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Come i soldi strozzano la ricerca scientifica

[Già pubblicato sulla rivista “Il Mulino”, 6 (2003), pp. 1171-74]

Chi fa ricerca oggi sa bene che sono cambiati i criteri con cui essa viene finanziata. E’ cambiato proprio il modo di operare degli organismi che la finanziano (ministeri, Unione Europea). Un tempo era così: lo studioso chiedeva dei soldi perché gli servivano, e l’organismo finanziatore gliene dava un po’ meno. Oggi è così: l’organismo finanziatore emana un bando di circa duecento pagine e tredici capitoli, e nell’arco di un anno lo diffonde in sette minacciose pre-versioni successive prima di promulgare quella definitiva. In esso spiega a chi e a quali condizioni verranno dati i soldi; dopodiché tutti si sprofondano nel compito di far rientrare le loro ricerche in quella camicia obbligatoria. Alla fine, a tutti quelli che ci riescono viene dato un po’ meno del richiesto, come sempre.

Più ti coordini, meglio sei

Perché, almeno dal punto di vista che diremo, era meglio prima? Perché prima a decidere come bisognava fare ricerca erano gli scienziati stessi, mentre adesso sono degli uffici in parte scientifici ma in gran parte anche banalmente burocratici. Ecco quello che accade: dovendo giustificare il più possibile la propria esistenza, gli uffici proclamano che le ricerche migliori e più degne di essere finanziate non sono quelle in cui uno o due studiosi si confrontano con un problema da risolvere che veramente esiste, e promettono di risolverlo spendendo solo i soldi necessari. Le ricerche più nobili e degne di essere finanziate sono invece – guarda caso – quelle che sottolineano meglio la funzione degli uffici stessi; cioè le grandi ricerche che coordinano più sedi, più organismi, più soggetti di ricerca, e insomma più persone possibile, in modo che le redini di tanta circolazione di persone, di idee e di risorse siano pur sempre nelle mani dei grandi organismi di coordinamento.

Ormai, se si vuole essere congruamente finanziati, bisogna promettere di coordinare almeno tre sediuniversitarie o centri di ricerca, ma meglio se sono sette o otto in paesi fra loro lontani: se uno vuole semplicemente fare una scoperta, mettere a punto una tecnologia, scrivere un saggio con la propria testa, proprio per questo verrà bocciato. Chi regge i cordoni della borsa non sembra più credere che una buona idea può venire a una sola persona, o che un procedimento può essere messo a punto da una piccola équipe. La “massa critica” necessaria per essere ritenuti seri è di centinaia di migliaia di euro, ma è decisamente meglio se si prevede di spendere qualche milione. Ciò pone dei vincoli particolarmente drastici quando, come accade di solito, vige un meccanismo di cofinanziamento; cioè quando l’organismo che eroga il finanziamento lo fa in misura proporzionale ai soldi propri che la struttura richiedente si impegna a investire nella ricerca in questione.

A questo orientamento è sottesa la concezione, neanche troppo implicita, che i soggetti davvero appropriati per fare ricerca siano assai più cose come la Bayer o l’IBM, che non i nostri (economicamente) sparuti dipartimenti universitari. I quali appunto, se vogliono battere qualche chiodo, sono costretti a organizzarsi in cordate. I Soloni degli uffici che ci dicono come fare per essere preferiti alla concorrenza dei nostri colleghi e dei privati e ottenere così i finanziamenti, danno sempre lo stesso consiglio; e del resto esso è scritto a severe lettere sui documenti programmatici e sui bandi: saranno valutati in maniera preferenziale i progetti che prevedano ampie sinergie, il concorso di più soggetti di ricerca scientifica, a volte addirittura l’istituzione di uno staff apposta che si occupi solo della gestione economica della ricerca. Certo: se si prevede di bruciare alcuni miliardi di vecchie lire in un paio d’anni, è ragionevole e può addirittura risultare un risparmio investire qualche centinaio di milioni in un’apposita segreteria amministrativa… Insomma, fanno premio i progetti grossi e molto costosi in termini di denaro ma anche di tempo umano impiegato.

Costretti a sprecare tempo

E questo è il punto. Spesso coordinarsi con altri è una perdita di tempo e uno spreco di denaro. Se invece di fare il mio lavoro io devo inseguire un collega spagnolo per chiedergli che stenda la terza versione del pre-programma di ricerca della sua sub-unità; se invece di raccogliermi al mio tavolo e risolvere un problema concettuale io devo prendere l’aereo per Bordeaux dove mi accorderò con i colleghi locali su come ripartire le voci di spesa da dichiarare nel resoconto di fine anno; se insomma mi dedico a coordinare gruppi e a onorare le richieste cartacee della burocrazia, io studio meno, faccio meno ricerca, compio meno esperimenti di laboratorio, e, importantissimo, non riesco a concentrarmi bene sui problemi di alto livello intellettuale che, si presume, la ricerca scientifica di punta mi propone. Il mio stipendio viene speso male, e ancora peggio vengono spesi i soldi che servono per farmi fare telefonate e viaggi internazionali.

Spesi male perché tutto questo lavorio è spesso inutile, ma ancor più spesso è dannoso e controproducente. Albert Einstein sarebbe riuscito a elaborare la teoria della relatività generale, se gli avessero messo come condizione di riempire continuamente complessi moduli con domande di finanziamento, moduli di stato di avanzamento, moduli di relazione in itinere, moduli di relazione consuntiva; se avesse dovuto, pena il decadimento dal diritto di essere finanziato, documentare minuziosamente un’attività di coordinamento con altri cinque centri di ricerca? E Teodoro Mommsen avrebbe compilato il Corpus Inscriptionum Latinarum, se invece di seduli e obbedienti collaboratori avesse avuto da coordinare una costellazione di gruppi di ricerca sparsi in mezzo mondo? Io sono pronto ad ammettere che ci siano progetti scientifici (specialmente nel campo delle scienze della natura e in quelle ad alto contenuto tecnologico) che possono funzionare solo se raggiungono una certa scala economica e se vedono lo sforzo congiunto di molti partner: per essi è giusto che vengano stanziate ingenti somme di denaro; ma è giusto proprio perché sono gli scienziati interessati a chiederlo, e non gli uffici erogatori a imporlo. Di questo tipo di progetti non discuto.

Ma non tutta la ricerca scientifica è così. Ci sono studiosi che covano idee geniali, dal potenziale dirompente per il futuro dell’umanità, e che per poter lavorare magari hanno solo bisogno che li si aiuti a comprare qualche libro, un nuovo computer portatile, sei risme di carta formato A4, una dozzina di penne biro e due toner per stampante-fotocopiatrice. E soprattutto, poi hanno bisogno di essere lasciati in pace. Fino a prova contraria sono gli scienziati che sanno cosa serve per far progredire la loro scienza, e i burocrati dovrebbero occuparsi di distribuire loro le risorse eventualmente disponibili. Ebbene, non è giusto che a queste persone sobrie un ufficio del MIUR o dell’UE si permetta di dire che la loro ricerca non è rilevante perché non coordina molti gruppi e non prevede grandi spese. E non è giusto che, concedendo loro ciò di cui hanno bisogno soltanto se si adattano alla moda del coordinamento generale, di fatto detti loro il modo di lavorare. Oppure, se non ottemperano, li lasci così a secco da obbligarli a disdire perfino gli abbonamenti alle riviste fondamentali del loro settore scientifico. (Purtroppo, anche a causa delle drastiche riduzioni dei finanziamenti ordinari alle università, oggi questo accade in molti nostri dipartimenti, per la prima volta nella storia moderna del paese.) Paradossalmente, chi fa una richiesta di duemila euro si vede negare anche quel poco, come se l’ente erogatore dovesse stare attento agli spiccioli, mentre gli euro scorrono a fiumi, cioè a tranches di milioni, verso chi ha fatto il grandioso.

Rimedi all’italiana, e danni veri

E’ chiaro che ogni sistema complesso è suscettibile di miglioramento, e che quindi non è saggio accontentarsi delle cose come sono. Il vecchio modo di finanziare la ricerca scientifica, un po’ acritico e “a pioggia”, non era perfetto. Era giusto cercare di migliorarne l’efficienza. Ma anche l’attuale tendenza è perfezionabile, perché forse si sta eccedendo nella direzione opposta, e in ultima analisi anche questo va a detrimento dell’efficienza del nostro sistema di ricerca.

Certo, bisogna favorire i migliori, e quindi devono esistere delle priorità attraverso cui appositi comitati di studiosi vagliano le richieste di soldi dei colleghi. Però i criteri per privilegiare alcuni rispetto ad altri non devono essere quantitativi: “più vi coordinate, e più soldi progettate di spendere, migliori siete”, ma qualitativi: “questa idea è migliore e (molto meno importante) più rapidamente realizzabile di quest’altra”.

Almeno in campo umanistico, la logica del coordinarsi obbligatorio è sentita da molti come un vero ostacolo. Il risultato è che da quando è iniziato il nuovo corso di cui sto parlando fioriscono sì ogni anno grandi ricerche coordinate su scala nazionale o internazionale; ma di solito sono dei cappelli fittizi e formulati ad arte perché sotto il loro titolo ognuno possa continuare a condurre gli studi che la sua esperienza e la sua scienza gli fanno ritenere opportuni. Prima dell’attuale moda, ognuno chiedeva di essere finanziato per quello che aveva deciso di fare: chiedeva, diciamo, venti milioni, e gliene davano dieci. Oggi così facendo non si prenderebbe un euro; e allora ci si mette in dieci, di dieci diverse università e centri di ricerca; si trova un titolo che sia un passabile comune denominatore delle cose che comunque faremmo, in modo da fingere che si tratti di una sola megaricerca; si chiedono centomila euro e alla fine ce ne danno cinquantamila che ci dividiamo fraternamente. A parte la valuta sembra proprio la stessa cosa, ma la differenza è che interi mesi-uomo vengono perduti nel montare e tenere in piedi tutta la complessa baracca, ottemperando alle fastidiosissime direttive dei burocrati.

Un ulteriore effetto perverso di questa situazione è il seguente: spesso succede addirittura che qualcuno abbandoni un promettente filone di ricerca perché è difficile presentarlo nella forma più adatta a ottenere un finanziamento: fatto tanto più probabile quanto più l’idea è nuova e originale, perché questo rende difficile trovare numerosi partner pronti a lavorarci. Abbandonata la buona idea, ci si rivolgerà a qualche impresa più banale e più condivisa, “per non sprecare la possibilità di ottenere un finanziamento”. Insomma, invece di chiedere dei soldi perché si vuole realizzare una cosa che è ritenuta in sé utile, si finisce per fare qualcosa (di meno utile) solo perché questa cosa permette di spendere dei soldi.

Tre cause, di cui una subdola

Perché accade tutto questo? Si possono individuare almeno tre cause. La prima l’abbiamo già detta: i burocrati degli uffici vogliono sentirsi utili, vogliono lasciare la loro impronta sulla ricerca scientifica, vogliono guadagnarsi davvero il loro stipendio; e poi naturalmente preferiscono dettare le proprie condizioni agli scienziati anziché mettersi semplicemente a loro disposizione.

La seconda è che viviamo in tempi economicistici, in cui sembra naturale valutare l’importanza di un’impresa, anche di un’impresa scientifica, soprattutto sulla base delle risorse di denaro o simili che prevede di impiegare e di mettere in movimento, anziché sulla bontà delle idee che la motivano. Questione importante e drammatica, la cui portata va del resto ben oltre l’argomento di cui ci stiamo occupando.

La terza è più sottile e più difficile da vedere, soprattutto perché alligna proprio dove non ci si aspetterebbe, e cioè fra i ranghi degli studiosi. Una volta lo scienziato, fosse egli fisico o filologo, era di necessità un intellettuale. Non dormiva tranquillo se quel giorno non aveva prodotto qualche piccolo passo avanti scientifico (la famosa “pagina al giorno”), e si sentiva chiamato come minimo all’erudizione, possibilmente al genio. Oggi non è più così. L’istruzione di massa, gonfiando il numero degli studenti, ha chiamato un po’ in fretta all’insegnamento universitario un sacco di ignoranti. E la grande prosperità di un’economia in cui servono pochissime braccia per produrre cibo e servizi, ha aperto notevoli spazi per persone mediocri nelle istituzioni di ricerca. Risultato: molti che fanno gli scienziati non ci sono tagliati. In realtà pensare li affatica. Quando ci provano non possono rallegrarsi dei risultati. Non padroneggiano la cultura necessaria, e le categorie del pensiero fine. Per queste persone, riempire moduli o telefonare ai colleghi stranieri del gruppo di ricerca non è un insopportabile ostacolo alla loro attività intellettuale; anzi è un gradito pretesto per evadere dalla responsabilità di produrre pensiero, senza però apparire inutili o poco solerti. Paralizzati davanti alla pagina bianca o alla necessità di progettare un esperimento che abbia un senso, rifioriscono se possono studiare le procedure per la presentazione della domanda di finanziamento, attribuire le motivazioni più opportune alle varie voci di spesa, prevedere i tempi di attuazione. E’ nata, dunque, una segreta e tacita alleanza fra i burocrati degli uffici scientifici e gli scienziati con l’animo da burocrati. Un sodalizio che mette nell’angolino i cultori del pensiero e della scienza veri e propri. Ci sono perfino istituzioni di ricerca (fortunatamente non quella a cui appartengo), dove questo tipo di persone sono la maggioranza o semplicemente dove il parametro economico è fortemente valutato, in cui chi produce idee è a malapena tollerato, mentre chi coordina e drena quattrini gode del vero prestigio.

Ma sarebbe meglio correggere questa politica della ricerca perché, a tutt’oggi, una delle principali cose che fanno davvero progredire l’umanità sono pur sempre le buone idee.

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