rosa, ed è al colmo della felicità. La gioia, però, si converte in dolore: Ma­labocca desta Gelosia, che investe tutti con la sua ira e fa rinchiudere Bellacco­glienza nella torre di un castello costruito apposta, alle cui quattro porte vigilano Rifiuto, Vergogna, Paura e Malabocca, sotto la sorveglianza di una Vecchia di cui si fa in tempo a sapere solo che non può essere ingannata perché troppo esperta. Il narratore ha già detto che il castello sarà poi conquistato da Amore, ma intanto all’Amante non resta che prodursi in un lamento disperato.

Qui Guillaume s’interrompe, ma il romanzo non può essere finito. Anche questo è un punto che è stato oggetto di discussione[18], ma non ne discuterò ora, perché l’importante è che Jean de Meun ha ripreso in mano l’opera e le ha dato la forma attuale con la sua continuazione. Con lui tutto cambia, dalla tecnica della rima[19] allo stile, al contesto culturale, all’ideologia, al mondo nel quale l’autore si colloca e sul quale apre il suo discorso, che fin qui non è mai uscito dal giardino; ma nulla cambia nell’essenziale della trama.

Jean de Meun riprende reduplicando il lamento dell’Amante, che non sembrava bisognoso di aggiunte. Anche non sapendo, però, che qui comincia un nuovo autore, non avendo letto il discorso del dio d’Amore in cui si parla dei due autori, che è più avanti, e leggendo un manoscritto di quelli che non manifestano alcuna cesura, che non sono pochi, ci si dovrebbe accorgere (ma non so dire se qualcuno se ne sia accorto) che il secondo lamento contiene un dissimulato riassunto delle puntate pre­cedenti, con una serie di riferimenti puntuali alla prima parte, per riprendere il filo del racconto. In successione, l’Amante si lamenta di Speranza, ricordando che Amore gli disse che essa l’avrebbe difeso[20]; lamenta che lo avversino Rifiuto, Ver­gogna, Paura, Malabocca e Gelosia[21], e che Bellaccoglienza sia loro prigioniero[22]; si dice affranto in particolare dalla vista della Vecchia[23]; si duole di avere perduto i tre doni ricevuti da Amore, Dolce Pensiero, Dolce Parlare e Dolce Sguardo[24]; ricor­da l’omaggio prestato al dio d’Amore[25], e che a questo lo portò Oziosa[26], che ha avuto il torto di farlo entrare nel giardino; teme di aver fatto male a non ascoltare gli ammonimenti di Ragione[27]; è dunque sul punto di pentirsi e di rinunciare, ma si riscuote pensando che tradirebbe Bellaccoglienza che gli ha fatto baciare la rosa (e così è ricordato anche l’episodio del bacio[28]), e per ridarsi speranza ripete le parole pronunciate a suo tempo dal dio d’Amore: ‘riceverò volentieri il tuo servizio, e ti metterò in alto grado, se non te lo toglie viltà: ma forse ciò non sarà presto’[29].

Rimesso l’Amante in situazione, Jean de Meun lo riporta a colloquio con Ragio­ne e poi con l’Amico; ripete, cioè, due episodi già di Guillaume, ampliandoli a di­smisura non solo nella lunghezza[30], ma anche nella varietà degli argomenti che s’in­nestano uno sull’altro. Quanto alla nuda trama, però, come in Guillaume, Ragione tenta invano di dissuadere l’Amante, Amico dà consigli su come procedere. Lascia­to Amico, l’Amante vorrebbe entrare nel cammino di Troppo-Donare, percorrendo il quale vedrebbe subito cadere il castello (la venalità femminile è un tema costante della misoginia medievale), ma è respinto da Ricchezza che lo presidia. Ricchezza è presentata come se l’Amante non l’avesse incontrata nella compagnia di Piacere, dov’era splendente di pietre preziose di mirabile potere e generosa con il suo amico di denaro a palate; qui parla duramente all’Amante di Povertà, che riaccompagna all’uscita chi è entrato nel cammino di Troppo-Donare, e disegna un’inquietante rappresentazione allegorica della Fame, ricavata da Ovidio, che è un pezzo da anto­logia[31].

Il dio d’Amore, messa alla prova la fedeltà dell’Amante, chiama a raccolta i suoi vassalli per assediare il castello; presenta l’Amante come Guillaume de Lorris, che deve cogliere la rosa e cominciare il romanzo, che più di quarant’anni, cioè generi­camente molto tempo, dopo la sua morte sarà portato a fine da Jean de Meun[32]. Fra i convenuti c’è Falsembiante (Faus Semblans, falsa apparenza), immagine traspa­rente degli ordini mendicanti che hanno vinto la loro battaglia contro i maestri se­colari all’Università di Parigi nei non lontani anni cinquanta, il quale si produce in una feroce esposizione della propria ipocrisia e delle proprie malefatte. È lui, con la compagna Astinenza Costretta, che apre la porta del castello ingannando Mala­bocca e uccidendolo. Con loro entrano Cortesia e Larghezza; i quattro inducono la Vecchia, scesa dalla torre, a portare una ghirlanda a Bellaccoglienza a nome dell’A­mante. La Vecchia convince Bellaccoglienza a incontrare l’Amante con un lungo discorso il cui tema conduttore è l’arte di sfruttare gli uomini per arricchirsi con le arti della seduzione e con gli inganni. Introdotto dalla Vecchia nel castello, l’Aman­te è autorizzato da Bellaccoglienza a cogliere la rosa, ma è subito assalito da Rifiuto, Paura e Vergogna, che riportano Bellaccoglienza nella torre percuotendolo, è lui stesso malmenato e invoca soccorso. L’esercito del dio d’Amore interviene, e ne nasce una battaglia allegorica (per esempio le armi di Ben Celare sono una spada silenziosa come una lingua tagliata e uno scudo di nascondiglio bordato di andate sicure e ritorni nascosti). La battaglia va male, e il dio d’Amore chiama in soccorso Venere, che giunge dal monte Citerone e giura che non lascerà mai dimorare Castità in alcuna donna; il dio d’Amore maledice coloro che non amano e tutto l’esercito giura con loro.

In quello stesso momento Natura è entrata nella fucina in cui forgia gli individui per perpetuare la specie, ma è in lacrime e quasi vorrebbe abbandonare l’opera; si confessa dunque con il suo prete Genio. La lunga confessione, che abbraccia temi enciclopedici (come il movimento dei cieli e le macchie della luna) e teologici (con una lunga discussione intorno al libero arbitrio), va a finire sul punto dolente: l’uo­mo la offende con il suo male operare. Incaricato da Natura, Genio si presenta all’e­sercito del dio d’Amore e tiene un sermone in cui maledice e scomunica coloro che non operano per procreare; al giardino di Piacere contrappone punto per punto il parco del bianco agnello, sorta di paradiso i cui beati sono pecorelle bianche accu­dite da un buon pastore. Venere scocca con l’arco la sua fiaccola contro il castello, mirando a una feritoia tra due pilastrini che sostengono una bellissima statuetta; la descrizione di questa figura porta a narrare la storia di Pigmalione, che s’innamorò della statua che aveva scolpito, e dopo molta disperazione ottenne da Venere che si trasformasse in donna, e con lei generò Pafo: una storia di amore impossibile ana­loga e opposta a quella di Narciso. Colpito dalla fiaccola, il castello arde, i difensori fuggono, Bellaccoglienza concede la rosa, e l’Amante si avvia, come un pellegrino, con il bastone e la bisaccia che contiene due martelletti forgiati da Natura, verso una scena di deflorazione allegorica ma piuttosto esplicita. Colta la rosa, è giorno, e l’Amante si sveglia.

La storia del sogno è dunque portata alla fine da Jean de Meun come l’aveva impostata Guillaume, ma l’amore è concepito e rappresentato in modo del tutto dif­ferente e remoto dall’ideale cortese, come si mette giustamente in evidenza a partire almeno da Bédier, cioè dalla fine dell’Ottocento[33]. La letteratura cortese non era aliena dal rappresentare la soddisfazione dell’amore, ma per percepire quanto ne è lontano Jean de Meun basta confrontare la scena della deflorazione, nella sua cru­dezza, sia pure allegorica, con gli amplessi dei romanzi di Chrétien de Troyes (Erec e Enide, Lancillotto e Ginevra), raccontati con leggerezza e discrezione, tra perifrasi e reticenze: così forse avrebbe narrato Guillaume lo stesso epilogo se avesse termi­nato il romanzo. Questo per lo stile. Per la sostanza ideologica, il discorso di Jean de Meun su amore è, come si dice da sempre, realistico e materiale, e giunge, per dirlo con parole di Pasero che a sua volta si serve di Bachtin, alla «frequentazione del basso-materiale-corporeo», non direi perché attinga alla cultura popolare, come suggerisce lo stesso Pasero[34], ma per un preciso orientamento filosofico, che è un asse portante del suo romanzo, e si può compendiare sotto l’insegna di ‘Natura ge­neratrice’. Nella lirica cortese l’amore non ha nulla a che fare con la procreazione, e sono solo i moralisti che fanno presente che dall’amore nascono i figli, come il vecchio Marcabruno, che tuona contro le corti che si riempiono di bastardi; nella narrativa cortese, invece, i figli con un ruolo di primo piano non mancano, basti pensare al Cligés di Chrétien o al Milun di Maria di Francia; nella seconda Rose, però, non sono in primo piano i figli, ma la procreazione stessa, opera di Natura che assicura la continuità della specie oltre la morte degli individui. Contro Natura com­mette un grave peccato chi non collabora a quest’opera, dice Genio, e promette a coloro che operano per procreare l’ingresso in un singolare paradiso, il parco del bianco agnello, che contrappone punto per punto al giardino di Piacere: circolare e non quadrato, con al centro una fonte di vita e non di morte come quella che uccise Narciso, non sotto un pino, ma sotto un olivo, e non vi sono due cristalli illuminati dal sole, ma un carbonchio che splende di luce propria e manifesta alla vista ogni cosa, non metà per volta del giardino. Tra parentesi, questa precisa contrapposizio­ne ci mostra che l’unità del Roman de la Rose non va cercata tanto lontano, perché Jean de Meun continua a costruire dialetticamente sulle premesse di Guillaume, citandolo anche, come qui, apertamente.

Ma, tornando a Genio, dal simbolismo del buon pastore e dagli accenni espliciti alla Trinità nella descrizione del parco del bianco agnello[35] esce un certo sentore di eterodossia; tanto più che qui e altrove Jean de Meun non dice ‘continuità’ delle specie, come ho detto prima edulcorando, ma pardurableté, e pardurable significa ‘eterno’, come fa notare Silvio Melani in un saggio recente sulle concezioni di Jean de Meun in materia di origine e destino ultimo della materia e del mondo, in cui ipotizza «un Jean de Meun non solo neoplatonico, ma anche (almeno in parte) com­pagno di strada di quel particolare averroismo proprio di Sigieri di Brabante […] tentato dalla plausibilità di concezioni cosmologiche (e non solo di quelle) ormai difficilmente conciliabili con la dottrina della Chiesa»[36]. È un problema delicato, non certo l’unico di quelli che restano aperti per l’interpretazione del Roman de la Rose[37]. Tanto più che il sermone di Genio chiude un arco che parte dalle prime battute dell’intervento di Ragione, dove costei dice che «continuare l’essere divino per quanto può dovrebbe chiunque giaccia con una donna, e guardarsi nel suo si­mile, perché tutti sono corruttibili, in modo che andando per successione non venga meno la generazione»[38]; è per questo, dice, che Natura ha messo il piacere nell’atto sessuale. Perché, dunque, se Ragione sostiene ripetutamente le stesse ragioni del­l’autore, l’Amante di Jean de Meun le si oppone, il dio d’Amore presenta Jean de Meun come uno che non darà mai ascolto a Ragione, e ancora alla fine, ringraziando chi l’ha favorito per giungere al successo, l’Amante dirà che non ha proprio pensato a Ragione, «che in me ha sprecato tanta fatica»?[39]

Come che sia, l’intervento di Ragione apre una serie di percorsi che s’intrecciano con il discorso sull’amore, e che non sono meno importanti nell’economia del ro­manzo. Di nuovo con le parole di Pasero, «sotto la storia di una seduzione […] scorre ora il racconto degli innumerevoli contesti entro cui l’uomo agisce», e «l’allegoria è posta al servizio di un’esegesi dell’intera realtà»[40]. In questo senso, il tema amo­roso è un punto di partenza, connesso dialetticamente con il romanzo di Guillaume: che cos’è, si domanda Jean de Meun, che cos’è, domanda Ragione all’Amante, l’a­more di cui costui tanto soffre? L’esposizione dei tipi d’amore passa dall’amore-passione, votato solo al piacere, che Ragione censura, all’amicizia, secondo il mo­dello ciceroniano, all’amore di Fortuna, cioè per profitto (su cui s’innesca un di­scorso sulla falsa ricchezza materiale e sulla vera ricchezza che è la ‘sufficienza’, lo stare contenti di ciò che si ha), all’amore dei propri simili, che dovrebbe essere il fondamento della società: poiché questo è proprio ciò che manca nel mondo, è necessario il potere, e sono stati istituiti i giudici, che però sono ingiusti e corrotti; non resta che l’amore della Ragione a difendere il saggio dai capricci e dalle ingiu­stizie di Fortuna, di cui si portano due esempi antichi, Nerone e Creso, ma anche uno contemporaneo, Manfredi e Corradino, che dà modo a Jean de Meun di mani­festare la propria adesione alla causa angioina, con un elogio di Carlo d’Angiò cui si aggiungerà molto più avanti quello di Roberto II d’Artois[41].

Il concetto che il potere è un rimedio necessario del male, ma nei fatti non mi­gliore del male stesso, attraversa il romanzo; nel discorso di Amico, tra gli insegna­menti su come conquistare la donna, di ispirazione ovidiana, e quelli per mantenersi la donna conquistata, si inserisce un’accorata rievocazione dell’età dell’oro, tempo di innocenza e semplicità, ignara ancora del potere e della proprietà, che ritorna alla fine nel sermone di Genio. L’idea che parte dal discorso di Ragione, che Barat, Inganno o Frode, ha conquistato il mondo, si sviluppa nel discorso di Falsembiante, spalancandosi all’attualità recente e contemporanea in una critica feroce degli ordi­ni mendicanti, che include le vicende universitarie parigine, ma va molto al di là. Nel discorso di Amico, all’età dell’oro si contrappone la lunga virtuosistica tirata di un marito geloso contro la moglie, esempio, com’è commentato alla fine, della distorsione dovuta al potere dell’uomo sulla donna nel matrimonio. Per natura, in­vece, dice la Vecchia a Bellaccoglienza, le donne sono libere; il suo discorso è una lunga esposizione degli inganni consigliabili alle donne contro l’uomo, come quello di Amico degli inganni dell’uomo contro le donne. Svolgendo questi temi con infi­nite digressioni maggiori o minori, convocando autori antichi e recenti, nominati e non nominati, Jean de Meun disegna un quadro drasticamente pessimistico dell’u­manità (certo con un dettato ironico, a volte sarcastico, infine allegro, giusta la sua autodefinizione, «Jean Chopinel / Au cueur joli, au cors isnel», ‘di cuore allegro, di corpo agile’)[42], mentre al tempo stesso, lungo tutto il poema e con particolare ad­densamento nella confessione di Natura, espone argomenti di filosofia morale, di teologia, di fisica. L’aspetto dottrinale è quello che maggiormente gli ha assicurato l’interesse dei lettori medievali, mentre la misoginia esplicita in molti passi ha su­scitato un celebre dibattito alla svolta fra Tre e Quattrocento, protagonista Christine de Pizan[43]: una misoginia, a dire il vero, in parte di tradizione clericale mediolatina, in parte complessa e temperata dai ricorrenti giudizi severi sull’umanità in genere e sulla sua parte maschile.

Il romanzo di Guillaume si legge, come anche si riassume, linearmente, e richie­de solo, per goderne il fascino, quel tanto di senso storico di cui parlava Auerbach, che ci consente di apprezzare opere remote dal nostro mondo attuale e dalla nostra sensibilità. La continuazione di Jean de Meun è invece complessa, si distende in modo fluviale su ogni argomento, ma entro ognuno si complica in un intrico di argomenti minori; procede per accumulazione e per digressioni maggiori e minori, al di là di ognuna delle quali ci si sorprende di come sappia ritrovare il suo percorso. Esige perciò una particolare pazienza perché si giunga a leggerla con quell’adesione che un’opera d’arte richiede, e un complesso lavoro d’interpretazione, che ad oggi non si è certo esaurito. Non mi era possibile darne una presentazione precisa e pun­tuale entro una conversazione breve come questa doveva essere, e non sono potuto andare al di là, sempre che ci sia arrivato, di un rinnovato invito alla lettura.

 


[1]
Guillaume de Lorris, Jean de Meun, Romanzo della Rosa, a cura di Mariantonia Liborio e Silvia De Laude, Torino, Einaudi, 2014; G.d.L., J.d.M., Il romanzo della rosa, a cura di Roberta Manetti e Silvio Melani, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015; Le Roman de la Rose par G.d.L. et J.d.M., publié par… Ernest Langlois, I-II Paris, Firmin-Didot, 1914-1920; III-V, Paris, Champion, 1921-1924; G.d.L. et J.d.M., Le Roman de la Rose, publié par Félix Lecoy, I-III, Paris, Champion, 1965-1970. Edizioni posteriori alle due citate sono: G.d.L. et J.d.M., Le Roman de la Rose… par Daniel Poirion, Paris, Garnier-Flammarion, 1974; G.d.L. et J.d.M., Le Roman de la Rose… par Armand Strubel, Paris, Le Livre de Poche-Lettres Gothiques, 1992 (con traduzione francese). Le traduzioni di Liborio-De Laude e Manetti-Melani e la mia parziale (Jean de Meun, Ragione, Amore, Fortuna (Roman de la Rose, vv. 4059-7230), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014) sono state recensite da Luciano Formisano in Rivista di studi danteschi, 16, 2016, pp. 181-189. Era ed è inutilizzabile la traduzione di Gina d’Angelo Matassa, troppo lontana dal testo nella lettera e nello spirito (bella invece l’introduzione di Luciano Formisano): G.d.L., J.d.M., Le Roman de la Rose, vers. it. a fronte di G. d’A. M., intr. di L.F., I-II, Palermo, L’Epos, 1993, cfr. anche Monica Longobardi, «Una rose è una rosa è una rosa. le versioni poetiche del Roman de la Rose», in Romània orientale, 27, 2014, pp. 87-120.

[2] Un esame critico della documentazione è in Charles Vulliez, «Autour de Jean de Meun, esquisse de bilan des données prosopographiques», in Jean de Meun et la culture médiévale. Littérature, art, sciences et droit aux derniers siècles du Moyen Âge, Sous la direction de Jean-Patrice Boudet et alii, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2017, pp. 23-46.

[3] Cfr. Roger Dragonetti, «Pygmalion ou les pièges de la fiction dans le Roman de la Rose», in Orbis Mediaevalis. Mélanges de langue et de littérature médiévales offerts à Reto Raduolf Bezzola à l’oc­casion de son quatre-vingtième anniversaire, éd. par Georges Güntert, Marc-René Jung, Kurt Ring­ger, Berne, Francke, 1978, pp. 89-111; Id., Le Mirage des Sources. L’art du faux dans le roman médiéval, Paris, Éditions du Seuil, 1987, pp. 201-225 (Dragonetti sosteneva che entrambi gli autori sono finzioni letterarie di un unico autore anonimo); Luciano Rossi, «Dante, la Rose e il Fiore», in Studi sul canone letterario del Trecento. Per Michelangelo Picone, a cura di Johannes Bartuschat e Luciano Rossi, Ravenna, Longo, 2003, pp. 9-32; Id., «Jean de Meun e Guido Guinizelli a Bologna», in Quaderni di filologia romanza, 17, 2003, pp. 87-108; Id., «Du nouveau sur Jean de Meun», in Romania 121, 2003, pp. 430-460; Id., «Alain de Lille, Jean de Meun, Dante: nodi poetici e d’e­segesi», in Critica del testo, 7, 2004, pp. 852-875; Id., «I sensi di Eloisa e la mutilazione di Abelardo (nell’interpretazione di Jean de Meun)», in Critica del testo, 8, 2005, pp. 55-68; Id., «De Jean Cho­pinel à Durante: la série Roman de la Rose – Fiore», in De la Rose. Texte, image, fortune, Études publiées par Catherine Bel et Herman Bret, Loivain-Paris-Dudley (Ma), Peeters, 2006, pp. 273-298; Id., «La tradizione allegorica: da Alain de Lille al Tesoretto, al Roman de la Rose», in Le tre Corone. Modelli e antimodelli della Commedia, a cura di Michelangelo Picone (Letture Classensi 37, 2007), Longo, Ravenna, 2008, pp. 143-179; Id., «Encore sur Jean de Meun: Johannes de Magduno, Charles d’Anjou et le Roman de la Rose», in Cahiers de civilisation médiévale, 51, 2008, pp. 361-378; Id., «La figura di Giuseppe nell’iconografia e nella tradizione letteraria medievale (con particolare ri­guardo al “Roman de la Rose”», in La Fucina di Vulcano. Studi sull’arte per Sergio Rossi, a cura di Stefano Valeri, Roma, Lithos, 2016, pp. 25-36; Id., «Riflessioni sulla dialettica parodia-allegoria nella linea Roman de la Rose, Fiore, Commedia», in Sulle tracce del Fiore, a cura di Natascia Tonel­li, Firenze, Le Lettere, 2016, pp. 27-54; Christopher Lucken, «Jean de Meun, continuateur, rema­nieur et auteur du Roman de la Rose de Guillaume de Lorris», in Jean de Meun et la culture médié­vale, cit., pp. 81-106.

[4] Jean de Meun, Ragione, Amore, Fortuna (Roman de la Rose, vv. 4059-7230), a cura di Pietro G. Beltrami, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014, pp. 18-28.

[5] Gianfranco Contini, «Un nodo della cultura medievale: la serie Roman de la Rose – Fiore – Divina Commedia», in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976 (rist. 1989), pp. 245-283, p. 258. Il saggio è del 1973.

[6] Per Michel Zink, «Note sur Raison et Nature dans le Roman de la Rose», in Quaderni di filologia romanza 17, 2003: 109-123. p. 115, l’esposizione è nellla confessione di Natura e nel sermone di Genio; per Rossi, «Alain de Lille, Jean de Meun, Dante», p. 858 nota 16, il ‘momento «non è posto a conclusione dell’opera, ma sapientemente distribuito nelle varie pause di riflessione (le cosiddette “digressioni filosofiche”) che scandiscono il racconto».

[7] «Si fleütera noz paroles / Par carrefours e par escoles, / Selonc le langage de France, / Par tout le regne, en audience, / Que jamais cil qui les orront / Des douz maus d’amer ne morront, / Pour qu’il le creient seulement; / Car tant en lira proprement / Que trestuit cil qui ont a vivre / Devraient apeler ce livre / Le Mirouer aus Amoreus, / Tant i verront de bien pour eus» (vv. 10641-52).

[8] «La sorquenie, qui fu blanche, / Senefioit que douce e franche / Estoit cele qui la vestoit» (vv. 1221-23).

[9] «La cinquieme [floiche] ot non Biaus Semblanz: / Ce fu toute la moins grevanz; / Neporquant el fait mout grant plaie; / Mais cil atent bone menaie / Qui de cele floiche est plaiez; / Ses maus si est bien empleiez, / Car il puet tost santé atendre / S’en doit estre sa dolor mendre» (vv. 949-56).

[10] «En ma parole autre sen ot, / Au meins quant de coilles palaie, / Don si briement paler voulaie, / Que celui que tu i veauz metre; / E qui bien entendrait la letre, / Le sen verrait en l’escriture / Qui esclarcist la fable ocure» (vv. 7158-64); « Mais puis t’ai teus deus moz renduz, / E tu les as bien entenduz, / Qui pris deivent estre a la letre / Tout proprement, senz glose metre» (vv. 7181-84).

[11] Odio, Fellonia, Villania, Cupidigia, Avarizia, Invidia, Tristezza, Vecchiaia, Papalardia (cioè, al­l’ingrosso, ipocrisia), Povertà.

[12] Luciano Formisano, «La “double quête” del cortese Guillaume», in Studi offerti a Gianfranco Contini dagli allievi pisani, Firenze, Le Lettere, 1984, pp. 123-140.

[13] «Ou onc n’avoit entré bergiers» (v. 470).

[14] «Je n’i laisse mie touchier / Chascun vilain, chascun bouchier, / Ainz doit estre cortois e frans / Cil que j’ensi a ome prens» (vv. 1937-40).

[15] «“Vilanie premierement”, / Ce dist Amors, “vueil e comant / Que tu guerpisses senz reprendre, / Se tu ne viaus vers moi mesprendre. / Si maudi e escomenie / Toz ceus qui aiment vilanie / Vilanie fait les vilains, / Por ce n’est pas droiz que je l’ains. / Vilains est fel e senz pitié, / Senz servise e senz amitié» (vv. 2077-86).

[16] «Car trestot en autel maniere / Con la pierre de l’aïmant / Trait a soi le fer soutilment, / Ausi atrait le cuer des genz / Li ors qu’en done e li argenz» (vv. 1158-62).

[17] Cfr. vv. 4769 e seguenti.

[18] Tra chi ha sostenuto che il romanzo di Guillaume sia compiuto, o che tale possa essere considerato, o che non si possa essere sicuri che è incompiuto, cfr. Rita Lejeune, «A propos de la structure du Roman de la Rose de Guillaume de Lorris», in Études de langue et de littérature du moyen âge offerts à Félix Lecoy, Paris, Champion, 1973, pp. 315-348, pp. 344-348; Jacques Ribard, «Introduction à une étude polysémique du Roman de la Rose de Guillaume de Lorris», ivi, pp. 519-528, pp. 527-528; David F. Hult, Sel-fullfilling Prophecies. Readership and Authority in the First Roman de la Rose, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 160-185; Karl D. Uitti, «“Cele [qui] doit estre Rose clamee” (Rose, vv. 40-44): Guillaume’s Intentionality», in Rethinking the Romance of the Rose. Text, Image, Reception, ed. by Kevin Brownlee and Sylvia Huot, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1992, pp. 39-64, pp. 51-52. È chiaro che questo punto di vista è incompatibile con la teoria dell’au­tore unico, sebbene non sempre ci se ne ricordi.

[19] Lo aveva capito benissimo Langlois; sul fatto che è il cambio è netto a cavallo del passaggio dalla prima alla seconda parte cfr. Pietro G. Beltrami, «Tra norma e stile: questioni metriche e attributive di poesia romanza», in Medioevo romanzo 37, 2013, pp. 241-263, pp. 255-263.

[20] V. 2637: «Iceste te garantira»;vv. 4066-67: «Qu’Amours, pour meauz mes maus porter, / Me dist qu’el me garantirait».

[21] Vv. 4100-01: «Dangiers, Honte e Peeur m’encombre, / E Jalousie, e Male Bouche».

[22] V. 4105: « Cil ont en prison Bel Acueil».

[23] Vv. 4109-11: «Enseurquetout me repartue / L’orde vieille, puant, moussue».

[24] Vv. 4114-20: «Senz faille il est veirs que li deus / D’Amours treis dons, seue merci, / Me dona, mais je les pert ci: / Douz Penser, qui point ne m’aïde, / Li tierz avait non Douz Regart, / Perdu le rai, si Deus me gart».

[25] V. 4132: «Quant au deu d’Amours fis omage».

[26] V. 4133: «Dame Oiseuse le me fist faire».

[27] Vv. 4147-50: «Bien le m’avait Raison noté; / Tenir m’en puis pour rassoté / Quant des lors d’amer ne recrui, / E le conseil Raison ne crui ».

[28] Vv. 4165-66 «Quant il vost que je trespassasse / La haie e la rose baisasse».

[29] Vv. 4181-84: «Ton servise prendrai de gré, / E te metrai en haut degré, / Se mauvaistié ne le te tost: / Mais, espeir, ce n’iert mie tost», che ripetono i vv. 2025-28.

[30] 5782 versi contro 195: 2971-3098 (Ragione), 3099-3147 e 3203-3220 (Amico) in Guillaume, 4221-7230 (Ragione) e 7231-10002 (Amico) in Jean de Meun.

[31] Vv. 10051-271; su Fame, in particolare, i vv. 10140-230; si ispira, in parte traducendo letteral­mente, alle Metamorfosi, VIII, 788-808 (Langlois, nota a 10152-79).

[32] Vv. 10495-680.

[33] Joseph Bédier, Les fabliaux. Études de littérature populaire et d’histoire littéraire du Moyen Age, deuxième éd. revue et corrigée, Paris, Bouillon, 1895, pp. 368-370.

[34] Nicolò Pasero, «Un testo mostruoso. Roman de la Rose, 1225-30 ca. e 1270-80 ca.», in Il romanzo. 5. Lezioni, a cura di Franco Moretti et al., Torino, Einaudi, 2003, pp. 47-63, pp. 60-61.

[35] E si veda anche la critica, sia pure temperata da qualche reticenza, della castità dei religiosi.

[36] «Origine e destino ultimo della materia e del mondo. Note sulle concezioni di Jean de Meun», in eHumanista/IVITRA, 11, pp. 155-164, la cit. a p. 163. È una linea che viene da lontano, cfr. Luigi Vanossi, Dante e il «Roman de la Rose». Saggio sul «Fiore», Firenze, Olschki, 1979, p. 30: «Il fondamento ideologico del secondo Roman è stato […] individuato (soprattutto a seguito delle inda­gini del Paré e del Müller), nelle correnti dell’aristotelismo eterodosso del sec. XIII, cioè del cosid­detto “averroismo” latino, il cui massimo rappresentante è Sigieri di Brabante» (cita Gérard Paré, Les idées et les lettres au XIIIe siècle. Le Roman de la Rose, Montreal, Centre de Psychologie et de Pédagogie, 1947 e Franz Walter Müller, Der Rosenroman und der lateinische Averroismus des 13. Jahrhunderts, Frankfurt am Mein, Klostermann, 1947).

[37] Cfr. Jonathan Morton, «État présent: Le Roman de la Rose», in French Studies, 69, pp. 79-86, p. 85: «Today, understandably, some passages receive much greater critical attention than others, in particular the Lover’s vision of the Rose reflected in the fountain of Narcissus, Amor’s temporally vexed naming of the two authors, and the misogyny of the wife-beating Jaloux. Much of the rest of the work, possibly even the majority, goes relatively undiscussed, especially Nature’s confession and large sections of Faux Semblant’s sermon».

[38] Vv. 4404-10: « Continuer l’estre devin / A son poeir vouleir deüst / Quiconques a fame geüst, / E sei garder en son semblable, / Pour ce qu’il sont tuit corrompable, / Si que ja par succession / Ne fausist generacion».

[39] Vv. 21760-61: « Mais de Raison ne me souvint, / Qui tant en mei gasta de peine». Ho sollevato questo problema in Ragione, Amore, Fortuna, cit., pp. 51-52; Melani vi allude in chiusura dell’art. cit. e promette un contributo sull’argomento.

[40] Pasero, «Un testo mostruoso», cit., p. 54.

[41] Roberto II, nipote di Carlo d’Angiò, e non Roberto I, suo fratello, morto nel 1250, perché l’elogio è rivolto a un vivente.

[42] Esagera un po’, ma va dietro a questo aspetto del dettato di Jean de Meun, Luigi Foscolo Bene­detto, Il “Roman de la Rose” e la letteratura italiana, Halle a.S., Niemeyer, 1910, p. 25: «…Jehans Chopinel / Au cuer jolif… è portato dall’indole sua ricca d’innata giocondità ad una concezione otti­mistica della vita; versa dal cuore giulivo nel suo poema il comico inesauribile».

[43] Christine de Pizan, Le Livre des epistres du debat sur le Rommant de la Rose, édition critique par Andrea Valentini, Paris, Classiques Garnier, 2016.

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