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La quarta cultura non farà prigionieri. Su Jerome Kagan, “Le tre culture”

[Domenicale del Sole 24 ore, 10 marzo 2013]

È difficile pensare a un saggio meno attuale di Le due culture di Charles Snow, che alla fine degli anni Cinquanta accese una discussione infinita mettendo l’uno contro l’altro due tipi umani che sino ad allora avevano abbastanza pacificamente convissuto, a volte addirittura collaborato: quelli che leggono Amleto e quelli che sanno qual è il secondo principio della termodinamica. Rileggendo il libretto si constata che la distinzione non era granché più sottile: da un lato la genia degli scienziati, che «ha il futuro nel sangue», dall’altro quella degli umanisti, i quali «pretendono che la cultura tradizionale costituisca la totalità della ‘cultura’, come se l’ordine naturale non esistesse» e, «per natura luddisti», «nutrono un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli» (sic). E si respira l’aria di certi vecchi film in bianco e nero: con la guerra fredda, la paura che gli ingegneri sovietici facciano le cose più in fretta degli ingegneri americani, le high tables dei college inglesi in cui i letterati (teste Snow) trattano con una certa sufficienza i loro colleghi scienziati. Oggi sono rimaste solo le high tables, ed è molto probabile che qui il rapporto si sia invertito, e che siano gli scienziati a guardare con sufficienza i loro sotto-finanziati, non-attrattivi, obsoleti colleghi umanisti. Ma al di là di queste un po’ oziose questioni di prestigio, è il tema in sé che mi pare abbia perso centralità. La mia copia del libro di Snow ha una bella prefazione di Ludovico Geymonat che avverte: «Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà». Felice l’epoca – verrebbe da commentare – in cui erano questi i problemi che potevano mettere in crisi «la nostra civiltà».

Le due culture di Snow apparteneva al genere difficilissimo del pamphlet, un genere in cui per cento pagine si fanno considerazioni ordinate tutte a un medesimo obiettivo. L’obiettivo di Snow era sintetizzabile nella frase ‘Le scienze dure sono più importanti delle scienze umane’; o nella frase ‘La cultura scientifica dovrebbe essere apprezzata più di quanto non si faccia di solito’; o nella frase ‘Solo le scienze applicate ci possono salvare’. Il rischio di ogni pamphlet, come di ogni ragionamento a tesi, è duplice. Da un lato una visione caricaturale degli avversari (Snow non aveva in mente degli umanisti, aveva in mente degli idioti); dall’altro la cecità rispetto a tutto ciò che potrebbe mettere in discussione l’assunto che s’intende provare, e quella fiducia smodata nelle proprie idee che porta ad essere incautamente ottimisti («La disparità tra ricchi e poveri […] non durerà a lungo. Qualunque cosa, nel mondo che conosciamo, sia destinata a sopravvivere fino all’anno 2000, certo non sarà questa disparità. Una volta che l’espediente per diventare ricchi è conosciuto, come lo è ora, il mondo non può più continuare a vivere mezzo ricco e mezzo povero. Non può proprio andare avanti così». Dove l’espediente sarebbe il buon uso della tecnica: mai fare previsioni, mai).

Le tre culture di Jerome Kagan appartiene invece al genere ‘saggio di sintesi’, o ‘saggio-visione’, ed è insomma uno di quei libri che vengono scritti verso la fine della vita da studiosi che hanno dato contributi importanti all’interno della loro disciplina, ma hanno letto molto anche al di fuori di quei confini, e ora vogliono provare a comunicare a un pubblico più ampio la loro visione del mondo. In  passato era soprattutto un genere da filosofi. Oggi che la spiegazione dell’Intero non sembra più stare in cima ai loro pensieri, il testimone è passato ad altre categorie che sono o presumono di essere più in sintonia con lo Zeitgeist: fisici, economisti, psicologi, biologi. Kagan è appunto uno studioso di psicologia, il che spiega perché, nel suo libro, la parte relativa alle scienze dure sia un po’ sacrificata, quella relativa alle scienze umane sia ridotta al minimo, e quasi tutto lo spazio se lo prenda la terza cultura, cioè quelle che si chiamano sinteticamente scienze sociali. Questo squilibrio si avverte non solo se si guarda alla quantità, al numero delle pagine, ma anche se si guarda alla qualità dell’argomentazione. Le molte pagine che Kagan dedica alla psicologia e alle discipline confinanti sono piene di osservazioni interessanti, la gran parte delle quali ruota attorno al problema cruciale del rapporto tra natura e cultura (cos’è innato e cos’è costruzione sociale? Cos’è ‘umano’ e cos’è frutto dell’educazione?), problema che Kagan affronta con grande equilibrio e soprattutto – come non accade in troppi petulanti contributi ‘umanistici’ sul medesimo tema – alla luce di abbondanti dati sperimentali. Ma le cinquanta pagine dedicate alle scienze dure e all’economia sono poco più che aneddotiche. E le cose vanno peggio con le humanities perché, non diversamente da Snow, Kagan ne ha una visione talmente riduttiva da rendere impossibile qualsiasi argomentazione o contro-argomentazione sensata. Per Snow gli umanisti erano quelli che avevano letto Amleto. Dal canto suo, Kagan ritiene (p. 259) che alla domanda «Quali sono le funzioni dello studio umanistico?» gli umanisti contemporanei risponderebbero «Fornire prospettive divergenti sulla condizione umana e creare oggetti belli». Un’idea che non si saprebbe bene come prendere (Kagan pensa ai romanzieri? Ai pittori? Certo non agli storici, filologi, paleografi, archeologi, linguisti che nelle università svolgono un lavoro non meno esatto e non meno scientifico dei loro colleghi fisici e biologi), ma che contribuisce a spiegare il tono millenaristico di una sintesi come questa: «Il mondo moderno ha disperatamente bisogno dei suoi Swift, Kant, Goya, Shaw, Beckett o Eliot per provocare una popolazione passiva, alla deriva in una nave senza una direzione chiara, che chiacchiera dell’ultimo episodio dei Soprano». Il senso degli studi umanistici – si potrebbe dire se si accettasse questo gioco – sta precisamente nel favorire l’attitudine contraria: quella che porta a diffidare di ogni esigenza di «direzione chiara», e che per esempio accoglie come una benedizione il fatto che un essere umano che vive oggi possa godere insieme di Kant, di Goya e dei Soprano. Ma non bisogna accettare questo gioco.

Il capitolo finale, Tensioni attuali, parla dell’equilibrio fra le tre culture nell’università, e ne parla con intelligenza, ma contiene considerazioni di un buon senso così cristallino da rasentare il senso comune. Non è colpa di Kagan: qualsiasi discorso sull’istruzione superiore che tratti di questioni generali corre il rischio di ripetere cose già note, e su cui siamo tutti d’accordo. Solo i sovversivi riescono ad essere veramente interessanti, ma di solito hanno anche torto. Invece Kagan ha quasi sempre ovviamente ragione: quando sostiene che la biologia può fornire dei buoni protocolli d’indagine alle scienze sociali (no alle infatuazioni per le certezze delle scienze dure); quando osserva che una storia del banjo non dovrebbe avere lo stesso credito di un corso sui fondamenti della fisica (no alla completa destrutturazione dei curricula); quando, coll’autorità dell’esperto, assicura che nessuna mappa genomica abolirà mai il libero arbitrio, per cui se un adolescente si ubriaca e poi sfascia la macchina in un incidente non ci sono scuse, è colpa sua: oggi invece «le autorità scolastiche e gli amici condividono la colpa per avergli permesso di bere fino a ubriacarsi e poi di guidare un’automobile». Insomma, il corredo genetico non è predittivo quanto all’uso o al non uso dell’etica della responsabilità: è un sollievo saperlo.

Dove Kagan ha forse torto, dove forse il suo buon senso non funziona, è su una delle questioni fondamentali del libro, e cioè sul modo in cui i rappresentanti delle tre culture dovrebbero provare a colmare il gap che li separa. Scrive Kagan: «L’ovvio bisogno di una maggiore comprensione reciproca fra i membri delle tre culture potrebbe essere soddisfatto almeno in parte dalle collaborazioni, sia all’interno che all’esterno dell’accademia, da insegnamenti condivisi e da libri scritti a più mani da rappresentanti di tutti e tre i gruppi». A stringerla in una parola, questa è la famosa interdisciplinarità (in italiano popolare interdisciplinarietà, con una e in più piovuta da chissà dove), cioè la saggia raccomandazione di studiare un oggetto, un’epoca, un problema, facendovi convergere tecniche diverse, elaborate in campi del sapere diversi. Ora, almeno in campo umanistico, il richiamo all’interdisciplinarità assomiglia un po’ a un truismo, perché è una cosa che, al livello più alto degli studi, si è sempre fatta. Interdisciplinarità significa qui, in sostanza, ‘ricerca di qualità’. Si tratta allora di creare degli studiosi capaci di farla, questa ricerca di qualità, e non è affatto detto che l’interdisciplinarità programmata, la contaminazione decisa a tavolino, sia la strada da percorrere se si vuole raggiungere quest’obiettivo. Le occasioni d’incontro tra specialisti di discipline diverse sono ovviamente una ricchezza. Ma queste occasioni si creano all’interno di ottime università, popolate da ottimi docenti e da ottimi studenti: la ricerca di alto livello (aka interdisciplinarità) nasce su questo terreno, non altrove. Pensare – come si fa sempre più spesso – di saltare direttamente all’ultimo passaggio e fare ‘ricerca interdisciplinare’ è un buon modo per incoraggiare il velleitarismo e la chiacchiera. Sul fronte della formazione, questo significa che, prima di promuovere collaborazioni tra esperti di discipline diverse e la scrittura di libri in équipe, l’università dovrebbe continuare a curarsi della buona salute delle singole discipline e della buona qualità degli studiosi che la professano. Formare dei bravi linguisti, o dei bravi storici, o dei bravi paleografi: questo è un obiettivo sensato; ‘formare dei nuovi Max Weber’ è un’idea seducente, ma non funziona (ma è, ripeto, un’idea diffusa: una sua variante spericolata si ritrova per esempio nel libretto di Toby Miller Blow Up the Humanities, Philadelphia, Temple University Press 2012, che propone di somministrare agli studenti «a blend of political economy, textual analysis, ethnography, and environmental studies», in modo da farli diventare degli agguerriti media critics: ma certo).

In definitiva, l’impressione è che la debolezza di libri così diversi come quello di Snow e quello di Kagan stia nel tema ancor prima che nello svolgimento del tema. Da un lato, le ‘culture’ così intese sono organismi troppo mobili e complicati perché se ne possa dare una descrizione sintetica. Dall’altro, predicare le contaminazioni è inutile perché – là dove si danno le condizioni opportune, e non altrove – queste si sviluppano per conto loro. Infine, colmare il divario fra le due o tre culture, oltre che irrealistico, è assurdo, perché dobbiamo precisamente a questo divario, a questa differenziazione di ruoli, buona parte del progresso tecnico-scientifico che rende meno spiacevole, meno insicura e meno breve la vita moderna; così come gli dobbiamo tante splendide opere d’arte, e tanti bei libri sulle opere d’arte. Anziché adoperarsi per colmare il divario che le separa, le tre culture dovrebbero continuare a crescere e raffinarsi nella massima libertà, e talvolta, altrettanto liberamente, conversare tra loro. Almeno fino a quando gli specialisti della quarta, l’informatica, non decideranno che è ora di piantarla.

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