Ho sempre pensato che Emanuele Severino fosse irrappresentabile. Al limite, con qualche sforzo, riuscivo a figurarmelo come una pura astrazione geometrica, diciamo come un punto senza dimensioni. Ed è normale che sia così: a noi rimasti a valle, ciondolanti a testa china nei pascoli del divenire, chi ha scalato le vette del pensiero fino a piantare le tende sull’Essere non può che apparire come un puntino lontano. E non un punto qualunque, ma il sovrano assoluto di Pointlandia a cui Abbott, in Flatland, prestò questo magnifico soliloquio parmenideo: “Infinita beatitudine dell’esistenza! Esso è; e non c’è altro al di fuori di Esso. Quello che Esso pensa, Esso lo dice; e quello che Esso dice, Esso lo ode; ed Esso è Pensatore, Parlatore, Ascoltatore, Pensiero, Parola, Audizione; è l’Uno, e tuttavia il Tutto nel Tutto. Ah, la felicità, ah, la felicità di Essere!”.
Scopro con qualche stupore che Esso, Severino, non solo è rappresentabile, ma che Esso può essere anche fotografato; e lo scopro grazie ad Armando Rotoletti e al suo libro Il volto dell’Io. Cinquanta ritratti della filosofia italiana. Accanto a Roberto Nistri, che nel 2013 immortalò novantanove scrittori italiani in una sorta di zoo safari letterario, Rotoletti dev’essere considerato uno dei grandi benefattori culturali del nostro tempo: ci sono più cose nei ritratti di questi filosofi, Orazio, di quante se ne sognano nelle loro filosofie. Le cinquanta immagini si somigliano tutte, mezzobusto su fondo nero, più o meno come le isteriche di Charcot o i repertori di altri alienisti ottocenteschi; ma a ciascun filosofo Rotoletti ha chiesto di tenere le mani come meglio credeva, e di abbinare al proprio gesto un motto. Ne è venuto fuori un libro sublime fin dalla copertina, divisa tra Massimo Cacciari che sigilla la bocca con l’indice (lui che ha una branda sul retro dello studio dei principali talk show) e Roberta De Monticelli che si tiene la testa tra le mani, come a lenire i dolori di una perenne emicrania civile.
Gianni Vattimo, nella prefazione, dà l’imbeccata decisiva: “Quasi tutti i volti-motti che leggiamo sembrano figure – facce e pensieri associati – di gente che ha compiuto (non subìto) – con buon esito, diremmo – un percorso psicoanalitico”. Ora, sul buon esito si può discutere, già che lo stesso Vattimo sceglie di farsi ritrarre mentre fa marameo; e il motto di Marco Aurelio (“Né come un attore tragico, né come una puttana”) non riesce a cancellare nella mente dell’osservatore, perlomeno di quello romano, l’immediata associazione con uno dei grandi nietzscheani del nostro tempo, Remigio di Piazza Barberini, il matto che distribuiva volantini appena più comprensibili dei Frammenti postumi.
La filosofia italiana appare in queste pagine come una grande galleria di linguacce, smorfie, bamboleggiamenti demenziali. Elio Franzini accenna a strozzarsi con la cravatta; Francesca Rigotti dimena le mani sopra la testa, probabilmente in un tentativo di impersonazione sciamanica; Nadia Urbinati ha l’aria tutta gongolante mentre mostra di saper congiungere gli indici davanti al naso. Alcune pose ricorrono: quelli che si toccano le tempie, si aggiustano gli occhiali o accennano inspiegabilmente il balletto di Pulp Fiction. Accanto ai Giocherelloni ci sono i Combattenti, Diego Fusaro come un pugile in guardia, Toni Negri in bretelle e a pugno chiuso, Umberto Galimberti ingrugnito che fa scrocchiare le nocche e pare Mario Brega prima di una rissa. Poi ci sono i Sublimi: Maria Tilde Bettetini che fissa il cielo come una martire, Manlio Sgalambro in posa oratoria come il giovane Hitler negli scatti del fotografo personale Heinrich Hoffmann. Infine, i Meravigliati. Tra questi Maurizio Ferraris, occhi sgranati, la mano a coprire la bocca sul punto di schiudersi. E io, lo giuro, provavo a ripetermi la frase del Teeteto sulla filosofia che nasce dallo stupore, ma tutto quel che vedevo era una buona imitazione di Norman Bates quando scopre il cadavere sotto la doccia.
Non solo il libro è sublime, ma Rotoletti è un genio maieutico, perché è riuscito a cavare il motto più intelligente – pensate! – da Piergiorgio Odifreddi: “La filosofia non si distingue dalla sua parodia”. È l’epigrafe perfetta.