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Gli 80 di Camporammaglia

Tre anni fa sono stato relatore di tesi di Valerio Valentini all’Università di Trento. Io insegno Letteratura italiana generale e sono specialista di Medioevo, ma i ragazzi che vogliono fare una tesi sul Medioevo sono rari, la gran parte vuole occuparsi di Novecento. Io cerco di dissuaderli, poi cedo. Valentini cercava un tema che fosse all’incrocio tra la letteratura e la storia della scuola; ne abbiamo parlato un po’ e alla fine è venuto fuori il tema – non veramente originale – Pasolini e la descolarizzazione.

Aspettando i capitoli della tesi ero mediamente sfiduciato. Ricevuto il primo, però, ho capito che la sfiducia era immotivata. In una quindicina d’anni di insegnamento mi sono capitati quattro o cinque studenti col dono della scrittura, e Valentini è uno di questi. Non ho corretto quasi niente, ho solo cancellato ogni tanto qualche aggettivo e qualche avverbio, e ho proposto di sostituire qualche giro di frase che ricordava un po’ troppo la prosa dei giornali. Le idee pedagogiche di Pasolini erano trattate in maniera intelligente. I giovani sono spesso reazionari, perciò Pasolini è l’intellettuale che quasi tutti ammirano e quasi tutti rimpiangono quando si leggono in classe gli articoli sui mali della televisione o della scuola media. Valentini invece ha scritto una tesi molto informata e molto equilibrata, lontanissima dall’apologia, e insomma non si è infatuato del suo autore. Anche nel libro che adesso ha pubblicato per Laterza, Gli 80 di Camporammaglia, non c’è niente di pasoliniano.

Gli 80 di Camporammaglia, appunto. Valentini me l’ha mandato circa un anno fa, e mettendomi a leggere ero di nuovo mediamente sfiduciato. Un’ottima tesi, d’accordo; ma un memoir, a venticinque anni? Un memoir sul paese natale, il paesino natale in mezzo agli Abruzzi? Temevo l’elegia, il compianto sulla civiltà paesana al tramonto, e il timore mi è parso legittimo, all’inizio, perché in una prima versione il libro si apriva con una scena drammatica in ospedale, una scena da fine della giovinezza che sembrava preludere a un commosso racconto introspettivo. Ma mi sbagliavo anche stavolta.

Valentini racconta del terremoto dell’Aquila del 2009 e del destino di questo minuscolo villaggio di un’ottantina di anime lontano da tutti. Ma è solo la cornice: dentro la cornice c’è la vita della gente del paese prima e dopo il terremoto, e in particolare la vita dell’io narrante, che è ma non è esattamente l’autore del libro – nato all’Aquila, non a Camporammaglia, nel 1991 – biografato nell’aletta posteriore.

Questo io narrante ha delle qualità rare, specie tra i nati nel 1991. I post-adolescenti, dicevo, sono spesso reazionari, specie quelli che fanno Lettere. In molti fanno Lettere per raddrizzare il mondo e l’umanità, perciò tendono a dare ascolto a quelli che rimpiangono un passato in cui il mondo e l’umanità erano diritti, trovandone senza difficoltà tanto a destra, sulle pagine di «Libero» quanto a sinistra, sulle pagine della «Repubblica» o del «manifesto». L’io narrante degli 80 di Camporammaglia è così intelligente da non cedere mai a questa tentazione. Non che sia un apologeta del cambiamento o del progresso: è troppo intelligente anche per cadere in questo errore simmetrico. Semplicemente, osserva le cose, riflette su ciò che si guadagna e ciò che va perduto, descrive senza giudicare. Di conseguenza – seconda bella qualità, ancora più rara – non è mai moralista. Non si chiede mai «di chi è la colpa?», non maledice il vizio e non esorta alla virtù, perché sa che l’uno e l’altra riflettono tradizioni, ideali, consuetudini di vita radicatissimi, che né le buone intenzioni né le prediche servono a cambiare. Questo atteggiamento obiettivo dà ragione anche del tono del libro: asciutto, sereno, impermeabile al lamento. Col terremoto, l’isolamento sui monti dell’Abruzzo, i soccorsi che un po’ arrivano un po’ no, le idiozie e le ruberie della ricostruzione, i pignoramenti che producono suicidi: poteva venir fuori un brutto libro di denuncia. Invece no: Gli 80 di Camporammaglia è un libro anche amaro, anche straziante, che però ha questa rara peculiarità – non ci sono colpevoli. È solo che la vita è così.

Il titolo potrebbe depistare, ma non deve. Gli 80 di Camporammaglia è molto di più di una meditazione sulla vita di paese. È in primo luogo un racconto-saggio di formazione, perché sebbene l’obiettivo sia puntato sugli ottanta concittadini, l’io narrante è sempre in scena, e le pagine più belle sono forse quelle che descrivono le sue prese di coscienza, il suo cambiare idea. Belle anche perché le prese di coscienza avvengono con la naturalezza con cui si cresce, per accumulo d’esperienza, non per qualche evento traumatico e rivelatore o per qualche lettura folgorante. Di nuovo, è solo che la vita va così. Qui per esempio, in poche righe, Valentini dice tutto ciò che c’è da dire intorno alla «sbornia fascista» che stordisce i maschi deboli nella prima adolescenza (e i più deboli anche dopo, certo):

«Fummo gli ultimi romantici», scherza Giacomo quando ci ritroviamo a parlare di quegli anni. E certo lui lo dice anche alludendo […] alla nostra sbornia fascista dei tempi delle medie. Una scelta, mi ripeto per raccattare un’attenuante, tutta istintiva e per nulla meditata: nata dalla voglia – di nuovo – di avvicinarci ai più grandi. E allora il braccio teso fuori dal finestrino dell’autobus e gli insulti all’autista che ci intimava di smetterla con certe canzoni, il ritratto del Duce appeso in classe, accanto al crocifisso, nella speranza che i ragazzi di terza, passando nel corridoio, notassero il tuo azzardo («Ma è stata la Sansoni a fartelo toglie? Vabbè, ma se sa che quela è ’na zecca travestita»), i discorsi mandati a memoria e recitati fino allo sfinimento. Il Ventennio celebrato come favola mitica […] e la storia ridotta a telenovela, o magari soggetto buono per una puntata di Wrestling […]. Poi forse è vero che questa non è che sia una gran giustificazione, che in fondo è così che quasi sempre s’insinua quella fascinazione che negli anni si sedimenta in ideologia vera, e si trasforma in voto e militanza.
A noi però non accadde: tutto finì con la stessa immediatezza con cui era cominciato. Quando venne meno l’obbligo dell’emulazione […], d’incanto scoprimmo certi libri, certe canzoni, che ci convinsero in breve tempo a scavalcare la barricata. Oppure semplicemente a chiamarci fuori da quella messinscena sbracata, preferendo la chitarra o la fotografia all’ansia di dover prendere posizione su qualsiasi questione, e prenderla più candida e più radicale, più ‘a sinistra’ di tutti.

In secondo luogo, Gli 80 di Camporammaglia è un libro sull’arrivo della modernità e sulle sue conseguenze. Può sembrare un motivo datato, un problema già discusso e risolto dagli scrittori tra il penultimo e l’ultimo quarto del Novecento, ma non è così. La modernità è arrivata a onde, e le ultime onde hanno investito certi angoli d’Italia molto più tardi rispetto al resto del Paese: c’è chi la mutazione l’ha vista arrivare, e ha saputo vederla, non negli anni del boom o del riflusso ma in quella dei voli low cost e dei discount:

… È qui che s’è rotto il rapporto tra essenziale e capriccio. Da sempre, a Camporammaglia come altrove, l’analisi dell’apparenza più immediata di una persona è stata un indice affidabile del suo grado di ricchezza. Prima che fossero le etichette in bella mostra a fornire indizi sin troppo scontati, si indovinava a prima vista – l’occhio allenato più dalla privazione e dal desiderio che dalla consuetudine – il pregio della tessitura della giacca, la morbidezza del cuoio delle scarpe: e a quel punto ti bastava estendere quel livello di benessere a tutti gli ambiti della vita di quella persona. Un’equazione a suo modo banale, per misurare la distanza tra te e chi ti stava di fronte. È stato grosso modo così dappertutto, e dappertutto questo sistema di misurazione a un certo punto si è rivelato fallace, perché il definitivo trionfo dell’apparenza ha di colpo falsato il rapporto che esisteva tra le variabili.
Ecco, a Camporammaglia questo cortocircuito deve essere avvenuto proprio negli anni di cui vi parlo, appena prima del mio approdo alla fase della ragione: altrimenti non si spiegherebbe il ricordo, così vivido in me e nei miei coetanei, di quel biasimo tanto rancoroso col quale i nostri nonni inveivano contro lo sfoggio di automobili e vestiti, contro la scellerata, narcisistica malaccortezza di chi al Circolo passava in rassegna tutti i ristoranti più raffinati della costa adriatica, trovandoli tutti manchevoli di quel non so che, e poi però abbassava la testa per non farsi riconoscere quando lo si incontrava con le buste piene all’uscita del Lidl a Quaianni.
L’orgoglio montanaro della rinuncia – quella rudezza, quell’austerità tanto a lungo rivendicate dalla gente di questi paesini come un proprio nobile modo di stare al mondo – al momento della prova del confronto ravvicinato col dolce superfluo della modernità, semplicemente non ha retto.

Infine, quanto alla scrittura, ho incontrato molto di rado, in questi ultimi anni, un italiano chiaro ed elegante come quello che si legge in questo libro. Elogio dentro l’elogio: è un italiano che non si saprebbe ricondurre – come càpita – a un unico modello, a un unico autore. I periodi lunghi, tenuti con mano molto ferma, e il lessico non prezioso ma scelto, consapevole della tradizione, possono ricordare Sciascia: e così anche certi vezzi di stile come l’avverbio anteposto al verbo (mentre non direi che, come invece a qualcuno è parso, l’ambientazione e l’atmosfera debbano qualcosa a Regalpetra); ma non ricorda nessuno, è solo di Valentini, la nota affettuosa e ironica che – anche coll’aiuto di certi ‘a parte’ dialettali molto misurati, mai parodici – percorre il libro dall’inizio alla fine, affiorando soprattutto in certi ritratti di camporammagliesi atipici come Corrado Michelini, l’intellettuale del villaggio:

Uomo bizzarro, Corrado Michelini. Da sempre sembra vivere in un mondo altro, in cui il tempo perde sostanza in ore lentissime, armoniose; e quando torna nella realtà, deve avvertire la sensazione di chi sia strattonato in un pantano di meschinità da cui desidera immediatamente fuggire. Una commissione da sbrigare al più presto, e poi la quiete.
Durante le sere di vita da campo, quando tutti c’infervoravamo attorno al fuoco su argomenti che andavano dalla pulizia della cucina a gas di Marisa alle ultime innovazioni in materia di edilizia antisismica, lui se ne stava chiuso nella sua Punto bianca col suo Jack London: libri consumati da riletture plurime, che i suoi familiari avevano smesso di contare già da qualche anno. (O London, o Dickens, non si scappava, «Ché brutale non è mica solo la natura. Certe volte gli uomini so’ ’na freca peggio del ghiaccio e delle bestie»). Quando sentiva il bisogno di riposare un po’ gli occhi, scendeva dalla Punto bianca e si avvicinava al cerchio di sedie intorno al fuoco. Cercava di assemblare tra loro i primi mozziconi di dibattito che gli arrivavano addosso, scuoteva la testa, riteneva indispensabile intervenire a proporre un parere risolutivo. Parere che quasi sempre, non tenendo conto di quanto già esaminato in precedenza, risultava fastidioso a molti, e additando facili scappatoie a problemi che per tutti non potevano che essere di estrema complessità, finiva per esasperare i toni della discussione. Ma a quel punto gli occhi di Corrado avevano smaltito la stanchezza, e avevano di nuovo raggiunto il livello massimo di sopportazione nei confronti del mondo reale: e dunque lui si rintanava nella sua Punto bianca a leggere un altro capitolo del Richiamo della foresta.

 

 

 

 

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