Università

La non fuga dei cervelli

[Corriere di Bologna, 9 marzo 2013]

Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, sostiene il bardo. La nostra (breve) vita è circondata dal sonno. Ho spesso l’impressione che anche il dibattito pubblico sull’università sia intessuto di sogni, e quasi del tutto separato dalla vita quotidiana degli atenei.  Anche se, nel caso dell’università, sarebbe forse più appropriato parlare di incubi. Siamo circondati da una serie di miti funesti praticamente impossibili da scalfire.

Uno di questi è che i giovani e promettenti ricercatori italiani siano tutti all’estero. O in procinto di andarci. O costretti dalla forza di luridi e feudali vincoli a rinunciare ad una splendida carriera in altri lidi, dove i loro meriti sarebbero finalmente apprezzati. Insomma, non è forse vero che l’Italia soffre di una vera è propria fuga dei cervelli? Non è forse vero, come recita il noto detto siciliano, che solo chi esce riesce? Viviamo in un paese che ha il gusto della geremiade, e il pianto per i talenti costretti ad emigrare sembra prestarsi perfettamente allo scopo. Tuttavia, quando occorre lamentarsi di qualcosa, non sarebbe male controllare che ciò che ci fà soffrire sia vero. Altrimenti, si rischia di essere più Otello che non Prospero.

Qualche settimana fa, è apparso su un sito poco famoso ma molto serio, www.neodemos.it, un breve intervento di uno dei massimi demografi italiani, Massimo (nomen omen) Livi Bacci. In poche righe, ed usando fonti statistiche accessibili a tutti, l’autore ha sostenuto che questa emorragia preoccupante di giovani qualificati non è affatto certa. Tra i giovani che hanno conseguito una laurea magistrale, solo uno su venticinque lavora all’estero. Più di otto dottori di ricerca su dieci vivono, a cinque anni dal rilascio del titolo, nella stessa zona nella quale vivevano prima di iscriversi all’università. «Peri incretati», si sarebbe detto in Sicilia. Certo, può essere che dipenda dai limiti delle poche fonti disponibili. Per quanto possiamo sapere, tuttavia, i giovani italiani altamente qualificati sono piuttosto immobili.

Livi Bacci si spinge a formulare qualche ipotesi sul perché sia così. Un motivo può essere sicuramente che la crisi del mercato del lavoro accademico colpisce duro in Italia, ma non è privo di conseguenze anche in molti altri paesi. Un altro è che, semplicemente, i giovani qualificati italiani non sono particolarmente appetibili sul mercato del lavoro internazionale: l’inglese lo sanno così così, sono mediamente più anziani dei concorrenti, hanno competenze e stili di lavoro poco compatibili con le aspettative negli altri atenei. L’immagine della fuga di cervelli è rassicurante per noi anziani accademici: implica che siamo stati bravi a formarli mentre la colpa è esterna. Meno piacevole è pensare di essere parte del problema, non della soluzione.

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