Istruzione

“Quelli che però è lo stesso” di Silvia Dai Pra’ e “Il ruggito della madre tigre” di Amy Chua


[Saturno, 13 maggio 2011]

In un paese meno distratto nel nostro, Quelli che però è lo stesso di Silvia Dai Pra’, diario di una giovane insegnante in una scuola professionale della periferia romana, avrebbe una risonanza non molto diversa da quella che ha avuto Gomorra. O anche maggiore, dato che la camorra riguarda solo un pezzo del paese, e uno può vivere tutta la vita senza mai vederla da vicino, mentre la scuola riguarda tutti.

I libri sulla scuola sono ormai un genere a sé, e un genere che conta rappresentanti di altissimo livello (Starnone e Fiori, per esempio), ma la Dai Pra’ fa meglio di tutti. Evita tutte le trappole in cui è così facile cadere scrivendo di scuola dall’interno: non è mai retorica, non è mai sentimentale, e per il disastro che ha di fronte ogni giorno non incolpa Amici o Berlusconi o la CGIL: non perché non siano colpevoli ma perché le radici del disastro sembrano tanto profonde da sfidare qualsiasi spiegazione. È modesta: non ha soluzioni da offrire se non la perseveranza e il buon senso; non s’inorgoglisce troppo dei successi, che sa effimeri (che fine farà, persa sul lungomare di Ostia, Nadjette, la ragazza marocchina che «ha una luce diversa negli occhi rispetto alle Sheila e alle Manila, e che è l’unica veramente libera»?); e le stanno a cuore i casi disperati, ma sa bene che è non è lì per salvare la vita a nessuno. In più, scrive splendidamente e possiede un vero talento comico. La scena della gita di classe a Montecitorio, col parlamentare in cravatta verde che squadra Daiana «e le sgranocchia i glutei con lo sguardo mentre mastica un chewing-gum» vale cento saggi di sociologia e rivela l’essenziale, e cioè che, tranne che per il censo, gli abitanti del Palazzo sono ormai identici agli abitanti delle borgate.

L’immagine della scuola che viene fuori da Quelli che però è lo stesso è appena meno tragica di quella che viene fuori da un film come La classe di Cantet. Ma è un’immagine più irritante, perché quelli di Cantet sono poveri cristi per metà africani, mentre i reietti della Dai Pra’ non sono così poveri da non potersi permettere la macchina, la palestra, il computer, la Pasqua a Sharm. Il che significa che la scuola non è né la malattia né la cura, la scuola è un sintomo.

Dopo aver chiuso il libro della Dai Pra’, il lettore che ama i contrasti può aprire Il ruggito della madre tigre, di Amy Chua, uno dei saggi più venduti negli USA durante l’ultimo anno. Tema: come una madre sino-americana educa le sue figlie. Svolgimento: «Alle mie figlie Sophia e Louisa non è mai stato permesso di: (1) andare a dormire dalle amiche; (2) andare a giocare dalle amiche; (3) partecipare a una recita scolastica; (4) guardare la televisione o giocare con i videogiochi; (5) prendere una voto inferiore a 10; (6) non essere la migliore in ogni materia». Duecentoquaranta pagine così: da un trionfo all’altro, da una violenza fisica e psicologica all’altra (Sophia e Louisa per un po’ si ribellano a essere trattate come droni, poi soccombono). Ogni tanto (per esempio quando applica questi stessi princìpi educativi al samoiedo Coco, che ha la sventura di finire in casa sua) ci si domanda se Amy Chua non stia scherzando. Se è così, è una dei grandi umoristi del nostro tempo. Ma non è così.

Terminato anche il libro di Amy Chua, il lettore resta più che mai nel dubbio. Che fare? Da una parte ci sono i tatuati palestrati nazisti delle borgate romane, c’è la madre di Thomas, che fa a botte col figlio davanti al cancello perché non vuole che il figlio vada a scuola. E dall’altra c’è Amy Chua, che ha una crisi di nervi quando apprende che la piccola Sophia è arrivata seconda «al test di velocità nelle moltiplicazioni», dietro al compagno coreano Yoon-seok («Ogni sera della settimana successiva le assegnai venti test di prova, cronometrandola ogni volta. Da allora a scuola arrivò sempre prima. Povero Yoon-seok. A un certo punto tornò in Corea con la famiglia, ma non credo sia stato per il test»). Due abissi. In tutto questo, l’unica persona amabile, in 180 + 240 pagine, è Silvia Dai Pra’, per cui sembrerebbe logico concludere che la scuola che ha formato la Dai Pra’ è esattamente quella di cui abbiamo bisogno. Peccato che, presa in mezzo tra la scuola per i sociopatici e la scuola per i piccoli Einstein, sia anche quella che ha meno chances di sopravvivere.

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