Cultura e società

Il futuro non è più quello di una volta

[Supplemento domenicale del «Sole 24 Ore», 20 maggio 2012]

Ho 41 anni, e sono un nativo digitale.

Perché ho solo vaghi ricordi del prima. C’era il film su RaiUno il lunedì sera. Poi, a un certo punto, Dallas su Canale 5. Lunghi pomeriggi passati a casa a leggere, senza interruzioni. Un quotidiano solo, La Stampa (vivevo a Torino). Scrivevo e ricevevo lettere di carta, che in buona parte ho conservato in una scatola da scarpe, e devo dire che, tra le tante possibili, questa è l’esperienza che rimpiango più spesso, e che più mi dispiace non poter condividere coi ventenni di oggi: «Stringo nella tasca una lettera di stamani» è un verso di Fortini che mi ha sempre commosso. Vent’anni di internet (ho spedito la mia prima e-mail all’inizio del 1992) hanno fatto diventare remotissimo questo passato prossimo.

Così, per un certo periodo, per capire non solo ciò che mi stava succedendo intorno ma anche ciò che stava succedendo a me, ho letto tutto quello che mi capitava sottomano sul tema internet e, soprattutto, sul tema ‘L’istruzione, l’informazione e la circolazione delle idee al tempo di internet’. Ho smesso di farlo per due ragioni. La prima è che la situazione è così fluida che qualunque saggio sul tema invecchia in pochi mesi: non si fa a tempo a preoccuparsi di Second Life che Second Life passa di moda; non si fa a tempo a dire che il mondo del futuro avrà bisogno soprattutto di esperti in decimazione che già il mondo del futuro dimostra di non sapere bene che farsene, dei decimatori. Ogni analisi, ogni previsione, diventa subito archeologia. La seconda ragione è che i saggi che leggevo tendevano a polarizzarsi tra favorevoli e contrari, come se invece che di capire la trasformazione in corso si trattasse di fare il tifo.

I favorevoli erano molto favorevoli: non era chiaro che internet avrebbe realizzato, con altri mezzi, i sogni irrealizzati del Sessantotto? I contrari erano molto contrari. Non era chiaro che internet avrebbe distrutto la civiltà che avevamo costruito con infinita pazienza nel corso di secoli e che al suo posto avrebbe messo, esattamente, niente? I favorevoli erano intelligenti, brillanti, inattendibili e un po’ fatui. In Cultura convergente (Apogeo 2007), Henry Jenkins riesce a trovare bello tutto, proprio tutto quello che corre online, dai pomeriggi passati a chattare sul tema ‘Chi è il prossimo a uscire dalla casa del Grande Fratello’ ai pettegolezzi su American Idol («Storicamente, il gossip è stato relegato a ‘chiacchiera oziosa e inutile’, ma, negli ultimi decenni, le studiose femministe hanno cominciato a rivalutarne l’importanza nella comunità delle donne»: ma tutto il paragrafo Come il gossip stimola la convergenza fa sognare). In Tutto quello che fa male ti fa bene (Mondadori 2006), Steven Johnson difende con argomenti anche sensati la causa dei videogiochi e delle serie televisive, ma poi il ruolo che si è scelto gli prende la mano, esagera, scrive cose come: «Non è richiesto un grande stimolo cognitivo quando si imparano le regole di un telefono a disco. Ma si può perdere una settimana esplorando tutti gli angoli nascosti e le pieghe di Microsoft Outlook» (p. 108). E perché mai, si vorrebbe domandare a Steven Johnson, una persona sana di mente dovrebbe passare una settimana ad esplorare «tutti gli angoli nascosti e le pieghe di Microsoft Outlook»? A che serve reagire a questo stimolo cognitivo? E non sta qui, in questo capovolgimento tra mezzi e fini, una delle giuste ragioni d’allarme degli intellettuali su cui ironizzano Jenkins e Johnson?

I contrari erano intelligenti, colti e un po’ più grigi, e molto meno fatui. Magari non per indole, ma perché questo è il ruolo che tocca a chi non abbraccia volentieri il cambiamento: gli euforici sono gli altri. Il libro migliore che io abbia letto, all’interno di questo genere, è Against the Machine di Lee Siegel, tradotto l’anno scorso da Piano B Edizioni col titolo (un po’ infame) Homo Interneticus. Lo consiglio caldamente. Sulla linea critica, anzi ipercritica, di Siegel, esce ora da Garzanti un libro di Raffaele Simone dal titolo Presi nella rete (ma uno sforzo di fantasia, o editori italiani, almeno nei titoli?).

Simone ha un profilo molto diverso rispetto a quello di coloro che si occupano in genere di questi argomenti: è uno dei linguisti italiani più insigni, ha scritto saggi belli e importanti sull’istruzione (L’università dei tre tradimenti dovrebbe essere una lettura obbligatoria per le matricole di tutte le facoltà) e un romanzo sugli ultimi mesi di vita di Cartesio (Le passioni dell’anima, Garzanti 2011). Da uno studioso con questa formazione ci si poteva aspettare un libro risolutamente contrario alla civiltà digitale: alla sua fretta, alla sua approssimazione. Presi nella rete non tradisce le attese: l’inciviltà digitale – sostiene Simone – rende i media ubiqui e ossessionanti (cellulari che squillano ovunque, brandelli di conversazione altrui che siamo costretti ad ascoltare); restringe lo spazio della lettura e della scrittura e amplia enormemente quello dell’immagine, che è più semplice e più povera di contenuto, e asseconda la pigrizia; indebolisce la memoria; mette a rischio l’integrità dei testi (citazioni che rimbalzano di sito in sito, interpolazioni e tagli arbitrari); asseconda le opinioni irriflesse e dà a qualsiasi idiota la facoltà di urlare la propria (basta un giro tra i commenti su YouTube, o nei blog culturali); è per natura nemica dei saperi tradizionali, quelli che si acquisiscono attraverso lo studio; fa piazza pulita della varietà linguistica imponendo a tutti quanti un inglese da aeroporto; isterilisce l’«arte del narrare» perché modifica radicalmente le forme dell’esperienza umana. Eccetera.

Dato che collaboro al supplemento culturale del Sole 24 ore, temo di condividere molte delle preoccupazioni e delle insofferenze di Simone. Fossi un entusiasta del web, scriverei su Nova, e sarei meno nervoso. Di fatto, il libro di Simone dice dei media attuali molte delle cose che sui media attuali penso anch’io nei miei momenti di cattivo umore. Ciò che trovo contestabile non è il fatto che Simone non spenda una parola su quanto di buono in internet c’è o ci potrà essere in futuro: Simone ha tutto il diritto di scrivere un saggio a tesi. Ciò che trovo contestabile è che, in tutto il libro, Simone contrapponga un modo giusto a un modo sbagliato di fare, pensare e comunicare le cose, e che il modo giusto sia sempre quello di ieri, e il modo sbagliato sempre quello di domani. Il testo digitale non porta tracce fisiche di chi l’ha scritto, e questo è un male; la lettura non si fa più soltanto in spazi isolati e silenziosi ma anche in mezzo alla folla, in modi «vaghi e irriverenti» (Steiner), e questo è un male; l’e-book non si può sfogliare, e questo è un male; i giovani «hanno un’idea di narrazione e di ‘storia’ […] del tutto diversa dalla nostra, cioè da quella dei componenti delle generazioni del dopoguerra», e questo è un male…

Ripeto: io credo che Simone abbia spesso ragione nello specifico; ma credo che abbia torto nell’impostazione generale del discorso. Da circa un secolo a questa parte (più precisi? 1912: l’anno in cui comincia Downton Abbey) tutti i nonni sanno che i loro nipoti vivranno in un mondo molto diverso da quello in cui hanno vissuto loro. Negli ultimi decenni il tempo è andato più in fretta, e non accenna a rallentare, così la forbice ha cominciato ad aprirsi tra i genitori e i figli, tra i figli maggiori e tra i figli minori. Soggettivamente, non è un processo facile da accettare: a quarant’anni, uno si trova a scuotere la testa davanti a un mucchio di cose. Se poi è laureato in Lettere, gli capita spesso di prendersi la testa fra le mani. Ma è una debolezza a cui dovremmo cercare di resistere. Non perché non serve a niente e vi fa il vuoto attorno (anche). Ma perché proprio l’esperienza del passato ci dice che, se saremo fortunati, nel mondo di domani i nostri figli avranno problemi e opportunità che oggi neppure immaginiamo, e che gli strumenti di cui si serviranno per risolvere questi problemi e per approfittare di queste opportunità avranno poco a che fare con quelli che oggi ci sono familiari; e perché forse la loro stessa intelligenza, plasmata dal nuovo ambiente nel quale vivranno, seguirà vie che oggi noi non siamo in grado di vedere. È una prospettiva che può generare ansia: a me la genera. Ma nella riflessione sull’avvenire dovremmo sforzarci di abolire parole come ‘meglio’ o ‘peggio’, ‘giusto’ o ‘sbagliato’, e accontentarci di ‘diverso’; dovremmo privilegiare l’analisi rispetto al giudizio (di fatto, mi pare che le cose più interessanti sulla svolta digitale non le stiano scrivendo né i filosofi né i moralisti ma gli psicologi e i sociologi: per esempio Sherry Turkle in Insieme ma soli, Codice Edizioni 2012); e dovremmo cercare di ridurre al minimo i confronti col mondo del passato: non tanto perché a una certa età si diventa inadattabili, e si tende alla nostalgia (i due saggisti contemporanei che Simone cita più spesso, e con più favore, sono George Steiner e Giovanni Sartori, ed è chiaro che non va bene), quanto perché il mondo del passato non c’entra molto col mondo del futuro.

 

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