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Sì, ma cosa c’è dentro (2)? Aldo Busi


Busi

Aldo Busi è uno dei migliori scrittori italiani. Nel corso degli anni Ottanta ha scritto per alcune riviste una serie di reportage da vari paesi del mondo: Islanda, Venezuela, Brasile, Giappone, Francia, Algeria, Stati Uniti… Il volume che raccoglie questi reportage s’intitola (con un gioco di parole sul nome dell’autore) Altri abusi, e a ha una forma peculiare. Busi non si è limitato a ripubblicare questi lunghi articoli: li ha legati insieme con (per usare un termine prelevato dal Decameron di Boccaccio) una cornice nella quale racconta episodi della sua vita prima e dopo i viaggi, episodi che si svolgono invece per lo più in luoghi e contesti familiari: la sua casa nella provincia bresciana, la sua famiglia (ci sono, nella cornice del libro, ritratti memorabili della madre e della nipotina Adele).

Il libro è riuscito a entrambi i livelli: le storie familiari sono incantevoli; e i reportage di viaggio sono perfetti soprattutto perché Busi fa quello che un buon giornalista non dovrebbe fare mai: è sempre in scena. Non gli interessa fotografare la ‘vera’ Islanda o il ‘vero’ Giappone: gli interessa comunicare la sua esperienza islandese, la sua esperienza giapponese, e dato che Busi è molto spiritoso queste esperienze fanno spesso ridere, e sono piene di dettagli e considerazioni che un giornalista o un viaggiatore non si permetterebbe mai di fare per il timore di essere offensivo nei confronti del paese ospite, o di andare fuori tema. Invece Busi ci dà sia un’immagine del luogo in cui si trova sia la trascrizione delle idee che la contemplazione del luogo gli fa venire in mente. E lo fa con uno stile scorciato, diretto, brillante, e senza un briciolo di retorica.

Ecco una fulminea presentazione della città di Reykjavík, capitale dell’Islanda:

Reykjavík è una di quelle cittadine (ridenti) in cui appena messo piede ti chiedi: «E adesso?».

Eccolo alle sfilate di moda di Parigi, mentre riesce a parlar male nel giro di otto righe di tre distinte persone: il sarto Moschino («certo Moschino»: senza l’articolo «un», come nei verbali di polizia), la giornalista di «Repubblica» Natalia Aspesi e la giornalista di Vogue Anna Piaggi (colpevole di avere un nome simile a Piaggio, l’azienda che produce motorini):

E ecco che la musica inonda la finta suspense di un’attesa più annoiata che fremente, in cui m’è toccato posare lo sguardo almeno due volte su certo Moschino, stilista italiano, anche lui nero, piccolino, tracagnotto e abbronzato con l’espressione infelice di chi gli sta per scadere una cambiale più grossa di lui. E improvvisamente viene a sedersi accanto a me Natalia Aspesi, già in coma, con una che mi presenta come sua cugina, di nome Anna Piaggi, che presumo lavori nei motorini semiomonimi da cui asporta i parafanghi per farsi i cappellini.

Come si vede, a differenza del giornalista ‘oggettivo’ o del turista timido, Busi non ha paura di giudicare. Per esempio. Chi va in Giappone di solito nutre un sacro rispetto delle tradizioni locali: il teatro Kabuki, il teatro Noh, la cerimonia del tè, i templi. Busi trova che dopo un po’ siano cose molto noiose, e non ha problemi a dirlo:

Quanto a me, non capisco i templi e non ho tanta voglia di vederne altri. Tuttavia [l’ospite giapponese] mi porta a un altro, più o meno diverso, e come il precedente costruito ormai in cemento armato dipinto a falsariga del legno, perché i giapponesi si sono stufati di dover ricostruire lo stesso tempo ogni trent’anni perché il legno marcisce ma va salvaguardata la tradizione […]. Di notte mi sveglio del tutto e grido a bella posta, morto dal sonno ma ancora di più dal Kabuki: «Noh, il Kabuki Noh!».

Nel brano che segue, Busi sta per imbarcarsi sul volo che lo porterà in Algeria. Al gate, dove si radunano i viaggiatori, c’è un gruppo di immigrati che ritorna in patria. E c’è una signora italiana che non apprezza il loro odore, e fa l’errore di cercare la complicità di Busi:

All’aeroporto di Fiumicino lo spazio vitale dello sportello di Air Algérie è attaccato a quello di Air Tunisie e il mio numero nella lista d’attesa è il 25 e l’aeromobile che doveva partire un’ora fa non è ancora atterrato a causa del maltempo. In questo andare e venire di giovani magrebini che non sanno se avranno un posto o no (poiché tutti i voli di ogni compagnia con scalo a Algeri sono dati per completi per i prossimi tre giorni), io sono l’unico italiano, segno evidente che i miei connazionali, già nell’esigere l’Alitalia, esercitano una diffidenza che decolla da un comune, rampante razzismo da cui neppure i turisti sono alieni e a cui solo quelli come me in stato di necessità sono disposti a dare una sforbiciatina d’ali. C’è una signora italiana che è rimasta qui pochissimo e che il posto ce l’ha, la quale in quei cinque minuti passati fra i loro stereo di sottomarca, pezzi di ricambio d’automobile e scatoloni pieni di magliette e jeans delle sorelle Fendi di Napoli, e scatoloni in genere legati con spago all’inverosimile, si è sentita in dovere di cercare la mia complicità bisbigliandomi: «Senta che odore».
Si comincia sempre con l’olfatto; il naso, prendendo le misure per prendere le distanze, già delimita un ideale cordone sanitario. Io le ho risposto con un understatement:
«Se lei sgombrasse il campo, sono sicuro che la puzza si sposta».
È l’odore dei soldi contati in tasca, lo riconosco; di chi ha dormito coi vestiti addosso parecchie notti sotto gli androni o di chi, lavandosi alla bell’e meglio alle fontane, s’è inzuppato maniche e patte, l’odore di cerniere arrugginite e un po’ ammuffite; di chi ha sudato camminando per chilometri cercando una sistemazione un po’ più conveniente e poi, rientrando in una pensione zona Termini camera quattro letti dodicimila a branda acqua corrente fuori, ha trovato il bagno col cartello «Guasto». Di chi, scacciato fuori dall’aeroporto alle due e trenta di notte, ora limite di permanenza all’interno per gente sciatta di colore, s’è accucciato con tutta la sua mercanzia fra un’auto e l’altra nel buio, per accorgersi solo stamane che qualcuno l’aveva fatta proprio lì, sotto quello che, tutto sommato, sembrava un morbido giaciglio. Non è l’odore di sporcizia, ma quello di una lealtà verso l’accettazione delle circostanze per quello che sono, senza forzarle. La dignità raramente puzza di Bizarre.

L’episodio potrebbe essere inventato. Tutto fila anche troppo liscio, tutto riesce anche troppo bene: la ‘signora’ che crede di trovare una sponda in un altro italiano che, come lei, non ha cattivo odore; la risposta bruciante e perfetta di Busi: una di quelle risposte che di solito vorremmo aver dato a un interlocutore arrogante o indisponente o stupido (la signora è tutte e tre le cose insieme), ma che non ci viene mai in mente a tempo. L’episodio potrebbe non essere vero, potrebbe essere una cosa venuta in mente a Busi mentre aspettava l’aereo, circondato soltanto da maghrebini: «Ecco, se adesso mi si avvicinasse una di quelle signore italiane un po’ razziste…».

Del resto, non è affatto detto che un racconto di viaggio debba essere vero al cento per cento: raccontando la sua storia, uno scrittore può fare quello che vuole (mentre un giornalista impegnato a dare una cronaca oggettiva di certi fatti non può farlo). Comunque sia, se anche non è vero, l’episodio è sicuramente – come si dice – ben trovato, è un ottimo spunto narrativo (e infatti la signora tornerà come ‘personaggio’ nel seguito del racconto). La battuta («Se lei sgombrasse il campo, sono sicuro che la puzza si sposta») fa sorridere: ben le sta! E fa anche sorridere l’ironia con cui Busi la introduce: «Io le ho risposto con understatement» (perché la sua risposta è tutt’altro che moderata: è violentissima).

Ma l’ultimo paragrafo, da «È l’odore dei soldi» in poi è invece serissimo, ed è anche molto bello, perché Busi tocca una questione delicata (le condizioni di vita della povera gente) ma lo fa senza ombra di retorica e di moralismo: è un romanziere, e non fa prediche, ma sa immaginare le vite degli altri (di qui i dettagli inventati ma verissimi della «pensione zona Termini» e del bagno col cartello «Guasto»); e sa giocare su più registri, perché dopo l’indignazione per la battuta idiota della «signora», dopo l’elenco oggettivo, asettico delle cause per cui un essere umano può puzzare, nel finale del paragrafo ritorna l’ironia: «La dignità raramente puzza di Bizarre».

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